Riflessione sulle CEBs     
 

cerca nel sito

 

 scrivi

i seguenti testi sono tratti da sito  www.adista.it

(link diretto ad alcune di queste pagine: http://www.adista.it/numeri/adista00/adista62.htm )

per un ulteriore approfondimento ti suggeriamo di visitare il loro sito

Sommario

 

Articolo di p. Comblin sulle Comunità Ecclesiali di Base

 

COMUNITÀ DI BASE IN BRASILE: SIAMO CHIESA PERCHÉ SIAMO NEL MONDO

SOGNIAMO UNA CHIESA DOVE DIO SI SENTA A CASA

Il dialogo interreligioso secondo le Comunità

Mons. Casaldáliga: la Messa della terra senza mali, una messa per la causa dell’Amerindia

Gli indigeni alla conquista delle CEBs

Ma per i neri c’è ancora da attendere

Questione di genere e ruolo delle donne: avanti, piano

LA CHIESA BRASILIANA IN TEMPO DI NORMALIZZAZIONE: RESISTENZA SENZA RESA

Mons. Casaldáliga: l’ostacolo del centralismo vaticano

Mons. Valentini: difendere le conquiste, lottando contro la marea

Comblin: Trenta anni di ostilità costante

 DELLA CHIESA IN BRASILE

NOI VESCOVI CREDIAMO NELLE CEBs

Lettera dei vescovi alle Comunità Ecclesiali di Base

Mons. Masserdotti: in difesa di una certa visione di Chiesa

LETTERA DELLE COMUNITÀ DI BASE: IL RACCONTO DEI SOGNI E DELLA MEMORIA

 
Altri link suggeriti:
Amo la chiesa che ama i poveri (intervista al teologo Gustavo Gutiérrez, tratta da Jesus)
La voce degli esclusi (intervista al teologo Clodovis Boff, tratta da Jesus)
  Teologia della liberazione, latino americana, nera (tratto da Nigrizia)
  Puebla: la scelta preferenziale per "gli altri" articolo di Segundo Galilea
 
 

 


 

PADRE JOSÉ COMBLÍN: LE COMUNITÀ ECCLESIALI DI BASE DEVONO RIPARTIRE DAGLI ESCLUSI

DOC-973. SÃO PAULO-ADISTA Il mondo è diviso in due: il mondo degli "esclusi" e quello degli "inclusi". Il primo non conta niente: non interessa nemmeno i sociologi, sopravvive delle briciole che lascia cadere il secondo e con questo non ha comunicazione alcuna. Ma è il mondo scelto da Dio per l'incarnazione di suo figlio duemila anni fa. L'altra erede diretta di quella scelta, la Chiesa, da secoli ormai sceglie il secondo. Questo è successo perché è diventata una istituzione e, come tale, fa parte e sta dalla parte del mondo degli "inclusi". Anche le Comunità Ecclesiali di Base sono assurte pressoché al livello istituzionale. Anch'esse devono - come la Chiesa tutta dovrebbe - ripartire dall’inizio, l’inizio della loro storia, l’inizio del cristianesimo; devono scegliere la "riforma" del ritorno alle origini, al mondo degli "esclusi". O non saranno più portatrici del messaggio di Cristo, ma portatrici della cultura dominante, escludente ed antievangelica.

 

È questo, in sintesi, il contenuto dell'articolo "La Chiesa e il mondo degli esclusi" che il teologo della liberazione p. José Comblín firma sul bimestrale paolino brasiliano "Vida pastoral" (marzo-aprile). Lo pubblichiamo qui di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese.Il mondo degli esclusi è venuto per rimanere. È prodotto dal sistema economico attuale che genera sempre più esclusione. Una parte della popolazione può entrare nel mondo nuovo dell'economia, l'altra parte no. Le esigenze sono sempre in aumento; di conseguenza aumenta la distanza culturale fra quelli che hanno e quelli che non hanno condizioni di vita degna. Chi nasce nel mondo degli esclusi nasce già escluso e non potrà mai recuperare la distanza che lo separa da chi è nato in una famiglia inclusa. Solo un'infima minoranza, aiutata da molta fortuna, riesce. Il che non intacca il fenomeno nel suo complesso.

L'attuale sistema economico domina in modo assoluto il mondo tutto. Regna praticamente incontrastato fra quanti detengono il potere. Sta crescendo senza sosta, fiducioso in se stesso, senza dubbio alcuno. Neanche chi guida questo processo ha dubbio alcuno. Dispone praticamente di tutti i cervelli importanti della società. Tutto e tutti lavorano per consolidarlo. Lo contesta solo qualche intellettuale senza potere.

Questo modello di economia è talmente solido da poter durare almeno un secolo. La famosa "terza via", lanciata da Tony Blair, è accettata oggi da quasi tutte le sinistre del mondo, il che significa che la sinistra considera un fatto irreversibile l'attuale evoluzione dell'economia (cfr. Anthony Giddens, The Third Way. The Renewal of Social Democracy, Polity Press, Cambridge, 1998).

Al momento non c'è alternativa che abbia forza politica. L'opposizione continua a svolgere il suo ruolo di opposizione, ma le è impedito di realizzare il suo programma di governo. Siamo ancora nella fase iniziale dell'esclusione. Quello che verrà sarà peggio. Questo non dipende da un governo, da un regime politico, dalla Costituzione dello Stato, perché nessuno Stato può impedire l'inevitabile rappresentato dalla pressione di un sistema compatto e dotato di tutte le forze materiali e culturali.

