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DOVE DORMIRANNO I POVERI?

di Gustavo Gutiérrez

 

DOVE DORMIRANNO I POVERI?

Gustavo Gutiérrez

Perù, sett. 1999

In questi ultimi anni una serie di avvenimenti (economici, politici, culturali ed ecclesiali) ha delineato, in un ritmo sorprendente, una situazione del tutto nuova. Questa è stata definita come cambiamento di un’epoca, sebbene non ci sia ancora la distanza storica necessaria per qualificarla in forma definitiva. Ma non c’è alcun dubbio sulla novità della situazione attuale.

Si tratta di una condizione che porta a ripensare molte cose. Un buon numero di analisi e di proposte annunciate in anni recenti ha perso efficacia, numerose discussioni e precisazioni di questo tempo non rispondono pienamente alle sfide attuali. Ignorare questi cambiamenti significherebbe chiudersi nel passato, vivere di nostalgia e condannarsi a vivere voltando le spalle alle persone di oggi. Non si tratta di un frivolo “stare al passo coi tempi”, ma di una questione di serietà in relazione alla solidarietà e all’attenzione che dobbiamo agli altri. Inoltre per un cristiano significa essere aperto a ciò che il Signore vuole dirci attraverso gli avvenimenti storici che devono essere letti, nella linea di Giovanni XXIII e del Concilio, come segni dei tempi.

E’ necessario interpretare le peculiarità che vanno configurando quest'epoca. Ciò implica apertura e disposizione ad ascoltare. Allo stesso tempo, e in funzione del compito di annuncio del Regno di Dio e del discorso sulla fede, è necessario esaminare la nuova situazione a partire dal Vangelo. Lo faremo in forma molto concreta a partire dall’opzione preferenziale per il povero. Una questione centrale nella teologia della liberazione.

A questo proposito può essere chiarificatore un breve passaggio del libro dell’Esodo. Tra le prescrizioni che Mosé riceve da Yahvé per trasmetterle al suo popolo si trova quella di preoccuparsi di dove dormiranno coloro che non hanno di che coprirsi (cf. es. 22,26). Il testo ci invita a porre una domanda che ci evidenzia ciò che accade nel momento attuale: “Dove vanno a dormire i poveri nel mondo che si prepara e che, in un certo qual modo, ha già dato i suoi primi passi? Cosa sarà dei preferiti da Dio nel tempo che verrà?”

Nel mondo della rivoluzione tecnologica e dell’informazione, della “globalizzazione”, dell’economia, del neoliberalismo e del preteso postmodernismo, c’è spazio per coloro che oggi sono poveri ed emarginati o che cercano di liberarsi da una condizione disumana che calpesta la loro condizione di persone e di figli di Dio? Quale ruolo hanno il Vangelo e la fede dei poveri in un tempo allergico alle certezze e alla solidarietà umana? Cosa significa oggi fare l’opzione preferenziale per i poveri nel cammino verso una liberazione integrale? E’ chiaro che potremo iniziare solo un tentativo di risposta di fronte alle sfide del presente.

                                  

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1. TEOLOGIA E ANNUNCIO DEL VANGELO

La fede è una grazia. Accogliere questo dono significa collocarsi tra i passi di Gesù, mettendo in pratica i suoi insegnamenti e continuando la sua proclamazione del Regno. Nel punto di partenza di tutta la teologia sta l’atto di fede. Pensare la fede è qualcosa che sorge spontaneamente nel credente, una riflessione motivata dalla volontà di rendere più profonda e più fedele la sua vita di fede. Ma questa non è una questione puramente individuale, la fede si vive sempre in comunità. Entrambe le dimensioni, quella personale e quella comunitaria, marcano tanto l’esperienza della fede quanto la sua comprensione.

1. La riflessione teologica.

Il compito teologico è una vocazione che si suscita e si esercita nel seno della comunità ecclesiale. Esso è al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa. Questa collocazione e questa finalità gli conferiscono il suo significato e definiscono i suoi conseguimenti. La teologia è un parlare intorno a Dio animato dalla fede; Dio è, in realtà, il primo e ultimo tema del linguaggio teologico. Molti altri punti possono essere toccati, ma questo accade solo nella misura in cui essi parlano di una relazione con Dio.

L’approssimazione teologica è sempre insufficiente. E’ necessario essere disposti a intraprendere nuovi cammini, affinare nozioni, modificare il modo di avvicinarsi ai problemi. Da qui la diversità, all'interno dell'unità della fede della Chiesa, degli approcci alla Parola rivelata nel corso della storia. In effetti, nessuna teologia si identifica con la fede, secondo quanto recita un’affermazione tradizionale. I diversi sforzi di comprensione della fede sono utili e fecondi, ma a condizione che nessuno di loro si presenti come l’unico valido. Il significato e la portata di queste riflessioni richiedono una chiara consapevolezza della modesta assistenza che prestano ai compiti primari della Chiesa.

La riflessione teologica si colloca in primo luogo, come detto prima, al servizio della vita cristiana e della missione evangelizzatrice della comunità ecclesiale. Ma proprio per questo costituisce anche un servizio all’umanità. Per mezzo di essa e tenendo conto dei grandi problemi umani, la Chiesa deve proclamare con un linguaggio accessibile e stimolante tanto la presenza del Regno di Dio che si attua nell’oggi del divenire storico, quanto il suo arrivo futuro e pieno. Questa prospettiva è uno degli assi del Concilio Vaticano II. L’acquisizione di un linguaggio appropriato presuppone un’immersione nei grandi desideri e nelle necessità degli esseri umani, così come la conoscenza attenta e critica delle correnti intellettuali di un’epoca (cf. Gaudium et Spes n.44). In questo incarico l’impegno dei cristiani e la riflessione teologica giocano un ruolo fondamentale.

Evangelizzare significa annunciare con opere e parole la salvezza in Cristo. Avendo vinto nella radice le forze del peccato che dominano l’”uomo vecchio”, attraverso la sua consegna fino alla morte e attraverso la sua Resurrezione al Padre, il Figlio di Dio fatto carne spiana il cammino dell’”uomo nuovo” affinché dia compimento alla sua vocazione di comunione con Dio nel “faccia a faccia” paolino (1Cor. 13).

Ma proprio perché questa liberazione dal peccato va al cuore stesso dell’esistenza umana, là dove la libertà di ciascuno accetta o rifiuta – in ultima istanza – l’amore gratuito e redentore di Dio, nulla sfugge all’azione salvifica di Gesù Cristo. Questa raggiunge e pone la sua impronta a tutte le dimensioni umane, personali e sociali.

Le teologie portano necessariamente il marchio del tempo e del contesto ecclesiale in cui nascono. Vivono mentre continuano a essere valide le condizioni nelle quali nacquero.

Naturalmente le grandi teologie superano in un certo modo queste frontiere cronologiche e culturali, quelle di minor importanza – per quanto siano state significative nel loro momento – saranno più
soggette al tempo e alle circostanze. Ci riferiamo, certamente, alle modalità particolari di una teologia (stimoli immediati, strumenti di analisi, nozioni filosofiche, e altre), non alle affermazioni
fondamentali che concernano le verità rivelate. La storia della teologia illustra con chiarezza ciò che
abbiamo appena segnalato.


D’altro canto si deve osservare che tutta la riflessione teologica entra in dialogo con altri tentativi di comprensione della fede, seppure con i suoi limiti e le sue mancanze, con le sue passioni e i suoi intenti in conclusi. Ciò che è proprio di una teologia è aiutare a chiarire la consapevolezza del credente in ordine al suo incontro con Dio e a ciò che implica la Buona Novella per la comunità cristiana e per il mondo. Ciascuno lo fa con le proprie risorse e i propri limiti, si arricchisce con l’apporto di altre tecnologie e contribuisce a esse. La cosa più importante per un discorso sulla fede non è durare, e ancor meno perdurare, ma portare le sue acque a fiumi più larghi e ricchi d’acqua, alla vita della Chiesa.


Per tutto questo, ci devono interessare le sofferenze e le angustie, le allegrie e le speranze delle persone di oggi, così come la situazione attuale del compito evangelizzatore della Chiesa, più che il presente e il futuro di una determinata teologia.

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2. Nella prospettiva della teologia della liberazione.


Naturalmente tutto ciò che è stato detto sulla funzione della teologia in generale vale per una teologia determinata. E’ il caso della teologia della liberazione. Come ogni comprensione della fede, essa nasce in un luogo e in un momento precisi cercando di rispondere a situazioni storiche, mobili per natura, che sfidano e a volte aprono nuove rotte al compito evangelizzatore della Chiesa. Per questo, in un tale sforzo per capire il dono della fede, la comprensione della fede è permanente, e contemporaneamente è mutevole in quanto risponde a interpellanze concrete e a un mondo culturale dato.

 
Un criterio evangelico

Come è ben noto, la teologia della liberazione, che nacque da un’intensa preoccupazione pastorale, è stata legata sin dai suoi inizi alla vita della Chiesa, alla sua celebrazione comunitaria, alla sua inquietudine evangelizzatrice e al suo impegno per la libertà con la società latinoamericana, in particolare con i più poveri dei suoi membri. Le conferenze episcopali latinoamericane di questi decenni (Medellìn, Puebla, Santo Domingo), numerosi testi di episcopati nazionali e altri documenti controfirmano questa asserzione, anche quando ci invitano a un discernimento critico di fronte ad asseverazioni infondate e a posizioni che alcuni pretendevano di dedurre da questa prospettiva teologica.

In linea con il tema che ci siamo proposti vorremmo ora porre l’accento su alcuni aspetti dell’apporto della vita e della riflessione della Chiesa presente in America Latina in vista del tempo che viene.

Il suo contributo fondamentale, ci sembra, gira intorno alla cosiddetta opzione preferenziale per il povero. Essa ordina, approfondisce ed, eventualmente, corregge molti impegni assunti in questi anni, così come le riflessioni teologiche vincolate ad essi. L’opzione per il povero è radicalmente evangelica, per questo costituisce un criterio importante per operare un vaglio nei diversi avvenimenti e correnti di pensiero dei nostri giorni.


La proposta di Giovanni XXIII riguardo alla “Chiesa di tutti e specialmente la Chiesa dei poveri” trovò in America Latina una terra fertile. Il nostro è l’unico continente maggiormente povero e cristiano insieme. La presenza di una massiccia e disumana povertà portò a interrogarsi sul significato biblico della povertà.