Annunciare la fine dell'esclusione è irresponsabile, perché vuol dire lasciare le persone nell'illusione e ritardare i provvedimenti che dovrebbero essere presi. È irresponsabile pensare che il problema stia per essere risolto e che alcune buone prediche possano cambiare l'evoluzione attuale del mondo. Naturalmente tutti i governanti dicono, con le lacrime agli occhi, che sono preoccupati per l'esclusione e la povertà. Parlano così per ingannare se stessi e il popolo, pensando di avere buon cuore. Nel momento di agire finiscono col rafforzare il sistema. Niente faranno per modificare il sistema attuale. E non sarà un futuro governo a cambiare questa direzione. L'intensità del movimento potrà variare un po', ma il movimento, in piena espansione, non sarà mutato.

 

1. Gli esclusi vivono

Gli esclusi non scompaiono per il fatto di essere esclusi. Riescono a sopravvivere, cercando brecce nel sistema e mezzi di sostentamento. Raccolgono le briciole che cadono dalla tavola dei potenti. Siccome i potenti sono molto ricchi, le briciole possono alimentare molta gente. Gli esclusi formano un mondo a parte, separato, con una loro propria cultura e proprie relazioni sociali. Costituiscono come delle tessere di un mondo completo, come la favela di Rocinha a Rio de Janeiro.

Vivono di un'economia informale; a volte trovano impieghi aleatori in imprese di costruzione o in qualche servizio precario. Raccolgono quello che concede loro la società, soprattutto la televisione, che apre al resto del mondo ma non crea comunicazione con questo mondo. Creano una cultura, uno stile di vita in casa, un modo di mangiare e di bere, di festeggiare, di relazionarsi con i vicini. Il loro mondo è un mondo piccolo, ma che permette di vivere. In questo mondo c'è il tempo dell'allegria e della tristezza, della paura e dell'illusione.

La cultura del mondo degli esclusi non è molto conosciuta, perché non riesce a interessare i sociologi. Questi dipendono ancora molto dalle teorie del passato. Alcuni sono marxisti e osservano tutto in funzione della lotta di classe, come ai tempi della società industriale, senza vedere che oggi solo una minoranza fa parte del mondo industriale (gli operai delle industrie appartengono già al mondo degli inclusi, seppure in posizione modesta); altri dipendono dalla sociologia nordamericana e leggono tutto nella chiave positivista di passaggio dalla cultura pre-moderna alla cultura moderna. Non comprendono che ci sono due culture moderne: quella degli inclusi e quella degli esclusi.

La cultura degli esclusi è presente nelle città. È fatta di frammenti di cultura rurale disintegrata e di frammenti di cultura dominante più o meno assimilati. Il mondo degli esclusi non è totalmente isolato. Vive a fianco dell'altro, anche se con una comunicazione molto superficiale. I nuovi poveri reinterpretano nella loro cultura l'esibizione della cultura dominante.

Nel primo mondo gli esclusi costituiscono un terzo della popolazione, nel terzo mondo due terzi. Chiaro, sono cifre approssimative. In ogni Paese la situazione è particolare e la frontiera fra esclusi ed inclusi non è tanto chiara. C'è una fascia di popolazione che si attesta fra esclusi ed inclusi e partecipa parzialmente delle due categorie. Comunque, globalmente, c'è una separazione radicale fra questi due poli e queste due parti di popolazione.

 

2. La Chiesa continua a ripetere il discorso dell'opzio-ne per i poveri e per gli esclusi

Si continua a fare il discorso dell'opzione per i poveri e per gli esclusi, ma questo discorso si allontana sempre più dalla realtà. Se si esamina il comportamento reale, emerge con evidenza che la Chiesa sta facendo l'opzione per gli inclusi, mentre perde il contatto con gli esclusi. Malgrado ne parli ripetutamente, non percepisce che si sta distanziando progressivamente dagli esclusi. Il parlarne serve a nascondere la realtà e a tranquillizzare la coscienza.

In effetti, oggi la forza della Chiesa è concentrata intorno a due poli: i "movimenti" e le parrocchie. I "movimenti" stanno crescendo sempre più e costituiscono attualmente il settore più vivo, dinamico e fiorente nella Chiesa. Davanti a tutti c'è il Rinnovamento carismatico, poi viene l'Ecc, focolarini, neocatecumenali, Schönstatt e altri meno numerosi.

I "movimenti" sono radicati nel mondo degli inclusi. Tutto il loro modo di essere rivela un perfetto adattamento alla cultura degli inclusi. Sono ben inculturati e perciò hanno successo e crescono senza sosta. Malgrado non siano integrati nelle strutture ufficiali della Chiesa, la loro influenza va crescendo. Non hanno potere nella Chiesa, ma hanno conoscenza del mondo, la scienza delle comunicazioni e tutto quello che il clero non ha. Per questo, in realtà, la loro influenza nella Chiesa è maggiore di quella dei sacerdoti. I quali sono sempre più spettatori di quello che succede nella Chiesa o ausiliari dei "movimenti". La loro cultura arcaica non permette loro di competere, salvo rare eccezioni.

Essendo emanazione della cultura dominante, i "movimenti" non sono in comunicazione con il mondo degli esclusi, anche se nei loro discorsi moltiplicano le professioni di buona volontà. Non c'è comunicazione. Neanche il linguaggio è lo stesso. Non si tratta di mancanza di buona volontà, ma semplicemente di necessità sociologica.

Rimane alla Chiesa del XXI secolo il compito di suscitare vocazioni missionarie nei "movimenti" perché scendano fino al mondo degli esclusi, allontanandosi dalla loro cultura per andare incontro alla cultura degli esclusi. È più difficile essere missionari nel mondo degli esclusi del proprio Paese e della propria città che essere missionari in Africa o in Asia, perché la resistenza psicologica è maggiore. È più difficile riconoscere la differenza della cultura indiana o cinese che la differenza della cultura degli esclusi nella propria città. Il cittadino della classe superiore pensa di sapere e di potere tutto nella sua città, ma in realtà non ha mai camminato nel mondo degli esclusi.

In quanto "movimenti" organizzati e totalità sociali, i "movimenti" non possono fare nulla per il mondo degli esclusi. Però fra di loro può e deve nascere una messe di vocazioni missionarie. Come società organizzate hanno mentalità universale. Sono convinti di rappresentare tutte le classi sociali e sono immagine della propria società urbana o nazionale. Non percepiscono i limiti della propria coscienza. Soltanto gli esclusi possono dir loro che appartengono ad un mondo limitato e che sono capaci di comunicare.

Il secondo polo forte della Chiesa cattolica, in cui si concentra la quasi totalità del clero, sono le parrocchie urbane. Lì si concentra l'80% della popolazione. Nel mondo urbano, le parrocchie raccolgono le persone che vengono dal mondo degli inclusi. La cultura parrocchiale si adatta meglio a loro. Lo stesso parroco è stato educato ad una cultura del mondo degli inclusi, sentendosi più a proprio agio lì. Siccome le attività parrocchiali sono numerose, riescono a occupare tutto il tempo dei migliori parroci. Non avanza tempo per superare la frontiera e andare a vedere quello che sta succedendo nell'altro paese, che esiste nel territorio parrocchiale.

La stessa struttura parrocchiale favorisce questa evoluzione. Ora, nella città, la visibilità delle chiese e delle cappelle parrocchiali non è molto grande. Una famiglia può risiedere a 100 metri dalla chiesa e ignorare la sua presenza, così come i cattolici ignorano le chiese pentecostali che stanno nella stessa via.

 

3. E le CEBs non sono la presenza della Chiesa nel e del mondo degli "esclusi nella Chiesa"?

In primo luogo esse non hanno più, nella Chiesa, l'importanza che avevano prima. Basta ricordare che, nel documento Ecclesia in America, non sono nemmeno menzionate. Nella dinamica delle diocesi, il loro spazio è molto limitato.

In secondo luogo, una gran parte delle CEBs è situata nelle comunità rurali isolate. Questo mondo rurale conta sempre meno nell'insieme del Paese. Malgrado ci siano le CEBs nelle comunità rurali, la presenza della Chiesa cattolica è minima. Nel mondo urbano le CEBs non si moltiplicano, nonostante l'immensa crescita del mondo degli esclusi. Sono come isole in un mare immenso. Oltre a ciò, molte sono integrate in ambito parrocchiale, riproducono il sistema della parrocchia e funzionano come organo di trasmissione della pastorale parrocchiale. Dedicano molto tempo alla preparazione dei sacramenti e alle celebrazioni in stile più o meno tradizionale. Tutto questo è ben noto.

In terzo luogo, le stesse comunità sono agenti di promozione sociale. Chi vi partecipa ha molte più possibilità di elevarsi socialmente, perché va acquisendo capacità che abilitano all'ingresso nel mondo degli inclusi.

Partecipare alle CEBs conferisce uno sviluppo umano che prepara a sapere agire nel mondo superiore, anche se in posizioni modeste. Succede la stessa cosa con i sindacati, i partiti politici popolari o i movimenti popolari. I dirigenti escono dal mondo degli esclusi perché sono cresciuti nelle loro capacità e entrano in comunicazione con il mondo degli inclusi.

C'è anche una parte di CEBs che sono Chiesa nel mondo degli esclusi. Ma questa parte quasi non conta nella Chiesa attuale, nella vita delle diocesi, delle parrocchie, dei "movimenti". Per altro verso, la loro esistenza non costituisce una presenza significativa della Chiesa cattolica. Quanti sacerdoti, quante religiose si dedicano a questo mondo? Quanta parte delle risorse finanziarie della Chiesa è dedicata alla missione nel mondo degli esclusi? Insignificante.

La sfida è la presenza della Chiesa nel mondo degli esclusi. Non basta condannare il sistema neoliberista in atto, che fa crescere il numero degli esclusi. È necessario condannare, ma non basta perché niente cambia solo per questo. L'influenza della Chiesa nella società è minima, per non dire inesistente. Quello che ci si aspetta dalla Chiesa è che legittimi il sistema e suggerisca rimedi per consolare le vittime. Se essa si dedicherà a questo otterrà un posto privilegiato. Se non lo farà, sarà emarginata.

Neanche basta annunciare un’utopia di nuova società o di civiltà dell'amore. L'utopia è necessaria per mantenere la speranza e l'attesa di un altro mondo. Tuttavia non basta perché l'annuncio del vangelo è annuncio del Regno di Dio nel mondo presente. Si tratta della presenza di Dio e dell'azione in questo mondo che esiste a partire dal Regno. Annunciare il futuro è molto comodo e poco esigente. Si può stare nel mondo degli inclusi e aspettare un secolo che la società cambi. La consolazione del mondo futuro non basta. Le ideologie socialiste promettevano un mondo futuro che non è mai arrivato. Quello che ci preoccupa, l'oggetto dell'evangeliz-zazione è il mondo presente così com'è. Che dire, che fare rispetto al mondo presente?

In primo luogo, per potere agire è necessario essere presenti. Abbiamo già sottolineato che ogni gruppo di Chiesa tende a salire socialmente e a separarsi dal mondo degli esclusi. Forma un gruppo che si integra. Così è successo con gli antichi monaci. Così è stato con le prime comunità cristiane e, nel tempo, con tutte le entità religiose. Cominciano con la presenza nel mondo dei poveri e, dopo un secolo, passano al mondo dei ricchi.