Dalla metà degli anni 60 si formulò nel campo teologico la distinzione tra tre accezioni del termine povero:

a) la povertà reale (chiamata frequentemente, materiale) come una condizione scandalosa, non desiderato da Dio;

b) la povertà spirituale, detta anche infanzia spirituale, un’espressione dalla quale – non l’unica – viene il distacco di fronte ai beni di questo mondo;

c) la povertà come impegno: solidarietà con il povero contro la povertà.


Medellin accolse con autorità questa distinzione, la quale ottenne così un’enorme portata nell’ambito della Chiesa latinoamericana e anche oltre. Questa impostazione ispirò l’impegno e la riflessione di molte comunità cristiane e divenne il fondamento di ciò che nei dintorni di Puebla e nei testi di questa conferenza episcopale si sarebbe indicato con la frase: opzione preferenziale per i poveri. In effetti, nei tre termini di questa espressione troviamo, una a una, le tre nozioni distinte in Medellin. Più tardi la conferenza di Santo Domingo avrebbe riaffermato questa opzione alla quale dobbiamo ispirarci “per ogni azione evangelizzatrice comunitaria e personale” (n. 178).


Detta opzione riprende e ricorda una penetrante linea biblica che in un modo o nell’altro fu sempre presente nel mondo cristiano. Inoltre la formulazione presente le dà nuova efficacia nelle circostanze attuali, essa ha fatto il suo cammino e si trova nel magistero ecclesiastico universale. Giovanni Paolo II si è riferito a essa in numerose occasioni, ne menzioniamo solo due. Nella Centesimus Annus afferma che “rileggendo” la Rerum Novarum alla luce di realtà contemporanee si può osservare che essa è “un testimone eccellente della comunità, dentro la Chiesa, di ciò che ora si chiama opzione preferenziale per i poveri” (n.11). E nella recente lettera Terzo Millennio, di particolare interesse per il nostro tema, ricordando che Gesù venne a evangelizzare i poveri (in riferimento a Mt 11,5 e Lc 7,22), si chiede: “Come non sottolineare in modo più deciso l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e gli emarginati?” (n. 51).

Preferenza e gratuità

La tematica della povertà e dell’emarginazione ci invita a parlare di giustizia e a tenere presente i doveri del cristiano al riguardo. Così è in verità, e questa impostazione senza dubbio è feconda. Ma non bisogna perdere di vista ciò che fa sì che l’opzione preferenziale per i poveri sia una prospettiva tanto centrale. Nella radice di questa opzione si trova la gratuità dell’amore di Dio. Questo è il fondamento ultimo della preferenza.

Il termine stesso della preferenza rifiuta ogni esclusività e cerca di evidenziare coloro che devono essere i primi - non gli unici – nella nostra solidarietà. E’ un topico frequente, commentando il significato dell’opzione, affermare che la grande sfida viene dalla necessità di mantenere al tempo stesso l’universalità dell’amore di Dio e la sua predilezione per gli ultimi della storia. Rimanere solo con uno di questi estremi significa mutilare il messaggio evangelico.

In ultima istanza, l’opzione per il povero è - è importante sottolinearlo – un’opzione per il Dio del Regno che ci annuncia Gesù. La ragione definitiva dell’impegno con i poveri e gli oppressi non sta, di conseguenza, nell’analisi sociale che utilizziamo, e nemmeno nell’esperienza diretta che possiamo avere della povertà, o nella nostra compassione umana. Tutti questi sono motivi validi che hanno senza dubbio un ruolo significativo nelle nostre vite e nelle nostre solidarietà. Tuttavia, in quanto cristiani, questo impegno si basa fondamentalmente sulla fede nel Dio di Gesù Cristo. E’ un’opzione teocentrica e profetica che affonda le sue radici nella gratuità dell’amore di Dio ed è richiesta da essa. E non c’è nulla di più esigente, lo sappiamo, che la gratuità (cf. la lettera di Paolo a Filemone v. 21).

Si deve prediligere il povero non perché sia necessariamente migliore di altri dal punto di vista morale o religioso, ma perché Dio è Dio. Tutta la Bibbia è marcata dall’amore di predilezione di Dio per i deboli e i maltrattati della storia umana. Ce lo rivelano acutamente le Beatitudini evangeliche: esse non affermano che la preferenza per i poveri, gli affamati e i sofferenti ha il suo fondamento nella bontà gratuita del Signore. L'opzione preferenziale per il povero non è per questo solo una norma pastorale e una prospettiva di riflessione teologica, essa è anche, e in primo luogo, un cammino spirituale, nel significato forte dell’espressione. Un itinerario nell’incontro con Dio e con la gratuità del suo amore, un camminare “in presenza del Signore per il paese della vita” (salmo 116,9). Se non si va sino a questo livello di spiritualità nel seguire Gesù, cioè sino al cuore della vita cristiana, non si percepisce la portata e la fecondità di detta opzione.

Un filosofo dalle profonde radici bibliche (e talmudiche) ha sviluppato un pensiero, più concretamente un’etica (per lui, la filosofia prima) dell’alterità che può illuminare le nostre considerazioni. Alludiamo a E. Levinas. “La Bibbia - ci dice – è la priorità dell’altro in relazione all’io”. Ciò che vale per ogni persona si fa ancora più radicale quando si tratta del povero, “nell’altro - continua – io vedo sempre la vedova e l’orfano. L’altro viene sempre prima di me”. La vedova, l’orfano, e lo straniero costituiscono la triologia che nella Bibbia designa il povero.

Il fatto che l’altro venga prima è qualcosa che appartiene alla sua condizione di altro, questo deve essere così anche quando l’altro mi ignora o mi guarda con indifferenza. Non si tratta di una questione di reciprocità, siamo davanti a un primato dell’altro, che dà luogo a quello che il nostro autore chiama “l’asimmetria della relazione interpersonale” o la “asimmetria etica”.

Teologicamente diremmo che se l’altro e, in modo molto esigente, il povero deve venire prima è per gratuità, perché è necessario amare come Dio ama. Dare non perché si è ricevuto ma perché si ama. “Dio ci amò per primo” ci dice Giovanni (1 Gv 4,19). Essere cristiano è rispondere a questa iniziativa.

Etica esigente perché pone dei dubbi. La relazione con l’altro richiede inoltre per il cristiano una maggiore profondità quando si considera la fede nell’Incarnazione e se è attento ai suoi riverberi. La Bibbia enfatizza il vincolo tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo. Maltrattare il povero è offendere Dio, ci dice in diversi modi. Questa linea di forza si afferma nei Vangeli e culmina con il testo di Matteo del giudizio finale (25, 31-46). Il gesto nei confronti del povero è un atto diretto a Cristo stesso. Come si dice a Puebla, nei “volti molto concreti” dei poveri dobbiamo “riconoscere i tratti sofferenti di Cristo, il Signore, che ci interroga e interpella” (n. 31). La vita cristiana si muove tra la grazia e l’esistenza.

Questa percezione, profondamente biblica, mantiene con chiarezza la distinzione tra Dio e l’essere umano, ma non li separa. L’impegno con il povero non si limita allo spazio sociale; questo è presente con evidenza, ma racchiude anche, e come qualcosa di primordiale, un contenuto profondamente spirituale e un fondamento cristologico. Ha una relazione stretta e indissolubile con le verità basilari della nostra fede. Solo in questo telone di fondo si apprezza il significato dell’opzione preferenziale per il povero. Così l’hanno vissuta e la vivono molti cristiani in America Latina. Per questo risulta un criterio fondamentale e fecondo per comprendere, dal punto di vista della fede, i tempi che corrono.

 
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II – VERSO UN’ECONOMIA PLANETARIA

Un tema frequente di questo tempo è la cosiddetta “globalizzazione” dell’economia. Il cammino verso un mondo, in un certo qual modo, unico fu intrapreso dall’umanità negli ultimi secoli, ma oggi si accentua questa peculiarità.

1. Un secolo affascinante e crudele

Poco tempo fa Enrique Iglesias, presidente della Banca Interamericana di sviluppo (BID), diceva che il secolo venturo sarebbe stato “un secolo affascinante e crudele”. Come tutte le frasi un po’ paradossali, questa ci risulta problematica e piena di attrattiva. Ciò nonostante, se ci fermiamo a leggerla più da vicino, ci rivela la tragica realtà che esprime.

In effetti, grazie allo straordinario sviluppo della scienza e della tecnica, si è aperta un’epoca affascinante. Con una possibilità di comunicazione (o per lo meno di informazione) tra le persone che mai fino a ora l’umanità aveva conosciuto e con una capacità di dominio della natura che supera i confini del nostro pianeta e rende realtà ciò che fino a poco fa sembrava fantascienza. A questo si aggiunge un’opportunità di consumo illimitato e, disgraziatamente, un potenziale di distruzione che può raggiungere tutto il genere umano. Come esseri umani e come credenti non possiamo che avvalorare e ammirare questi progressi, nonostante i nuvoloni che già si delineano all’orizzonte.

Ciò nonostante, di fatto il tempo che viene sarà affascinante per le persone che possiedono un certo livello sociale e partecipano ai livelli di punta della conoscenza tecnologica. Coloro che hanno questa possibilità tendono a formare uno status umano internazionale, chiuso su se stesso, dimentico di coloro – incluso quelli che appartengono allo stesso paese – che non formano parte del loro club.

Questi ultimi sono i poveri. A essi si applica principalmente il secondo aggettivo della frase. Il prossimo secolo sarà crudele per gli “insignificanti” della storia. La loro povertà e la loro emarginazione – se non facciamo un immenso sforzo di solidarietà – aumenterà, ci sarà una maggior miseria e saranno più numerosi coloro che vivono in essa, come lo dimostrano tutti gli indici degli organismi internazionali al riguardo.

In altre parole, il futuro immediato non sarà, in realtà, affascinante e crudele per le stesse persone. Ciò rende più urgente la sfida che presenta il nostro tempo, e maggiore l’interpellanza alla fede nel Dio di Gesù Cristo che ama tutti e chiama a proteggere i più piccoli.

Un mercato senza condizioni

Viviamo in un’epoca sempre più dominata dall’economia liberale, o neoliberale se si preferisce. Il mercato senza restrizioni, chiamato a regolarsi con le proprie forze, passa a essere il principio quasi assoluto della vita economica. Il celebre e classico “lasciar fare” degli inizi dell’economia liberale postula oggi in forma universale – in teoria almeno – che ogni intervento del potere politico, sia anche per occuparsi delle necessità sociali, va a danno della crescita economica e si ripercuote a danno di tutti. Per questo, se si presentano difficoltà nell’andamento economico, l’unica soluzione è più mercato.

Dopo alcune trasformazioni, l’onda liberale ha ripreso impulso nell’ultimo periodo e cresce senza limitazioni. Le grandi imprese transazionali (l’elemento dominante nell’attuale ordine economico) e i paesi ricchi premono sui più poveri affinché aprano i loro mercati, privatizzino le loro economie e portino a termine ciò che si definisce come aggiustamenti strutturali. Gli organismi internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale) sono stati agenti efficaci in questa integrazione delle economie deboli a un mercato unico. La consapevolezza dell’interdipendenza in quanto tale può avere molto di positivo, ma la forma che essa riveste attualmente è di un'asimmetria che sottolinea le ingiuste disuguaglianze esistenti. L’elemento di punta nella globalizzazione dell’economia è il capitale finanziario che naviga per il mondo attraversando le frontiere con una mobilità incredibile dietro nuovi e migliori guadagni. Le economie nazionali – incluso quelle dei grandi paesi – si fanno sempre più sfumate.

Un aspetto di questa globalizzazione, e uno dei più dolorosi e angustianti per i paesi poveri, è quella del debito estero che mantiene soggette e oppresse le nazioni debitrici. Se questo problema non riceve presto una soluzione appropriata ci sono poche possibilità che i paesi poveri possano uscire dalla situazione in cui si trovano attualmente.

Diversi fattori sono intervenuti nel processo che ha portato a questo risultato. Ne nominiamo due. Senza dubbio, a livello politico, è stato centrale il crollo del socialismo autoritario in Russia e nei Paesi dell’Est, che non volle vedere la complessità delle dimensioni umane e violò sistematicamente il diritto alla libertà. Da un mondo bipolare siamo transitati a un altro unipolare, in verità più nell’aspetto politico e militare che in quello economico.

L’altro fattore, di più ampio respiro, è il ruolo che ha assunto la conoscenza tecnologica (nuovi materiali, nuove fonti di energia, biotecnologia). Tra i suoi versanti più dinamici c’è l’informatica. Questo fattore ha portato notevoli cambiamenti nel processo della produzione. Inoltre è sempre più chiaro che oggi la conoscenza è diventata l’asse di accumulazione più importante nell’attività economica. I progressi in questo campo hanno permesso di premere l’acceleratore sullo già sfrenato sfruttamento – e depredazione – delle risorse naturali del pianeta, che sono un patrimonio comune dell’umanità. Ciò ha evidenziato la gravità della questione ecologica al giorno d’oggi.

Con i suoi conseguimenti e violenze, i suoi progressi e crudeltà, le sue possibilità e dimenticanze, il panorama dell’economia e del tessuto sociale contemporaneo è cambiato, in questi ultimi anni, con rapidità vertiginosa, come non lo aveva fatto per secoli. La nuova situazione si appella a un rinnovamento di metodi di analisi che permettano di dare conto della molteplicità dei fattori in gioco nel tessuto sociale ed economico del nostro tempo. Ma essa ci chiama anche a considerarla partendo da un’etica cristiana e da una riflessione teologica in vista di un necessario discernimento.

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Etica ed economia.

L’etica, e molto concretamente l’etica cristiana, ha da dire qualcosa al mondo dell’economia?

La domanda non avrebbe avuto senso nel sec. XVI. Sorpresi i teologi moralisti dell’epoca (tra i quali Francisco de Vitoria), che si occuparono delle questioni che poneva il capitalismo nascente (a volte lo si è chiamato capitalismo mercantile), si sarebbero azzardati solo a dire che la risposta è ovviamente affermativa. Tuttavia nei classici dell’economia del sec. XVIII troviamo delle preoccupazioni di ordine filosofico ed etico nel nuovo campo che vanno esplorando.

Poco a poco però la disciplina nascente tende a conformarsi al modello e alla razionalità delle scienze naturali e incomincia a rivendicare la sua autonomia rispetto alla politica. Pretende persino di sostituirla, dopotutto è sul terreno economico, dove, si pensa, si gioca la parte decisiva per la vita nella società. Se consideriamo la situazione del mondo politico intorno a questo tema, dobbiamo convenire che agli occhi della maggior parte dei cittadini è così. La politica diventa sempre più uno scenario in cui succedono cose senza trascendenza. Da qui il suo crescente discredito nel mondo di oggi, comprese America Latina e Caribe.

Ma c’è di più, l’economia moderna sfida le norme morali ammesse comunemente e non solo nei circoli che possiamo chiamare tradizionali. L’invidia, l’egoismo, la cupidigia diventano motori dell’economia; la solidarietà, la preoccupazione per i più poveri sono visti, al contrario, come intoppi alla crescita economica e sono in ultimo controproducenti per raggiungere una situazione di benessere della quale tutti possano un giorno beneficiare.

Alcuni perspicaci economisti della tradizione liberale furono consapevoli di questo sconvolgimento di valori, ma lo accettavano perché vedevano in esso qualcosa di necessario e inevitabile. E’ il caso di J. M. Keynes che in un testo del 1928-30 affermava con raccapricciante lucidità: “Nel momento in cui l’accumulazione non avrà tanta importanza sociale (…) potremo liberarci di molti dei principi pseudomorali che abbiamo avuto su di noi per duecento anni (…) L’amore per il denaro come possesso (…) sarà riconosciuto come ciò che realmente è: qualcosa di morboso e detestabile”.

Keynes pensa che arriverà il momento in cui sarà possibile chiamare le cose per il loro nome e dire “che l’avarizia è un vizio, che la pratica dell’usura è un delitto e l’amore per il denaro qualcosa di detestabile”. Ma con una rassegnazione disincantata e inquietante sostiene: “Attenzione! Non siamo ancora in questo momento. Ancora per almeno cent’anni dobbiamo fingere tra di noi e davanti a tutti gli altri che la cosa giusta è cattiva e la cosa cattiva è giusta”. La ragione di questa inversione di valori ha le sue radici nel fatto che “la cosa ingiusta è utile e la cosa giusta non lo è. L’avarizia, l’usura e la precauzione devono essere i nostri dei per ancora un po’ di tempo. In effetti solo questi possono condurci fuori dal tunnel della necessità economica e portarci alla luce del giorno”.

La citazione è stata un po’ estesa e ci scusiamo per questo, ma rivela molto bene le relazioni difficili tra etica ed economia secondo il giudizio di uno dei grandi economisti del nostro tempo. Non tutti i pensatori liberali, seppure Keynes è riconosciuto come un moderato tra di loro, hanno la sua perspicacia e la sua franchezza; assumono meglio senza reticenza l’attitudine che deriva dalle intimidazioni di un’economia marcata da un’impostazione aggressivamente individualista.

Il tema non è nuovo: è stato affrontato in molte occasioni e la grande quantità di studi attuali rispetto a esso sono una prova dell’importanza del trattare a fondo l’economia partendo da una prospettiva etica e teologica. E molto concretamente a partire dall’opzione preferenziale per il povero. Certamente si deve rispettare l’autonomia propria di una disciplina che tenta di conoscere nel modo più rigoroso possibile il campo dell’attività economica. A questo riguardo ci sono state nel passato molte interferenze indebite ed è necessario apprendere da questa esperienza. Ma questo non significa che l’economia sia un settore assolutamente indipendente dall’esistenza, come neppure è il nucleo o la totalità di essa. Il movimento economico deve essere obbligatoriamente collocato ed esaminato nel contesto della vita umana nel suo insieme e alla luce della fede. Il criterio dell’efficacia immediata non è quello definitivo.

La Populorum Progressio già nel 1967 impostò la necessità di uno “sviluppo integrale” (nn. 20-21). Raccogliendo elementi tradizionali dell’insegnamento sociale della Chiesa e andando alle fonti bibliche, Giovanni Paolo II collocò con fermezza la pietra angolare di un’impostazione cristiana: il primeggiare dell’essere umano rispetto alle cose, da cui deriva la priorità del lavoro in relazione al capitale (cf. LE PASSIM; l’idea era stata già presentata nella Redemptor Hominis 16).

Come abbiamo ricordato, oggi si moltiplicano e provengono da diverse latitudini i lavori intorno alle norme etiche necessarie per l’attività economica e sulla perversione religiosa che si esprime in certe giustificazioni dell’economia centrata nelle forze ristrette del mercato. Si riconoscono i valori della libertà, l’iniziativa personale, le possibilità che aprono all’umiltà i progressi tecnologici e, addirittura, la funzione che può compiere il mercato all’interno di certi parametri. Ma si denuncia in modo deciso la logica del mercato che assoggetta persone, popoli e culture, tanto con il suo affanno di rendere tutto omogeneo come attraverso le nuove fratture sociali che provoca. Si mette in questione nello stesso modo l’ipocrisia di un liberalismo economico che non disprezza le dittature e i totalitarismi e che slega con facilità la libertà economica da altre libertà.

Compito importante per la riflessione teologica in questo terreno è far vedere che nell’attuale ordine economico esistono “strutture di peccato” (SRS 36). Cioè, quali elementi di rottura dell’amicizia con Dio essi sono presenti nelle strutture socio-economiche che creano e mantengono ingiuste disuguaglianze tra le persone. Il peccato, non comprensibile per mezzo di una semplice analisi sociale, è effettivamente, per una riflessione cristiana, la radice di ogni ingiustizia sociale. Particolare attenzione devono meritare gli elementi idolatrici, calati nel fatto reale, e le giustificazioni del primato del lucro e del carattere assoluto del mercato.

In questo contesto ci interessa in modo speciale la questione dell’esclusione dei più poveri, irrilevanti per il sistema economico dominante. Il seguente paragrafo è dedicato a questo tema.

Destinati all’insignificanza

Il Vangelo di Luca ci porta una parabola che pone molti interrogativi e della quale, in questo momento, ci interessa ricordare solo due brevi frasi: “C’era un uomo ricco …”; “vicino alla sua porta era steso un uomo povero…” (16, 19 e 20).

Oggi è questa la situazione dell’umanità. Le nazioni povere giacciono al lato delle nazioni ricche, ignorate da queste ultime; ma c’è da aggiungere che la falla tra entrambe è sempre più grande. La stessa cosa accade all’interno di ogni paese. La popolazione mondiale si colloca in modo crescente nei due estremi dello spettro economico e sociale.

D’altro canto, e sorprendentemente, nel testo di Luca il povero ha un nome: Lazzaro; il ricco, il potente, al contrario, non lo ha. La situazione attuale è inversa, i poveri sono anonimi e sembrano destinati a un anonimato ancora maggiore, nascono e muoiono senza farsi notare. Pezzi rifiutati in una storia che sfugge alle loro mani e li esclude da essa.