Così sta succedendo anche con le CEBs. Cominciano dagli esclusi e, a poco a poco, se ne differenziano, salendo socialmente. Bisogna ricominciare. È improbabile che una comunità che abbia cominciato tra i poveri e si sia emancipata, ritrovandosi fra gli inclusi, torni alle origini, agli esclusi.

Dall'evoluzione attuale delle CEBs alcuni traggono la conclusione che hanno fatto il loro tempo e stanno per essere sostituite da altre forme di pastorale. Molti pensano che non rispondano più alle situazioni nuove e stiano scomparendo. Ora, il fatto che le CEBs siano in evoluzione non vuol dire che sono superate. Vuol dire che, come tutte le istituzioni di Chiesa, devono passare per quello che tradizionalmente si chiama riforma.

Cos'è la riforma nella Chiesa?

Si tratta di un ritorno alle origini dopo un allontanamento da esse. L'allontanamento è sempre lo stesso: l'uscita dalla povertà, l'ingresso nel mondo della sicurezza, della proprietà e della cultura dominante. Nel suo complesso un'istituzione non torna alle origini. Magari non mancano le buone intenzioni, ma una volta che un'istituzione vive garantita nella cultura dominante non è più capace di percepire che è cambiata e si è allontanata dalle origini. Le affermazioni che fa impediscono la presa di coscienza, nascondendo la realtà quando pensa che la sta rivelando. È così che la maggior parte dei religiosi pensa ancora che sono poveri perché fanno il cosiddetto voto di povertà, il cui scopo è di nascondere la mancanza di povertà.

Ogni riforma viene da persone nuove, che stavano nelle strutture e decidono di liberarsi di esse per tornare alle origini. Escono dall'istituzione per essere più fedeli ad essa. Così succede adesso con le CEBs. Lungi dall'essere superate, sono più attuali e necessarie che mai. Ma non quelle esistenti. Sono necessarie altre CEBs, nuove, che nascano da veri esclusi. Le CEBs, come tutte le istituzioni di Chiesa, hanno bisogno di essere fondate di nuovo per essere fedeli al loro programma. Fondate da persone nuove, con nuovi membri che appartengano realmente ai nuovi esclusi, e non a quelli che erano esclusi e ora non lo sono.

 

4. La presenza nel mondo degli esclusi

Innanzitutto è chiaro che non c'è presenza che non sia fisica. Si tratta di essere materialmente presenti, condividendo la vita del mondo degli esclusi. La vicinanza fisica è imprescindibile. Così come non si evangelizza il popolo cinese rimanendo a Paraìba, non si evangelizzano gli esclusi vivendo nel mondo degli inclusi.

Però la pura presenza fisica non basta, perché da sola non parla. È appena condizione per poter parlare. Quale sarà il messaggio? Innanzitutto la parola sarà testimonianza di vita. Per avere credibilità, bisogna dare testimonianza di una vita in Cristo. Testimoniare che il Regno di Dio è già qui presente: nell'allegria del vivere in un mondo nuovo, malgrado le circostanze esteriori; una vita di resuscitati, malgrado i segnali di morte. Vita di resuscitati che è aperta agli altri. Non preoccupata di fare proselitismo, ma di mostrarsi con i fatti prima che con le parole. Cioè vita da cristiano.

Il messaggio cristiano è che, tramite Gesù, Dio è venuto nel mondo qual è per stare in questo mondo di miserie, disperazione, crimini, sporcizia. Dio è sceso dal piedistallo del suo potere per andare ad abitare in una favela. Nessuno crede, se non la vede, alla realtà di uomini e donne che rappresentano questa presenza di Gesù.

Nelle situazioni di peggiore miseria fisica o morale, si attende la venuta di Dio. Le persone che vivono così pensano di essere lontane da Dio perché sono respinte dagli uomini. Tuttavia, chi più, chi meno aspetta. Questo è il segno della presenza dello Spirito Santo. Tale atteggiamento somiglia a quello dell'attesa di un Salvatore da parte del popolo di Israele.

Per questo, l'annuncio del Regno di Dio presente in alcune persone non è proprio una novità. Quando si fa presente, ci sono persone che lo riconoscono e lo identificano perché lo stavano sognando. Il Nuovo Testamento mostrava già come il Vangelo non si proclama a persone che ignorano completamente, ma a persone che stanno aspettando senza sapere esattamente come sarà. Si tratta di mostrare la risposta ad una attesa. Per ciò stesso, non sono necessarie molte parole, perché il riconoscimento non è difficile.

Non si può sperare che la Chiesa tutta faccia questo viaggio missionario fino al mondo degli esclusi. Però alcuni hanno la vocazione per questo viaggio e la Chiesa deve appoggiare queste persone, riconoscersi in questa avanguardia e confidare nelle opere dello Spirito Santo.

Fra questi missionari, qualche gruppetto sta sorgendo. Se si pretende che si vincolino subito ad una comunità, ad una CEB preesistente o a una parrocchia, il cammino sarà interrotto. È necessario riconoscere l'autonomia dei poveri per vivere e crescere nella loro cultura di poveri. Tutto quello che si è detto prima delle CEBs e non si trova mai nella realtà, vale per questi gruppi nuovi situati realmente nel mondo degli esclusi

 

5. Conoscere la cultura

Chi penetra in una cultura senza conoscerla rimane subito turbato dai suoi vizi e imperfezioni. La prima cosa che si percepisce sono i difetti. È quello che è successo nel passato, quando i missionari sono giunti in America, in Asia e in Africa. Sono rimasti scioccati dai vizi e dalla miseria corporale, morale e spirituale dei popoli che pretendevano di evangelizzare.