Già introdotti in questa relazione con la parabola evangelica, possiamo osservare inoltre che i poveri ora non si trovano solo vicino alla porta dei paesi ricchi. Molti poveri combattono per entrarci in cerca di migliori o semplicemente di altre condizioni di vita. L’emigrazione in questa scala è una questione contemporanea e pone un’infinità di problemi nelle nazioni industrializzate, più di quanto ci informano i mezzi di comunicazione giorno per giorno. C’è un timore e un rifiuto degli immigranti, legali o illegali, che prende a volte la piega di un razzismo criticato dalla Chiesa in varie circostanze. Il problema probabilmente non potrà che aggravarsi nel futuro.
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Povertà: sfida alla teologia

La teologia della liberazione nacque dalla sfida che per la fede rappresenta l’enorme e disumana povertà esistente in America Latina e nel Caribe. Per questo i suoi primi abbozzi furono una riflessione sul significato biblico dei differenti tipi di povertà e una considerazione, alla luce della fede, del compromesso evangelizzatore dei cristiani e di tutta la Chiesa con i poveri. Si possono porre molte domande e numerosi interrogativi sugli sviluppi ulteriori di questa linea teologica e sull’analisi sociale utilizzata per comprendere la realtà della povertà e le sue cause. Ma per il momento, in ordine al nostro tema, chiediamoci semplicemente in quale modo si presenta in questo periodo l’interpellanza della povertà alla coscienza cristiana.

La prima verifica conferma che il problema si è aggravato. L’ultimo resoconto del PNUD porta cifre preoccupanti. La conclusione è che “il mondo è sempre più polarizzato, e la distanza che separa i poveri dai ricchi si allarga sempre più”. Qualcosa di simile accade all’interno di ogni paese, anche nelle nazioni ricche. Questi e altri dati mostrano che è cresciuta, in termini relativi e assoluti, la popolazione che si trova in situazione di povertà e di estrema povertà. Il risultato è penoso: si mantiene e addirittura si aggrava la povertà. Di conseguenza continuano a valere ai nostri giorni, e con maggior impulso e importanza, le sue sfide alla nostra solidarietà e alla nostra riflessione.

Un’espressione del peggioramento menzionato è la cosiddetta esclusione economica e sociale. Non si tratta di una realtà né una categoria di analisi totalmente nuova. In qualche modo i poveri furono sempre esclusi ed emarginati (si pensi alle popolazioni indigene e nere in America Latina e nel Caribe, per esempio). Ma questo non ci deve impedire di percepire ciò che c’è di diverso nel momento attuale.

La nozione di esclusione sociale ha varie dimensioni. A livello economico i nuovi modi di produzione, dovuti in gran parte alla rivoluzione della conoscenza, fanno sì che le materie prime perdano di valore, con le immediate conseguenze nei paesi poveri, e portano al fatto che l’accesso al mercato lavorativo dipenda dalla qualifica tecnica del lavoratore, cosa che esclude di fatto la grande maggioranza dei poveri di oggi. L’esclusione sul piano politico (non partecipazione alle decisioni che si prendono in quest'ambito) e in quello culturale (discriminazione per ragioni razziali e di genere) rafforza l’esclusione economica e si appoggia su di essa.

Questi fatti stanno creando una configurazione dell’umanità in due settori. Uno di questi, quello degli esclusi, è sempre meno rilevante per il funzionamento dell’economia mondiale e della società che si afferma in forma crescente. Per questo, da molti anni, parliamo dei poveri come degli “insignificanti”, nella misura in cui la loro dignità umana e la loro condizione di figli e figlie di Dio non è riconosciuta dalla società contemporanea. Termine che ci permette di ricordare, inoltre, che per il credente nel Dio che non fa distinzione tra le persone, nessuno può essere insignificante.

A partire dagli ultimi

Ispirandosi al magistero universale della Chiesa, qualche anno fa l’episcopato nordamericano poneva un criterio per giudicare una determinata politica economica. Alludendo all’opzione per il povero e alla necessità di valutare l’attività sociale ed economica “a partire dall’angolo dei poveri”, affermavano: “Se la società cerca di ottenere la giustizia per tutti, bisogna riconoscere la priorità delle rivendicazioni degli emarginati e di quelli i cui diritti sono negati”. Le ripercussioni sui più deboli sono un criterio per decidere sulla giustizia esistente in una società.

Questo è un punto di vista centrale, soprattutto se si considera che questi emarginati molte volte sono le vittime di un sistema economico-sociale. L’esperienza latinoamericana ci fece comprendere tempo fa che, in ultima istanza, la povertà significa morte. Morte precoce e ingiusta. Con questo non si vuole dire che non sia anche una realtà di ordine economico e sociale. Ma se ci fermiamo a questi livelli non percepiamo la radicalità di ciò che sta in gioco nel problema della povertà: la vita e la morte delle persone.

La povertà, così come la conosciamo oggi nel nostro mondo, è una questione globale che interpella ogni coscienza umana e una concezione cristiana della vita. Lo esprime con grande energia Giovanni Paolo durante la sua visita in Canada alcuni anni fa. Si tratta di un commento a Mt. 25, 31-46 che si adatta bene al nostro tema. “Cristo si presenta a noi – dice il Papa – come Giudice. Ha il diritto speciale di fare questo giudizio; ma si fece uno di noi, nostro fratello”. Invita poi a non fermarsi a un’interpretazione individualistica dell’etica cristiana, riconosciuto che anch’essa “ha una dimensione sociale”.

Poi, collocando le parole del Signore in un largo ed esigente contesto storico, sostiene che Cristo “si sta riferendo alla dimensione universale totale dell’ingiustizia e del male. Sta parlando di ciò che oggi siamo soliti chiamare contrasto Nord-Sud. Non solo Oriente e Occidente, ma anche Nord-Sud, il Nord sempre più ricco e il Sud sempre più povero”. Giovanni Paolo II prevede quindi gravi e impressionanti conseguenze per le nazioni ricche: “Alla luce delle parole di Cristo, questo Sud povero giudicherà l’opulento Nord. E i popoli poveri e le nazioni povere – poveri in modo diverso, non solo privi di alimenti, ma anche privati di libertà e di altri diritti umani – giudicheranno coloro che strappano questi beni, accumulando per se stessi il monopolio imperialista del predominio economico e politico a spese di altri”.

Il testo è severo, ma imposta le cose nel loro proprio terreno. Il grande e definitivo quadro della scena commentata, così come l’approfondimento del commento, ci aiutano a percepire le conseguenze teologiche del tema della povertà. Per importanti che siano, le sue dimensioni economiche e sociali non esauriscono, lo dicevamo prima, il suo significato per la nostra riflessione.

Prima di terminare è importante ricordare che i poveri, insignificanti ed esclusi, non sono persone passive che aspettano che si tenda loro una mano. Non hanno solo mancanze, in essi si agitano molte possibilità e ricchezze umane. Il povero e l’emarginato dell’America Latina molte volte sono possessori di una cultura con valori propri ed eloquenti che vengono dalla loro razza, dalla loro storia, dalla loro lingua. Hanno energie come quelle dimostrate dalle organizzazioni delle donne, in lungo e in largo nel continente, in lotta per la vita della loro famiglia e del popolo povero, con un’inventiva e una forza creatrice impressionante per affrontare la crisi.

La fede cristiana per una gran parte dei poveri dell’America Latina ha giocato un ruolo fondamentale in quest'attitudine, essa è stata una fonte d’ispirazione e una ragione poderosa per non voler perdere la speranza nel futuro. Grande è il coraggio per un popolo che proclama, come lo fece un abitante di Lima (1985) davanti a Giovanni Paolo II: “Abbiamo fame di pane, e abbiamo fame di Dio”, distinguendo senza separarle due radicali necessità umane. A questo saluto il Papa rispose con semplicità e vigore: “Che la fame di Dio rimanga e la fame di pane scompaia”.
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3. Indebolimento del pensiero.

La tappa storica in cui stiamo entrando è complessa. Agli aspetti economici e politici si sommano altri di carattere culturale che modellano nello stesso modo la mentalità contemporanea. Ci riferiamo a ciò che alcuni chiamano postmodernità o pensiero postmoderno. Siamo consapevoli dell’ambiguità del concetto, e soprattutto della denominazione, ma senza dubbio corrisponde a un lato della realtà.

Non si tratta, conviene dirlo all’inizio, di una questione confinata a minoranze intellettuali, sebbene sia in questi circoli che questa prospettiva acquisisce maggiore presenza. Non si deve neppure pensare che si limiti all’Europa e al Nord America, anche se – ancora una volta – è proprio lì dove si scrive e si discute più su questa materia. I mezzi di comunicazione, l’arte, la letteratura e anche certe teologie trasmettono alcune delle loro tesi oltre gli ambienti intellettuali dei paesi dell’ancora cosiddetto Terzo Mondo, e nello stesso tempo ne condizionano molte attitudini. Parecchi dei loro tratti rafforzano aspetti della dimenticanza degli insignificanti di questo mondo che avevamo ricordato nelle pagine precedenti a proposito del neoliberalismo. Altri, è vero, possono aprire nuove prospettive nel tema di cui ci stiamo occupando.

E’ utile, quindi, prima di affrontare questa questione, porci la domanda che ci serve da filo conduttore in queste pagine: “Dove dormiranno i poveri nel mondo postmoderno (o come si voglia chiamarlo)?” Cercare di rispondere a questi interrogativi ci aiuterà a rifinire meglio le piste che seguiranno partendo dal punto di vista del testimone cristiano.

Crisi della modernità

Non entreremo nel dibattito relativo al fatto se realmente siamo in un’epoca storica che possiamo chiamare postmodernità o se si tratta di una tappa della modernità, più esattamente di una visione di essa. Il tema è stato molto discusso ed esiste al riguardo una grande varietà di opinioni. Ma come abbiamo detto prima, la cosa certa è che ci sono aspetti della realtà che sono accentuati da queste prospettive e che meritano una certa considerazione. Ci sono ambivalenze e confusioni difficili da risolvere; ciò nonostante ci sono anche profili che tracciano un momento particolare del pensiero e della condotta umana quotidiana che per comodità – e senza troppa convinzione – chiameremo postmoderna.

Siamo di fronte a una reazione contro alcuni dei grandi temi della modernità. In concreto, contro ciò che i rappresentanti di questo pensiero chiamano i “grandi rapporti” (o “metarapporti”) propri della modernità. J. F. Lyotard li enuncia così: “emancipazione progressiva della ragione e della libertà, emancipazione progressiva o catastrofica del lavoro (fonte di valore alienato nel capitalismo), arricchimento di tutta l’umanità attraverso il progresso della tecnoscienza capitalista.” L’autore aggiunge, e questo è importante per noi: “E anche se si considera il cristianesimo all’interno della modernità (opposto, quindi, al classicismo antico) come salvezza delle creature per mezzo della conversione delle anime attraverso il rapporto mistico dell’amore martire”.

Il rifiuto frontale è della “filosofia di Hegel (che) totalizza tutti questi rapporti e, in questo senso, concentra in se stessa la modernità speculativa”. Per questo autore una filosofia della storia è sempre implicata nella legittimazione di un sapere per mezzo di un metarapporto. Ciò che è biasimato è la volontà di potere che i grandi rapporti della modernità presentano. Non solo i postmoderni vedono in quest'attitudine una violenza che toglie libertà agli individui e che per questo deve essere rifiutata.

Alludendo alla celebre analisi di Weber sulla modernità nel grande disincanto del mondo (o nella sua desacralizzazione) prodotto dalla nuova razionalità, si è parlato della postmodernità come del “disincanto del disincanto”. In effetti c’è una frustrazione rispetto alla modernità, questa non avrebbe compiuto le sue promesse. Al posto di pace sociale, di comportamenti razionali e trasparenti, e di felicità personale, abbiamo avuto guerre devastatrici, instabilità politica e terribili violenze. Il caso di Auschwitz è citato come un esempio paradigmatico di disumanità contro la quale reagisce la postmodernità. Molti dei progressi della scienza e della tecnica si sono convertiti in strumenti di distruzione.

Ogni concezione unitaria della storia rimane, di conseguenza, fuori gara. Non ha senso organizzare gli avvenimenti del mondo umano sotto l’idea di una storia universale dell’umanità. Una storia il cui sviluppo è in qualche modo conosciuto anticipatamente. Abbiamo solo piccoli rapporti, storie individuali e locali. Non ci sono fondamenti metafisici del divenire storico. Siamo di fronte a ciò che è stato chiamato una frammentazione del sapere umano.

Nello stesso movimento di fondo, ma con alcune divergenze con Lyotard, G. Vattimo pensa che “di ciò che è trattato bisogna considerare e calibrare ciò che comporta la dissoluzione del pensiero fondante, cioè della metafisica”. Ispirandosi a Nietzsche e Heidegger postula ciò che qualifica come “pensiero debole” e precisa che questo “non è un pensiero della debolezza, ma dell’indebolimento: il riconoscimento di una linea di dissoluzione nella storia dell’ontologia”.

Una conseguenza di queste premesse è il fatto che dentro la postmodernità trovano spazio molte posizioni e opinioni In essa c’è un enorme pluralismo che ha portato a dire che in questo pensiero “tutto vale”. Reagendo contro posizioni che si considerano dogmatiche e totalitarie si arriva a un relativismo culturale, tinto di un certo scetticismo di fronte alle possibilità di conoscenza che ha l’essere umano. Scetticismo che si ripercuote tanto sul piano dell’etica come su quello della politica.

Senza dubbio la critica postmoderna fa risaltare le debolezze e anche le contraddizioni della modernità. Si deve ricordare, tuttavia, che il pensiero moderno ha sempre coltivato l’autocritica, più di uno tra i suoi rappresentanti ha espresso la propria insoddisfazione di fronte ai risultati dell’illuminismo. Ma ora la critica è molto più radicale, inoltre essa ha superato i circoli intellettuali. Nello stesso tempo un’attitudine di fronte alla vita raggiunge diversi settori sociali, alcuni dei quali giocano un ruolo molto attivo nell’ambito culturale e in quello della comunicazione nella società contemporanea.

La frammentazione del sapere umano

Senza alcun dubbio c’è qualcosa di salutare nella reazione contro visioni totalizzanti della storia, che formano parte dei grandi rapporti. Queste impostazioni implicano un autoritarismo che è stato ben visto dai postmoderni. I poveri si sono visti molte volte manipolati da progetti che si pretendono globali senza considerazione per le persone e la loro vita quotidiana, e che orientati con tensione al futuro dimenticano il presente. Ma il pensiero moderno non si limita a questo, scava anche tutto il senso della storia e questo si ripercuote sul significato da dare a ogni esistenza umana. Ciò identifica, inoltre, la filosofia della storia di Hegel con la concezione giudaico-cristiana della storia e le ingloba nel suo rifiuto.

E’ giusto riconoscere che la critica postmoderna ci aiuta a non cadere in schemi rigidi e inamidati per interpretare il corso della storia. Situazione che a volte si è verificata all’interno del mondo teologico. Ciò nonostante, detto questo, è necessario ricordare che in una prospettiva cristiana la storia ha il suo centro nella venuta del Figlio, nell’Incarnazione, senza che questo voglia dire che la storia umana avanza ineluttabilmente seguendo piste tracciate e dominate da un ferreo pensiero reggente. Gesù Cristo come centro della storia è ugualmente il Cammino (cf. Gv. 14,6) verso il Padre, andatura che dà senso all’esistenza umana e alla quale tutti siamo chiamati. Questa vocazione dà la sua piena densità al presente, all’oggi, come lo abbiamo ricordato nelle pagine introduttive di questo lavoro.

Il sapere postmoderno rifiuta i grandi rapporti e valorizza i piccoli. Ci può aiutare in questo modo a essere più attenti e sensibili al locale e al diverso (uno dei suoi temi). In un mondo che – non senza contraddizioni con altre sue caratteristiche – presta sempre più attenzione alla diversità culturale e alle minoranze, questo ha conseguenze importanti. Nel contesto di America Latina e Caribe dove le etnie indigene, la popolazione negra e la donna cercano di affermare i loro valori e di rivendicare i loro diritti, questa peculiarità della postmodernità può risultare particolarmente feconda ed essere un correttivo a un certo imperialismo occidentale.

Ma non possiamo impedire il fatto che questa sensibilità è legata a un esacerbarsi dell’individualismo già presente nella modernità. La negazione del senso della storia accresce l’individualismo e rafforza il narcisismo della società attuale. Si è anche parlato, a questo riguardo, di una seconda rivoluzione individualista. Bisognerebbe fare attenzione al fatto che la critica al progetto della modernità non celi la volontà di rifugiarsi nell’individualismo e nella indifferenza ai più, cosa che dà luogo a una società chiusa in se stessa. Essa pretende un superamento della modernità: verso molti suoi aspetti la teologia della liberazione fu sempre molto critica, ma in un’ottica diversa rispetto a quella di questa teologia.

Contrariamente a ciò che la mentalità moderna pensava la religione non solo non si è esaurita o ridotta all’ambito privato, ma presenta una nuova vitalità. L’aspetto postmoderno può contribuire a rispettare il mistero e a dare così un apporto a ciò che alcuni considerano il sorgere di una nuova epoca religiosa. Gli esempi nel mondo di oggi sono molteplici. Dobbiamo osservare, tuttavia, che si tratta molte volte di una religiosità diffusa e confusa, portatrice di una credenza generica su Dio, che diffida di ferme convinzioni e resistente alle esigenze di comportamento che esse arrecano. Ma è un fatto della realtà attuale e sarà necessario tenerlo in considerazione a partire dalla visuale della fede.

I punti ricordati, e certamente altri ancora, convergono in un’attitudine disingannata di fronte alle possibilità di cambiare situazioni che alla luce dell’etica si considerano ingiuste e disumane. La frustrazione provocata da progetti non compiuti ha avuto come conseguenza un disinteresse per la sorte che corrono i più deboli della società. Viviamo un’epoca di uno spirito poco militante e impegnato. In una cornice neoliberale e postmoderna radicata in un aggressivo individualismo, la solidarietà risulta inoperante e un rimando al passato.

Se a questo si aggiunge lo scetticismo che fa pensare che tutte le opinioni valgono allo stesso modo e che ciascuno ha – come oggi si dice spesso – la sua verità, tutto è valido. La reazione contro visioni inglobanti – nonostante ciò che pure ha di sano – porta a cancellare dall’orizzonte ogni utopia o ogni progetto di qualcosa di diverso da ciò che attualmente esiste. Non occorre dire che le prime vittime di queste tendenze sono i poveri e gli emarginati per i quali sembra esserci pochissimo spazio nel mondo che si sta forgiando. E’ sempre facile criticare le utopie partendo da un topos invariabile e di cui si è soddisfatti.

Tuttavia, lo abbiamo già sottolineato, essere vigilanti di fronte a questi risultati del momento attuale e saper discernere in esso, non può far dimenticare i valori che si incontrano ugualmente in questa mentalità. In questa situazione complessa e a volte contraddittoria è necessario dare testimonianza del Regno di Dio, della solidarietà con i poveri e della liberazione di coloro che vedono violati i loro diritti più elementari. La riflessione sulla fede, la teologia, è chiamata a essere un’ermeneutica della speranza nel nostro tempo. Speranza nel Dio della vita, una delle linee di forza della riflessione che abbiamo portato avanti in questi anni.
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III - PROCLAMARE IL REGNO

Le osservazioni fatte fino a questo momento stabiliscono, e ci permettono di essere concisi nella loro presentazione, alcuni luoghi comuni che devono essere approfonditi teologicamente nel tempo che viene. Non possono essere aspetti assolutamente nuovi, appartengono al messaggio cristiano in cui i credenti si riconoscono come seguaci di Gesù e come Chiesa. La novità sta nella forma di avvicinarli, nelle sfide che si cerca di rispondere, negli aspetti inediti che svelano verità conosciute, nei cammini per esprimerli.

Questo vale anche per l’annuncio del Vangelo in cui la riflessione teologica si situa e si nutre. In questo senso si è parlato di nuova evangelizzazione. Giovanni Paolo II la presenta in questo modo: “Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nella sua espressione”. Il Papa ha ripreso con energia quest'impostazione in diverse occasioni e la conferenza di Santo Domingo ne fece uno dei suoi grandi temi.

La prospettiva della nuova evangelizzazione riappare come “il tema di fondo” nella preparazione del terzo millennio (cf. TMA 21). Occorre approfondire la “visione conciliare” (ib.), premesso che con il Concilio si iniziò la preparazione del giubileo del terzo millennio. “Un Concilio – dice significativamente Giovanni Paolo II – simile a quelli precedenti, sebbene molto differente; un Concilio centrato sul mistero di Cristo e della sua Chiesa, e allo stesso tempo aperto al mondo” (ibid 18). “Allo stesso tempo”, si tratta quindi di due aspetti inseparabili. Il contenuto salvifico del mistero di Cristo e della sua Chiesa deve essere comunicato in attitudine di apertura al mondo. In questa cornice cercheremo alcune considerazioni riguardo a certe piste in vista di questa comunicazione e alla riflessione teologica che essa implica.