Pensano immediatamente che devono correggere i vizi o vincere le miserie. Si ritengono capaci e votati a questo. Naturalmente falliscono, ma attribuiscono il loro fallimento o al diavolo, che resiste, o alla cattiva volontà dei popoli, il che conferma la loro condizione di miseria. Falliscono perché non conoscono la cultura e non sanno come entrare nel mondo di questa cultura.

Oggi, entrando nel mondo degli esclusi, quello che richiama l'attenzione è innanzitutto la miseria fisica. La completa mancanza di un minimo per uno sviluppo normale della vita umana: fame, ogni genere di carenza, insicurezza. Poi viene la miseria morale: bande, furti, violenza, droghe, prostituzione, stupro, abbandono dei bambini. Condannare o denunciare non risolve. Potrà essere uno sfogo per i missionari, ma senza risultato alcuno.

È necessario imparare a conoscere. Non c'è solo il negativo, il crimine, la sporcizia, il male. Dio è anche lì e lo Spirito agisce in questo ambiente. È necessario scoprire questa presenza; l'azione del missionario deve partire da questi semi di salvezza esistenti. Il missionario non può andare con la sua cultura, cioè con i suoi programmi di pastorale e con proposte precostituite. Deve arrivare con una totale povertà di idee e di progetti. Farà quello che diranno gli stessi esclusi e i segni lì presenti della presenza di Dio.

Conoscere la cultura è sapere come un popolo di esclusi riesce a vivere umanamente nella situazione in cui sta, e perché ci riesce. Noi pensiamo che non ci riusciremmo, ma loro riescono. La cultura è la maniera di vivere con quello che si ha, anche se molto poco. Senza conoscere la cultura si possono introdurre novità, istituzioni, programmi. Niente sarà assimilato, niente funzionerà, niente sopravviverà alla partenza dei promotori se non si integra nella cultura degli esclusi. Questo vuol dire che quello che si può fare è sempre meno di quello che si vorrebbe fare. La realtà non permette progetti grandiosi fin dall'inizio.

L'ideologia delle CEBs, come ogni ideologia, è servita anche per occultare la realtà. La gente pensa di conoscere la cultura degli esclusi perché proietta su di essa un'ideologia. È sempre necessario disfarsi delle ideologie e conoscere per contatto diretto, immediato, osservando e, soprattutto, ascoltando. L'esperienza degli altri serve poco. Serve soprattutto per creare o rafforzare un’ideologia. Ognuno deve apprendere di nuovo, partendo dall'inizio.

 

6. Che fare?

Questa è la famosa domanda che ha percorso e sollecitato tutto il secolo XX da quando Lenin ha pubblicato il suo famoso pamphlet con questo titolo. La domanda ha dominato il secolo: l'Occidente ritiene che deve e può "fare". Non è sbagliato. È stato il cristianesimo che ha introdotto nei più distanti angoli del mondo questa passione per il "fare". Intanto, non tutto si può fare. Non si può realizzare una simile utopia, e il dramma grandioso e patetico del secolo XX è stato quello di sostenere il sogno del socialismo. E il drammatico fallimento delle esperienze concrete di esso. La causa è stata la volontà di realizzare tale utopia, nella pratica, con tutti i mezzi disponibili.

Il "che fare" si trova in base al contesto, alle circostanze, alla situazione cui si pensa quando si fa la domanda. Sarà sempre qualcosa di limitato e destinato ad essere corretto in una fase ulteriore della storia. La completa realizzazione non si avrà mai. Ci saranno sempre aspetti positivi e negativi. Susciterà sempre l'opposizione dei conservatori e degli utopisti, essendo realista e audace allo stesso tempo.

All'inizio appaiono piccoli gruppi guidati da persone dotate di un carisma speciale. Sono le nuove comunità di base, molto diverse dalle attuali CEBs, proprio per la loro povertà, carenza di mezzi e semplicità. Non hanno ancora strutture. Così sono state le CEBs all'inizio.

Oggi il mondo degli esclusi è schiacciato da un sistema tanto forte, tanto sicuro di se stesso, che può permettersi il lusso di non percepire neppure l'esistenza degli esclusi, salvo che nei discorsi ufficiali, per dare l'impressione di una buona coscienza. Però, nell'ora delle decisioni, i poveri non sono contemplati. Questo ci ricorda la situazione dei cristiani nell'Impero romano, prima di Costantino. La forza del-l'impero era totale, e la distanza tra la classe dirigente romana e la massa dei popoli sottomessi era infinita. Alcuni avevano tutti i poteri, altri nessuno. Metà degli abitanti erano schiavi o liberti ancora dipendenti dagli antichi signori.

Per 250 anni le comunità cristiane povere hanno dovuto sopportare il peso di una società che era il contrario di tutto ciò che stava nel Vangelo. Sono riuscite a sopravvivere. Hanno creato un piccolo mondo di pace, giustizia e fraternità tra di esse: isole di vita evangelica nel ventre del mostro.

Oggi stiamo entrando in un mostro simile. L'impero attuale è tanto crudele quanto l'impero romano, e forse anche di più. Alla guida non c'è più un imperatore, ma la finanza internazionale, re-denaro. Il denaro vuole crescere e crescere senza fine, anche dovendo schiacciare l'immensa maggioranza dell'umanità. Si rallegra perché cresce. Nella misura in cui la miseria aumenta nel mondo, il denaro si moltiplica nelle borse valori. I padroni dell'impero stanno trionfando perché il loro impero cresce sempre di più. Sono di un’ar-roganza totale.