1.      Liberati per la libertà

Prima è opportuno fare alcune brevi osservazioni sulle relazioni tra liberazione e libertà, questione centrale nella teologia della liberazione.

Tra la libertà “di” e la libertà “per”

Il punto di partenza è in un importante testo di Paolo nella lettera ai Galati sul tema della libertà del cristiano. “Per essere liberi (letterariamente: per la libertà) ci liberò Cristo”, dice Paolo (5,1). Liberazione dal peccato in tanto ripiegamento egoista su se stesso. Peccare significa negarsi ad amare Dio e gli altri, e per Paolo è anche liberazione della Legge e delle forze della morte (cf. Rom. 8,2). Il peccato, rottura dell’amicizia con Dio e con gli altri, è, nella Bibbia, la causa ultima dell’ingiustizia e l’oppressione tra gli esseri umani, e anche di ogni mancanza di libertà personale. Causa ultima, perché certamente ci sono altre che si situano a livello di strutture economiche e sociali, così come in quello delle dimensioni personali. Non è poi sufficiente una trasformazione, per quanto radicale possa essere, di queste strutture e di questi aspetti. Solo l’amore gratuito e salvifico di Cristo può arrivare sino alla radice di noi stessi e far germogliare lì un vero amore.

Ciò nonostante, Paolo non si limita a dire che Cristo ci liberò, afferma nello stesso modo che lo fece perché fossimo liberi. Secondo una classica distinzione occorre considerare una libertà di e una libertà per. La prima si riferisce al peccato, all’egoismo, all’oppressione, all’ingiustizia, alla necessità, tutte condizioni queste che richiedono una liberazione. La seconda indica il “per che cosa” di questa libertà: l’amore, la comunione, sono la tappa finale della liberazione. La libertà per dà il suo significato profondo alla libertà di. Se ci appelliamo a ciò che si dice nella stessa lettera ai Galati in 5,12, potremmo dire che l’espressione liberi per amare sintetizza la posizione paolina. Senza una riflessione sulla libertà, una teologia della liberazione rimane incompleta.

La libertà è un elemento centrale del messaggio cristiano. L’accento sulla liberazione non deve farlo dimenticare. E’ importante stabilire una relazione feconda tra liberazione e libertà. La questione si fa ancora più urgente di fronte ad alcune questioni del tempo presente. Esse ci portano anche a sottolineare la portata di un altro aspetto centrale della fede, strettamente legato al tema della libertà. Ci riferiamo al vincolo che stabilisce la Scrittura tra verità e libertà. “La verità li farà liberi” dice un celebre testo del Vangelo di Giovanni (8,32). Quella verità è Cristo stesso che ci libera e ci chiama alla libertà (cf. Gal. 5,13). Tutti gli esseri umani hanno diritto a che questa verità sia loro comunicata, annuncio che non solo deve rispettare la libertà, ma che deve anche costituirla in quanto tale. Libertà che, d’altro canto, non può rimanere chiusa in un ambito individuale e raccolto. Essa raggiunge il suo vero significato quando dispone le persone a entrare in relazione con Dio e a essere al servizio di altri con un’attenzione speciale verso i più poveri.

Il compito evangelizzatore della Chiesa deve far sì che le persone siano effettivamente libere. Libere per amare. In consonanza con questa finalità la riflessione teologica deve essere critica nei confronti di un pensiero che rinuncia alla ricerca della verità e deve transitare per cammini che permettano di approfondire il dono della verità che ci rende liberi.

Il suo Regno e la sua giustizia

Nel cuore del Discorso della Montagna si trova un versetto che in un certo modo lo riassume: “cercate prima il suo Regno e la sua giustizia, e tutte queste altre cose vi saranno date in sovrappiù” (6,33). Il soggetto dei due possessivi della prima frase si trova nel versetto precedente: è il “Padre Celeste”.

Questa ricerca dà la sua ragione di essere alla vita cristiana. Così, in un modo preciso e con una portata che è importante considerare, Matteo ci presenta il nocciolo di tutta la Bibbia: solo Dio. Dio è il Santo, il totalmente Altro, Quello i cui “disegni sono insondabili e imperscrutabili i suoi cammini (…) perché da Lui e per Lui sono tutte le cose” (Rom. 11,33 e 35). Fonte di vita e di amore (cf. Esodo, 3,14; Gv. 4,16). Un Dio lontano e vicino allo stesso tempo che ci chiama all’amicizia con Lui, fondamento di quella che deve esistere tra gli esseri umani. Il Dio santo è anche il Dio incarnato, accogliere il suo amore nelle nostre vite deve tradursi in gesti di vita verso gli altri.

Nel “faccia a faccia” con Dio (1 Cor.13,12) l’esistenza umana raggiunge la sua pienezza. E’ la speranza e l’esperienza dei mistici, l’unione con Dio di cui parlano spesso. “I miei occhi ti hanno visto”, proclama Giobbe (42,5) quando comprende che l’amore gratuito di Dio, senza limite né vincoli, è la base del mondo e non la sua stretta concezione di una giustizia di “tu mi dai, io ti do”. Giunto al termine del cammino, dice poeticamente Juan de la Cruz, “mi fermai e mi dimenticai, chinai il capo sull’amato (…) tra gigli dimenticato”. In forma molto bella lo esprime anche Luis Espinal, sacerdote assassinato in Bolivia per il suo impegno con i poveri: “Signore della notte e del vuoto, vorremmo sapere adagiarci nel tuo grembo impalpabile, con fiducia, con la sicurezza dei bambini”. L’esperienza mistica ha trovato sempre nella poesia il linguaggio più appropriato per esprimere il mistero dell’amore.

Nulla è più contrario alla ricerca di Dio, del suo regno e della sua giustizia, che il sevizio (nel significato forte del termine: il culto) a un idolo fabbricato con mani umane. L’idolatria, secondo la Bibbia significa dedicare la propria vita e porre la propria fiducia in qualcosa o qualcuno che non è Dio. Si tratta di un rischio permanente per il cristiano. Come abbiamo ricordato, oggi, nel contesto neoliberale, il mercato, il guadagno, sono oggetto di un culto idolatrico. Giovanni Paolo II per questo parla della “idolatria del mercato” (CA 40). E’ la forma contemporanea del culto a Mammone. All’idolatria del denaro si unisce quella del potere che passa sopra a ogni diritto umano. A questi idoli si offrono vittime, per questo i profeti biblici legano sempre idolatria e assassinio. Si contano tra queste vittime gli esclusi dal presente ordine economico internazionale.

Ma è necessario andare ancora più lontano, sebbene a qualcuno ciò risulti scomodo. Gli aspetti idolatrici del culto al denaro e della volontà di potere sono, purtroppo, chiari e notevoli nei nostri giorni e ripugnano una coscienza umana e cristiana. L’attitudine idolatrica può, tuttavia, entrare anche per la porta posteriore del nostro impegno con la liberazione del povero, per quanto ben ispirato questo sia, e per quanto si presenti molto ispirato alla fede cristiana. Affermarlo può risultare strano a prima vista, ma è necessario vedere le cose senza edulcorazioni né evasioni.

E’ possibile, per esempio, fare della giustizia qualcosa di molto vicino a un idolo se la convertiamo in un assoluto e non sappiamo collocarla nel contesto che le permette di spiegare tutto il suo significato: quello dell’amore gratuito. Se non c’è amicizia quotidiana con il povero e valorizzazione della diversità dei suoi desideri e necessità in quanto essere umano possiamo – sembra crudele dirlo, ma l’esperienza lo insegna – trasformare la ricerca della giustizia in un pretesto, e persino in una giustificazione per maltrattare i poveri, pretendendo di conoscere meglio di loro ciò che vogliono e di cui necessitano.

Nello stesso modo possiamo fare del povero una specie di idolo. Questo succede quando lo idealizziamo considerandolo sempre buono, generoso, profondamente religioso, pensando che tutto ciò che viene da lui sia vero e in un certo modo sacro. Questa qualità del povero si convertirebbe nel motivo principale della solidarietà con lui. Si dimentica così che i poveri sono esseri umani attraversati dalla grazia e dal peccato, come direbbe Sant’Agostino. Che ci siano in loro enormi dosi di generosità e dedizione è qualcosa che non può essere messo in dubbio, ma da qui a dire che è così in tutti i casi, significa misconoscere la complessità e l’ambiguità delle persone. L’idealizzazione del povero – che fa chi non lo è e a volte gli stessi poveri – non conduce alla sua liberazione. Inoltre, e soprattutto, è necessario ricordare che per un cristiano la ragione ultima dell’impegno con i poveri non risiede nelle loro qualità morali o religiose – sebbene queste esistano – ma nella bontà di Dio che deve ispirare la nostra stessa condotta.

D’altro canto, e in forma ancora più sottile, la nostra teologia, inclusa naturalmente la teologia della liberazione che tentiamo di elaborare nell’America Latina a partire dalle sofferenze e dalle speranze dei poveri, può essa stessa diventare un idolo. Questo ha luogo quando nella pratica essa passa a essere più importante della fede che l’illumina e anche della realtà che cerca di esprimere. E’ il rischio che arreca un lavoro intellettuale al quale ci aggrappiamo più del dovuto. Coloro che firmano i testi teologici non devono dimenticare che i veri testimoni della Chiesa latinoamericana che vuole manifestare la propria fede nel Dio della Bibbia attraverso la sua solidarietà con i poveri non sono loro. Non necessariamente, per essere più esatti. Sono più coloro che, spesso nell’anonimato, e rischiando la loro stessa vita, vivono l’impegno pastorale e sociale nel quotidiano delle loro vite. Anonimi per i mezzi di comunicazione ma non per Dio.

Per tutti questi motivi, testimoni come Juan de la Cruz e molti altri della tradizione mistica della Chiesa sono tanto importanti per la nostra riflessione teologica. Con lo scalpello della loro esperienza, e della loro poesia, ci aiutano a eliminare tutto ciò che, in qualche modo infettato di idolatria e di astrazione, ci fa mettere “l’aggiunta” al primo posto nella nostra ricerca e ci impedisce di vedere e sentire che solo Dio è Dio.

In ogni circostanza è centrale per i cristiani aver presente il primato di Dio nelle loro vite. La spiritualità, il seguire Gesù, è certamente non solo una preoccupazione rilevante in teologia ma il suo reale fondamento. Questo si fa in un certo modo più urgente quando questi cristiani si trovano immersi in ciò che i Papi chiamano “la nobile lotta per la giustizia”. Si tratta della giustizia di Dio, nel suo doppio versante biblico di giustizia tra gli esseri umani e di santità. Essa è strettamente legata al suo Regno di vita e di amore, secondo il testo di Matteo che abbiamo citato prima.

Per questo motivo il tema della spiritualità sin dall’inizio è stato centrale nella teologia della liberazione, per lo meno in una buona parte di essa. Questa è una riflessione sulla fede che si colloca nella tensione tra mistica e impegno storico. Abbiamo ricordato prima che l’opzione preferenziale per il povero, alla quale detta teologia è vincolata, è un’opzione geocentrica. Autentica scelta a favore dei poveri reali del mondo d’oggi, essa trova i suoi fondamenti nella gratuità dell’amore di Dio, ragione finale della preferenza. Il fondamento mistico è centrale per la proclamazione del Regno di Dio e delle sue esigenze di giustizia.

Questa linea di approfondimento spirituale è uno dei grandi compiti dell’evangelizzazione nei nostri giorni e anche della riflessione teologica. In questo si gioca ciò che deve essere la colonna portante dell’esistenza cristiana. Il senso di Dio, la presenza del suo amore nelle nostre vite. Non si tratta di compensare l’impegno nella storia appellandosi a dimensioni spirituali, ma di approfondirlo e conferirgli ogni suo significato. E’ importante – e necessario recuperare se fosse il caso – l’esercizio della teologia come scienza. Come un sapore, un sapere gustoso della Parola di Dio; un sapere con sapore orientato ad arricchire la vita quotidiana del credente e di tutta la comunità cristiana. Questo ci permette, inoltre, valutando il ruolo che svolge la ragione nella riflessione teologica, di aprirci ad altre forme di conoscenza delle verità cristiane. Il linguaggio simbolico, per esempio, è particolarmente fecondo al riguardo.
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La questione dell’altro

Secondo il giudizio di Carlos Fuentes il problema maggiore del secolo venturo è il problema dell’altro. Questa è una vecchia inquietudine nella cornice della teologia della liberazione che vede nel povero “l’altro” di una società sempre più soddisfatta di se stessa. Ma è innegabile che viviamo in un momento di accorciamento delle distanze nel pianeta (il villaggio globale) e, insieme, di una crescente consapevolezza della diversità di popoli, culture, generi, etnie, religioni. Questi non sono movimenti contraddittori come si potrebbe pensare. Si può anche dire che, in un certo modo, si rafforzano reciprocamente, sebbene a volte si scontrino frontalmente e si producano pericolosi tumulti.

Identità e dialogo

In America Latina i vecchi popoli indigeni hanno fatto sentire la loro voce di protesta per i maltrattamenti ricevuti nel corso dei secoli. Ma hanno levato la loro voce anche per arricchire gli Altri con l’abbondanza delle loro culture, l’amore per la terra fonte di vita, l’esperienza del loro rispetto per il mondo naturale e il loro senso della comunità, la profondità dei loro valori religiosi e il valore della loro riflessione teologica. Con le sfumature proprie per ciascun caso, qualcosa di simile accade con la popolazione nera del nostro continente, e con la nuova presenza della donna, specialmente quella che appartiene ai settori emarginati e  oppressi. Questo ha portato a un fecondo dialogo tra diversi punti di vista teologici.


E’ importante fare delle differenziazioni all’interno di questi gruppi umani, essi non sono congiunti uniformi. E’ necessario inoltre tener conto della sempre maggiore affermazione dei valori del popolo che risulta dalle croci, secolari e recenti, che ci sono in questo continente “di ogni sangue”, come  diceva Josè Marìa Arguedas parlando del Perù. Non pensiamo solo a un aspetto razziale, ma anche culturale e la cultura si trova in continua elaborazione. In effetti, essa non appartiene al passato, è creazione continua, in fedeltà e rottura rispetto a una tradizione. Da qui la sua capacità di resistenza di fronte a posizioni e idee che dissolvono la sua identità. Il passato e il presente del popolo – dei popoli – del nostro continente sono pieni di esempi di questo genere. 

D’altro canto, lo abbiamo già segnalato, l’aspetto postmoderno che arriva, con le sue ambiguità, a diverse condizioni sociali è proclive ad apprezzare il locale e il diverso. Non possiamo impedire, tuttavia, che questo si faccia a partire da un marcato scetticismo che relativizza ogni possibilità di un’acquisizione di verità universali.

Annunciare il Vangelo significa stabilire un dialogo salvifico, suppone il rispetto per l’altro e le sue peculiarità. Non cerca di imporsi ma di servire e persuadere. A questo deve puntare ciò che oggi chiamiamo inculturazione della fede e che senza dubbio corrisponde a una vecchia esperienza della Chiesa Si tratta di un doppio movimento: la fede cristiana deve incarnarsi costantemente in nuovi valori culturali, e, contemporaneamente, si può dire che le culture debbano assumere il messaggio evangelico.

Ciò nonostante, è importante notare che il dialogo implica interlocutori consapevoli della loro propria identità.

La fede cristiana e la teologia non possono rinunciare alle loro fonti e alla loro  personalità per entrare in contatto con altri punti di vista. Avere delle ferme convinzioni non rappresenta un ostacolo per il dialogo, è anzi la sua condizione necessaria. Accogliere, non per merito proprio ma per grazia di Dio, la verità di Gesù Cristo nelle nostre vite non solo non invalida la nostra relazione con persone con altre prospettive ma le conferisce il suo significato autentico. Di fronte alla perdita di riferimenti che alcuni sembrano vivere è rilevante ricordare che l’identità è una componente essenziale di una spiritualità.

Ciò che abbiamo appena detto può sembrare ovvio. Ma pensiamo a questa tendenza che vediamo oggi in molte persone e cristiani che credono che non ci sia un autentico dialogo se in un modo o in un altro non rinunciamo alle nostre convinzioni e alla nostra acquisizione della verità. Questo atteggiamento viene dal timore che purtroppo può essere illustrato con numerosi casi storici di imporre con la forza un punto di vista cristiano. Il pericolo è reale, è giusto riconoscerlo, ma la soluzione proposta è inconcludente. Inoltre, contrariamente a ciò che si pensa, è una mancanza di  rispetto per il destinatario della nostra comunicazione del Vangelo, al quale dobbiamo esprimere con chiarezza le nostre convinzioni, così come la nostra considerazione per le sue. 

Lo scetticismo, il relativismo, il “pensiero debole”, non riescono a trovare il linguaggio adeguato per un dialogo realmente rispettoso e proficuo. La grande sfida è saper portarlo a termine senza nascondere o smorzare le verità – e i suoi insegnamenti – in cui crediamo. E’ un’esigenza di fede e di onestà. Ma, detto questo, è necessario avere una grande capacità di ascolto e di apertura per ciò che il Signore ci può dire da altre prospettive umane e culturali. In un paradosso solo apparente potremmo dire che la capacità di ascoltare gli altri è tanto maggiore quanto più ferma è la nostra convinzione e quanto più trasparente è la nostra identità cristiana.

L’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi è oggi un elemento centrale dell’identità cristiana ed ecclesiale. La sua referenza al Padre Celeste che ci fa il dono del suo Regno e della sua giustizia è basica, il suo fondamento cristologico è chiaro ed evidente, essa porta il sigillo dell’amore e della libertà che ci dà lo Spirito Santo. Detta opzione costituisce un fattore d’identità ecclesiale.

Essa contribuisce in questo modo, a partire da un tratto proprio del messaggio cristiano, a entrare in dialogo con altre prospettive nel seno della comunità ecclesiale e fuori di essa.

Approfondire la linea di una umile ma ferma identità cristiana ed ecclesiale, e così portare avanti una feconda evangelizzazione, è oggi uno degli esigenti compiti della teologia di fronte a molte incertezze, problematiche e anche possibilità del mondo attuale. E’ lo stesso, senza dubbio, per la teologia della liberazione.

Un’etica della solidarietà

 I popoli indigeni dell’America Latina hanno una pratica secolare della solidarietà e della reciprocità. Pensiamo, per esempio, alle prestazioni di lavoro che si offrono tra di loro i membri di una stessa comunità. C’è molto da apprendere da questa esperienza che non appartiene solo al passato, ma che possiede un forte vigore nei nostri giorni.

Inoltre, in tempi recenti, il termine solidarietà e la riflessione su di esso sono temi frequenti nel continente. Per i cristiani la solidarietà esprime un amore efficace per tutti e in particolare per i più indifesi della società. Non si tratta solamente di gesti personali, la solidarietà è un’esigenza per tutto il congiunto sociale e significa un impegno di tutta la Chiesa.

Oggi il tema riveste delle proporzioni internazionali. Ed è tanto più urgente quanto più poderose correnti di pensiero legate al neoliberalismo e alla postmodernità screditano e rifiutano, in nome di un individualismo radicale, il comportamento solidale. Lo considerano arcaico, inefficace e anche – sebbene ci sembri strano - controproducente per lo sviluppo dei popoli, in modo particolare per i loro membri più derelitti. Da qui la loro valutazione dell’egoismo – non temono di usare la parola – che considerano uno stimolo per l’attività economica e dell’accumulazione di ricchezze che – secondo loro – non colpisce in nulla i poveri. Dall’altra parte, ma questo è un elemento che converge con quello anteriore, il settore dell’umanità affascinato dalle nuove forme di conoscenza tende a chiudersi in se stesso e a rompere la solidarietà con coloro con cui comunica sempre di meno.

Nel testo di Luca, basato come sappiamo su Isaia, il tema chiave è la libertà. A essa alludono tre dei suoi enunciati (liberazione degli schiavi, vista ai ciechi – cioè ai prigionieri, secondo il testo ebraico del profeta -, libertà degli oppressi). La libertà da ogni forma di morte (peccato, oppressione) è così legata all’uguaglianza, che è necessario ricominciare a stabilirla in un anno di grazia che non è altra cosa che un tempo di solidarietà. Tutto questo costituisce la materia della Buona Novella che deve essere annunciata ai poveri. Ispirandosi a questo passaggio Giovanni Paolo II sollecita a proclamare nuovamente, con parole e opere, il messaggio messianico di Gesù.

Due conseguenze hanno un particolare interesse per il nostro impegno e la nostra riflessione teologica. La prima concerne l’attualizzazione e l’approfondimento di un tema di radici bibliche e patristiche: il destino universale dei beni della terra. Oggi più che mai è opportuno ricordare che Dio ha dato a tutto il genere umano il necessario per il suo sostentamento. I beni di questo mondo non appartengono in modo esclusivo a determinate persone o gruppi sociali, qualsiasi siano la loro posizione nella società o le loro conoscenze, essi appartengono a tutti. Solo in questa cornice si possono accettare l’appropriazione privata di ciò che è d’obbligo per l’esistenza e ciò che è conveniente per un ordine sociale migliore.