Il peggio è che, tra i padroni dell'impero, ci sono molte persone che si dicono cristiane. Per esempio, negli Stati Uniti, dove ci sono Chiese di varie denominazioni cristiane che celebrano le vittorie dell'impero come vittorie di Dio. Sono cristiani che opprimono altri cristiani, e cristiani che opprimono gli esclusi del mondo. Questo non c'era nell'impero romano. O, perlomeno, si sapeva che l'impero era emanazione di Satana, come risulta nel libro dell'Apocalisse.

Anche così, le antiche comunità cristiane sono riuscite a rivelare il Regno di Dio attraverso la loro vita e la loro resistenza. Oggi, comunità simili possono mantenere la fede, la speranza e la vera fraternità.

Nella vita di ogni giorno è quasi impossibile fuggire dalla collaborazione con il sistema. Molti sono dipendenti del sistema e di quello vivono. Ogni caso ha la sua specificità e ognuno ha bisogno di esaminare fin dove arriva la sua collaborazione. I primi cristiani avevano definito certi limiti: non potevano essere soldati né magistrati pubblici, poiché questo esigeva professione di subordinazione agli dèi dell'im-pero. Quali sono i limiti oggi? Cos'è che un cristiano non può accettare? Con chi non può collaborare in nessun modo? Questioni aperte per la coscienza cristiana.

Alcuni esempi: nella partecipazione al sistema finanziario vi sono limiti che una coscienza cristiana non può accettare, quand'anche debba soffrire il martirio come i primi cristiani. Nel funzionamento delle multinazionali, nell'industria e nel commercio vi sono limiti di azione per il cristiano. Nell'esercizio della vita pubblica vi sono limiti che il cristiano non può oltrepassare.

Sotto le dittature esplicite era più facile scoprire i limiti. Oggi, nel sistema economico in cui siamo, la pubblicità del sistema è molto meglio organizzata per nascondere quello che sta succedendo. I responsabili sono nascosti e la responsabilità è distribuita tra molti, in modo che tutti si sentano innocenti.

È possibile agire in mezzo agli esclusi? Sì, perché nessun sistema è tanto chiuso da non lasciare brecce. Il sistema non ha bisogno di nuove lotte sociali, gli esclusi resteranno abbandonati a se stessi, senza capacità di agire realmente nella società. Per esempio: la violenza cresce, essendo stata un grande fenomeno sociale degli anni '90 e continuando ad essere una sfida urgente perché la vita non sia una permanente angustia. Sono poche le resistenze e le iniziative per organizzare la reazione. Non basta condannare. È necessario agire. Organizzare la volontà di pace degli abitanti della città. La maggior parte di essi è senza animo, senza coraggio, senza dinamismo. Aspettano la venuta di un leader per catalizzare le energie e organizzare l'azione.

Questo è solo un settore. Altri restano in attesa di qualcuno che guidi. Non basta dire che questo è compito dei laici. Si sa che la leadership tra i laici è un'eccezione, perché non sono mai stati preparati per essere leader. Basta confrontare le risorse e le energie che la Chiesa pone a disposizione della formazione del clero con quello che spende per la formazione di leader laici. Nel migliore dei casi la proporzione sarà di cento a uno. Dopo di che è possibile voler imporre ai laici compiti impossibili lasciando i sacerdoti nella tranquillità della parrocchia?

I tempi non potevano essere più chiari. Ma chi riconosce i segni dei tempi?

torna al sommario

 

 

 

 

COMUNITÀ DI BASE IN BRASILE: SIAMO CHIESA PERCHÉ SIAMO NEL MONDO

 

 

Molto si discute sull’attualità o meno delle Cebs, sulla loro rilevanza e sul significato che rivestono nell’attuale contesto politico, culturale e religioso. Qual è la sua posizione al riguardo?

MONS. JOSÉ LUÍZ BERTANHA, vescovo di Registro: Le CEBs hanno una storia ancora breve se la si confronta con la lunga storia della Chiesa, ma hanno un grande significato per il Brasile e l’America Latina. In relazione alla crisi, occorre dire che questa interessa tutta la Chiesa, la società e il mondo attuali e non solo le CEBs. La vita sociale del popolo è toccata dagli effetti della situazione economica del paese: il neoliberismo ha colpito tutte le comunità povere del Brasile. Io vedo con speranza il futuro delle CEBs perché in un incontro come questo, attraverso la ricerca, la preghiera, lo studio, il contributo teologico, esse tentano di rinsaldare il loro cammino. E guardando indietro si può affermare che è stato un cammino molto coinvolgente. Le CEBs hanno validamente cooperato alla costruzione di una chiesa comunionale e, ora, guardando avanti, esse vogliono collaborare con tutti quei gruppi che sono impegnati nella trasformazione della società.

 

MONS. PEDRO CASÁLDALIGA, vescovo di São Félix do Araguaia: Quando parliamo di CEBs, quello che interessa è la comunitarietà, che significa corresponsabilità, partecipazione, uguaglianza fraterna. Oltre a questa dimensione, altro aspetto essenziale è l’opzione per i poveri. Una Chiesa che non fa quest’opzione è qualunque cosa meno che una Chiesa cristiana: opzione per i poveri e per le cause dei poveri, che possono essere rivendicazioni per la terra, l’educazione, la salute ecc. Opzione per i poveri è quello che le CEBs chiamano vincolo tra fede e vita, tra orazione e militanza, tra mistica e impegno. In terzo luogo, la Bibbia nelle mani del popolo. Le celebrazioni delle CEBs danno grande risalto alla Parola. E non è solo una Parola parlata, ma una Parola danzata, incorporata nell’allegria di un popolo. Lo spirito e la pratica delle CEBs devono essere il modo normale di essere Chiesa. Vogliamo incebare la Chiesa, fecondarla di comunità, del vincolo tra fede e vita, di condivisione, della Parola di Dio nelle mani del popolo, con una caratteristica, propria delle CEBs, di latinoamericanità.

 

MONS. JAYME CHEMELLO, vescovo di Pelotas e presidente della Conferenza dei vescovi del Brasile (Cnbb): Le CEBs sono uno sforzo di incarnazione del mistero di Gesù. Sono il luogo in cui lo Spirito Santo agisce in maniera preferenziale. La Chiesa non rinuncerà ad esse. Nel documento di Porto Seguro, sottoscritto dalla quasi totalità dei vescovi, essi, riferendosi alle comunità ecclesiali, indicano quattro punti: 1. La comunità ecclesiale è un luogo dove il popolo riflette sulla Parola di Dio. 2. La comunità è il luogo dove si celebra e si studia la liturgia. 3. È nelle pastorali animate dalle comunità ecclesiali che si aiutano i fratelli nella carità. 4. La comunità ecclesiale - un punto che per me è un grande elogio alle nostre comunità - è dove si esprime in maniera chiara ed evidente l’opzione evangelica per i poveri.

 

MONS. DEMÉTRIO VALENTINI, vescovo di Jales: Occorre considerare le grandi trasformazioni che hanno avuto luogo in Brasile a tutti i livelli e che stanno incidendo in maniera molto forte sulla Chiesa, sulla società e anche sulle comunità. Vi è una crisi di identità che attraversa tutto il Paese. Per comprendere oggi il ruolo delle CEBs è necessario rendersi conto che la realtà è mutata e che questo pone le comunità di fronte a nuove sfide. Il grande valore delle CEBs qui in Brasile è stata l’affermazione molto chiara della dimensione comunitaria della Chiesa. In questo incontro sono presenti rappresentanti di tutte le diocesi, indipendentemente dal fatto che in esse vi sia o meno una chiara presenza di comunità ecclesiali di base: è il riconoscimento da parte delle diocesi del fatto che per essere Chiesa è necessario essere comunità. Le CEBs hanno svolto una funzione fondamentale: quella del rinnovamento della Chiesa in Brasile. E continuano ad essere valide, nonostante alcuni dei loro caratteri siano venuti meno. Ora, per esempio, sono sorte nuove istituzioni impegnate in un lavoro sociale: quello che prima, al tempo della dittatura, solo le CEBs facevano. Alcuni si interrogano allora come mai esse abbiano perso il loro carattere più politico: è perché esse hanno suscitato altre istanze sociali a cui spetta più direttamente assumere questo ruolo.

 

LORI ALTMANN, pastora luterana: Negli anni della dittatura la questione sociale e politica era talmente urgente che ci si dimenticava delle problematiche personali. Oggi il contesto mutato permette di "guardarsi dentro": c’è stata una riscoperta della dimensione personale che deve sempre rapportarsi a quella collettiva. Questo ripensamento è stato importante, ma le CEBs non hanno dimenticato che l’ingiustizia e l’oppressione sono ancora molto radicate in Brasile. E hanno anzi fornito molti quadri ai partiti più impegnati a livello sociale. Come luterana voglio sottolineare il valore dell’uso "laico" della Bibbia nelle CEBs, nella costante preoccupazione di unire "Parola di Dio e vita".

 

CLODOVIS BOFF, teologo: La questione delle comunità non è solo brasiliana, ma è latinoamericana, è di tutto il Terzo Mondo, è mondiale, pur assumendo di volta in volta aspetti diversi, riservando un’attenzione prioritaria alla questione del dialogo interreligioso in Oriente, alla questione della cultura in Africa, alla questione sociale da noi. La Chiesa di Cristo si è sempre costituita in comunità, comincia nella comunità. La Chiesa è prima di tutto Chiesa locale, che poi si trova in comunione con la Chiesa universale. Purtroppo ora la Chiesa è il papa, la Chiesa è Roma. Bisogna invertire il processo. Oggi le Cebs sono meno caratterizzate che un tempo, allo stesso modo della Teologia della Liberazione, che si è lentamente integrata nel pensiero della teologia normale. Vi è realmente una tendenza a inquadrare le Cebs, a normalizzarle, come avviene a Rio de Janeiro, dove sono diventate un elemento funzionale al quadro parrocchiale: clericali, sacramentaliste e assistenzialiste. Le comunità hanno un laccio con le parrocchie, ma in senso attivo, trasformatore, perché esse diventino parrocchie partecipative, dei laici, dei neri, degli indigeni, delle donne.

 

MANOEL GODOY, consigliere della Cnbb: Come non si può fare una lettura fondamentalista della Bibbia tentando di copiare, per esempio, il modello di Chiesa degli Atti degli Apostoli nella realtà attuale, così non si può rimanere con la medesima idea di CEBs degli anni ‘60-’70. Il contesto socio-politico era un altro: allora le CEBs erano l’unica voce non clandestina di opposizione al governo. Oggi si vive "formalmente" in una democrazia ma la repressione economica è molto grande. Le CEBs mutano in relazione ai cambiamenti storici. Se non si comprendono tali mutamenti non si comprendono le CEBs. Nelle CEBs oggi si trovano mescolati elementi diversi: ci sono anche comunità meno impegnate politicamente, più dedite alla spiritualità, meno di frontiera, ma rimangono alcune peculiarità comuni come il legame con il partito politico più vicino al popolo (il Partito dei Lavoratori) o l’interesse centrale verso alcuni temi come la sanità, l’educazione, l’ecologia. Non c’è più un modello unico di CEBs. Inoltre, a differenza di alcune esperienze ecclesiali del Centroamerica, le CEBs sono state sempre legate alla Chiesa ufficiale. E oggi il clero, e in esso soprattutto la componente dei preti giovani, mostra di essere allineato rispetto alla tradizione. Questo però non sradica l’impegno sociale delle CEBs, fondato sul legame fra Bibbia e coinvolgimento nella realtà storica, e non intacca l’opzione chiara ed esplicita per i poveri e per una Chiesa fatta di poveri. Il binomio Bibbia-poveri rimane un caposaldo delle CEBs. Cambiano alcune parole d’ordine, ma come sempre le comunità di base anticipano il cammino di tutta la Chiesa. Tre questioni in particolare le Cebs sono chiamate ad affrontare: il problema del genere, che la Chiesa non può continuare ad ignorare; il problema ecologico, legato al quale c’è anche il tema spinoso del controllo demografico; il problema della democrazia nella Chiesa che è motivo di forte conflitto.