Il tema è stato presente a partire dagli inizi del recente insegnamento sociale della Chiesa (cf. Leone XIII), ma la sua importanza si è fatta sempre più grande e acquisisce nuove portate. Di fronte a un ordine economico presentato come un ordine naturale che si regola da se stesso – mosso dalla famosa “mano invisibile” –a beneficio di tutti, che fa del lucro e del consumo un motore incondizionato dell’attività economica, che depreda la terra ed è in cerca di luoghi dove depositare l’immondizia industriale, l’asserzione del destino universale dei beni di questo mondo deve essere analizzata e approfondita.

Una riflessione su di esso farà vedere, contro ciò che alcuni possono pensare od obiettare, che non si tratta di una visione illusoria e romantica della convivenza sociale. E’ invece un’impostazione chiamata a mobilitare le energie personali per la fede nel Dio della vita, per la solidarietà umana e anche – è importante sottolinearlo – per efficacia storica. Abbiamo chiari esempi di questo impegno nei nostri giorni. Prospettiva utopica se si vuole, ma nel senso realista del termine che rifiuta una situazione disumana e si propone relazioni di giustizia e di cooperazione tra le persone. Si adoperi o no il termine di utopia, la cosa importante è non conformarsi con la sofferenza, la fame, la mancanza di libertà di molti e l’assenza della trasparenza democratica in molte nazioni. E’ sostanziale ugualmente essere convinti del fatto che i progressi reali dell’umanità ci permettono di scorgere la possibilità di forgiare una situazione diversa da quella attuale.

La seconda conseguenza che ci interessa far risaltare è quella che si riferisce all’opprimente problema del debito estero. E’ chiaro che i paesi poveri non possono pagarlo se non al prezzo della vita e del dolore di enorme frange della popolazione. Per questo il problema è prima di tutto etico. In qualche modo ogni questione economica importante che riguarda la vita delle persone lo è, ma per quanto riguarda il debito siamo davanti a qualcosa di così evidente che risulta mostruoso pretendere che si limiti a una questione tecnica. Senza dubbio le responsabilità qui sono condivise. Anche se è certo che la crisi degli anni 70 spinse agenzie internazionali, banche e paesi a collocare il loro denaro nelle nazioni povere, non possiamo nascondere la parte che riguarda i dirigenti politici e coloro che maneggiavano l’economia dei popoli in via di sviluppo.

Ma è evidente che il pagamento del debito lascerebbe – lascia già – milioni di poveri senza un luogo dove dormire. Si possono addurre molte ragioni per una sua cancellazione. Ma la più decisiva è quella etica, la vita e la morte di molte persone. Il magistero ecclesiale si è pronunciato chiaramente al riguardo. La Chiesa presente sia nei paesi ricchi che nelle nazioni povere svolge un ruolo importante in questa questione. 

La data simbolica (le grandi date storiche lo sono sempre) del 2000 è realizzata dal Giubileo che si propone nella TMA. Il significato biblico dell’allegria di fronte all’amore del Signore, della proclamazione della libertà, del ristabilimento di uguaglianza e giustizia e dell’annuncio della Buona Novella ai poveri è una chiamata alla solidarietà e alla riflessione. E lo è anche alla creatività, per non rimanere in una celebrazione frivola del cambiamento di millennio. La sorte dei poveri e degli esclusi, e ciò che esso implica riguardo alla nostra fedeltà al Dio di Gesù Cristo, si presenta come un’esigente e feconda sfida per la teologia della liberazione e per la teologia in generale.

Il Dio della vita

La povertà, come abbiamo osservato prima, significa in ultima istanza morte. Morte fisica di molte persone e morte culturale per l’emarginazione di molte altre. La percezione di questa situazione fece sì che alcuni decenni fa sorgesse con forza tra di noi il tema della vita, dono del Dio della nostra fede. La precoce apparizione dell’assassinio di cristiani dovuto alla loro testimonianza, convertì in qualcosa di ancora più urgente questa preoccupazione. Una riflessione sull’esperienza di persecuzione e di martirio ha dato vigore e importanza a una teologia della vita, permettendo di comprendere che l’opzione per i più poveri è un’opzione per la vita.

Una decisione, in ultima istanza, per il Dio della vita, per “l’amico della vita” come si dice nel libro della Sapienza (11,25). In queste espressioni incontriamo un modo di esprimere la fede e l’esperienza che animano l’impegno cristiano. L’esperienza vicina della violenza e della morte ingiusta non tollera evasioni o considerazioni astratte sulla Resurrezione di Gesù, senza la quale la nostra fede sarebbe vana, secondo le parole di Paolo. Essa ci rende ugualmente sensibili al dono della vita che abbiamo ricevuto da Dio, vita che comprende tanto gli aspetti spirituali e religiosi, quanto quelli che siamo soliti chiamare materiali e corporali.

D’altro canto l’esperienza di questi anni ha ampliato le prospettive della solidarietà sociale. Questa deve avere coscienza dell’importanza di un rispettoso vincolo con la natura. La questione ecologica non riguarda solo i paesi industriali, quelli che provocano maggior distruzione nell’habitat naturale dell’essere umano. Riguarda tutta l’umanità, come hanno mostrato molti studi e numerosi testi ecclesiali. Si dice, con ragione, che il pianeta terra è una grande nave nella quale tutti siamo passeggeri.

Ciò nonostante, la stessa immagine ci può servire per ricordare che in questa barca comune si trovano quelli che viaggiano in prima classe e quelli che viaggiano in terza classe. Nessuno scappa, è certo, al compito di evitare la distruzione della vita nel nostro contorno naturale, ma da queste terre dobbiamo stare attenti a ciò che riguarda i più deboli dell’umanità. E riaffermare così la nostra fede nel Dio della vita, soprattutto in mezzo ai popoli che hanno sempre avuto un senso sacro per la terra.

Questa prospettiva può richiamare delle correzioni che la Bibbia introduce in anticipo a una interpretazione abusiva del “dominino la terra” (cf. Genesi) che ha fatto il mondo occidentale moderno attraverso quello che Habermas chiama la ragione strumentale. Le incontriamo, per esempio, nel libro di Giobbe, il cui autore afferma che non è l’essere umano, ma l’amore gratuito di Dio il centro e il senso di tutto il creato. Una teologia della creazione e della vita può dare ossigeno alla teologia che si fa a partire dalla preoccupazione per la giustizia, essa ci aiuta di conseguenza ad ampliare l’orizzonte. C’è qui un compito che senza dubbio è fecondo per la riflessione teologica sulla liberazione.

Essa ci renderà più sensibili alle dimensioni estetiche del processo della liberazione integrale, e che per se stesso vuole prendere in considerazione tutti gli aspetti dell’essere umano. Il diritto alla bellezza è un’espressione – e in un certo modo urgente – del diritto alla vita. L’essere umano è soggetto di necessità, ma lo è anche di desideri, e in questo hanno ragione i postmoderni. La nostra dimensione corporale ci unisce in modo speciale al mondo naturale. E’ fonte della gioia del dono della vita. Ma è esso stesso interpellanza, il corpo, molte volte famelico e dolente del povero, geme addirittura nella ansiosa attesa della “rivelazione dei figli di Dio”, come dice Paolo in un testo bello e un po’ misterioso (Rom. 8,19).

Una manifestazione dell’impegno con la vita è la difesa dei diritti umani. I governi dittatoriali dell’America Latina e del Caribe negli anni 70 fecero sì che venissero riversate in questo sforzo molte energie. Era un cammino per postulare una necessaria convivenza democratica. In seguito a ciò non ci si limitò a denunciare gli abusi flagranti di autorità, ma si segnalò subito con il dito l’instabilità politica e l’ingiustizia sociale che costituiscono la terra di coltura di altre violenze.

E’ opportuno ricordare qui la nota di Giovanni Paolo II rispetto “all’ambiente umano” (dopo aver trattato dell’ambiente naturale) che lo porta a parlare di “ecologia umana” in relazione con la struttura sociale (cf. CA 38-39). Siamo qui di fronte a un tema centrale per la vita considerata come un dono di Dio.

La teologia ha di fronte il compito importante di approfondire la fede in un Dio non del timore, ma, come dice A. Camus, “che ride con l’uomo nei giochi calorosi del mare e del sole”. Un Dio della vita e dell’allegria.
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Conclusione

Il tempo presente ci mostra l’urgenza di qualcosa che può sembrare molto elementare: dare un senso all’esistenza umana. Diversi fattori esaminati nel corso di queste pagine concorrono a indebolire o sfumare i punti di riferimento che fanno sì che le persone di oggi, forse in modo particolare i giovani, vedano con difficoltà il “perché” e il “per che cosa” della loro vita. Senza questo la lotta per un mondo sociale più giusto e per la solidarietà umana, tra le altre cose, perde energia e manca di mordente.

Un compito centrale dell’annuncio del Vangelo oggi è contribuire a dare senso alla vita. Forse nei primi momenti del lavoro teologico in America Latina lo abbiamo dato per supposto e acquisito, così come abbiamo considerato come qualcosa di dato l’ispirazione della fede e l’affermazione delle verità fondamentali del messaggio cristiano. Ciò che è stato è stato, la cosa certa è che al presente è necessario inquietarsi per i fondamenti stessi della condizione umana e della vita di fede.

Ancora una volta ci sembra che l’impegno con il povero, nell’opzione centrata nell’amore gratuito di Dio, abbia una parola importante da dire in questo frangente. Essa si colloca in ciò che in pagine precedenti abbiamo qualificato come una tensione tra mistica e solidarietà storica. Questo non è altro che un modo, forse un po’ astratto, di ripetere ciò che il Vangelo dice in tutta semplicità: l’amore a Dio e l’amore al prossimo riassumono il messaggio di Gesù.

Questo è ciò che veramente conta. Devo confessare che sono meno preoccupato per l’interesse o la sopravvivenza della teologia della liberazione che per le sofferenze e le speranze del popolo al quale appartengo, e specialmente per la comunicazione dell’esperienza e del messaggio di salvezza in Gesù Cristo. Quest’ultimo è materia della nostra carità e della nostra fede. Una teologia, per quanto rilevante sia la sua funzione, non è altro che un mezzo per approfondirlo. La teologia è un’ermeneutica della speranza vissuta come un dono del Signore. In effetti si tratta di questo: di proclamare la speranza al mondo nel momento che viviamo come Chiesa.                                                                            

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