 

MARIA AUREA MARQUES, religiosa, assistente delle CEBs: Quella delle CEBs è una storia lunga e bella, una realtà che ha coinvolto la vita di molta gente, ma che ha pure fatto paura. E da qui è sorta la necessità, da parte della Chiesa ufficiale, di imporre delle regole e di esercitare il controllo. Dal quinto e sesto incontro si è incominciato a dire che le CEBs non avevano più senso e che stavano morendo. Questo dipende dal fatto che il progetto neoliberista ha investito anche la Chiesa facendola tornare a quel modello di cristianità che si misura sul numero delle presenze. Ma queste grandi masse non garantiscono e non sono depositarie di proposte di valore. Anzi, sono esse stesse segno di una mentalità legata al sistema di mercato. L’impegno di evangelizzazione che si coniuga alla volontà di apparire sui mass media (ne sono esempio gli show televisivi con presenza di religiosi), non si traduce in autentico annuncio del vangelo, ma configura solo l’immagine di una Chiesa-cristianità (assimilabile al modello di Chiesa medioevale). Le CEBs non si sono adeguate a questo stile improntato al trionfalismo e anche molti vescovi sono aperti alla nostra proposta di una Chiesa più popolare, partecipativa, meno gerarchizzata.

 

LÚCIA RIBEIRO, sociologa: Credo che le CEBs siano cambiate rispetto agli anni ’70 e ’80, quando erano più centrate sulla problematica della trasformazione sociale. Continuano ad essere legate a questa problematica, ma credo che oggi l’opzione per i poveri si ponga in senso molto più ampio, includendo gli oppressi per il genere, per la razza, per la situazione di esclusione generale che si vive in questo Paese. Certamente in questo momento il contesto ecclesiale non aiuta, ma questo incontro ci dà speranza, mostra che le Cebs sono molto vive nella base, stanno scoprendo nuovi canali di azione e assumendo nuove problematiche, come la questione ecologica o la questione di genere. Anche se tutta la questione relativa alla sessualità, al comportamento riproduttivo, la questione dell’omosessualità hanno bisogno di essere ancora molto sviluppate.

 

Le Cebs lamentano un appoggio da parte dei vescovi molto meno convinto che in passato. Condivide questa preoccupazione?

 

MONS. TOMÁS BALDUINO, vescovo emerito di Goiás: Si è avuta una reazione un po’ di accomodamento di fronte a quanto avvenuto all’interno della Chiesa, al fatto che l’appoggio iniziale ha cominciato a venir meno. È necessario che le comunità affermino di più la propria autonomia, senza aspettare che questa cada dal cielo di Roma.

 

BERTANHA: Si è verificata una certa opposizione alla linea sociale assunta dalle CEBs: una linea trasformatrice, liberatrice, politica, partecipativa. Ma è pur vero che a questo incontro sono presenti circa 60 vescovi brasiliani che appoggiano il lavoro delle CEBs. Pochi, invece, sono i vescovi di recente ordinazione: ci vuole un tempo di "adattamento" al cammino delle comunità di base e di comprensione della loro esperienza.

 

MONS. MAURO MONTAGNOLI, vescovo di Ilhéus: In alcune parti credo che questo appoggio sia diminuito un po’, ma le CEBs sono presenti in tutte le diocesi e questo dimostra che non c’è un’azione contro le comunità ecclesiali di base. In alcune regioni, in alcune diocesi, manca un forte incentivo, ma non c’è un divieto, non vengono posti ostacoli al loro cammino.

 

C. BOFF: Il fenomeno delle CEBs dipende in parte dal tipo di vescovi e anche dal tipo di papa esistenti, ma è necessario sottolineare che esse presentano una grande autonomia pastorale e una grande creatività. Un’analisi istituzionale non dà conto del fenomeno. Le CEBs sono meno clericali e più laiche, scommettono di più sul sacerdozio comune che su quello ministeriale, gerarchico.

 

GODOY: Poco tempo fa, un vescovo, rappresentativo di una cospicua parte della Conferenza episcopale, ha affermato che non c’è più necessità delle CEBs. I vescovi mostrano meno entusiasmo di un tempo verso le CEBs e sembrano privilegiare i movimenti. Nonostante ciò, esse continuano il loro cammino, persistono nella loro proposta.

 

MARQUES: All’inizio i vescovi incentivavano la nascita delle comunità di base, sulla linea del Vaticano II, di Medellín e di Puebla. All’epoca c’era la dittatura e le CEBs erano quasi l’unico riferimento per chi si opponeva al regime. Ora la congiuntura socio-politica è completamente mutata ed è molto difficile prendere posizione, trovare soluzioni praticabili a problemi come quello della disoccupazione, che è una questione di ordine strutturale determinata dalla grande concentrazione dei beni in poche mani e dall’impiego dell’alta tecnologia. Per quanto riguarda la posizione della Chiesa, bisogna rilevare che non c’è una generazione di vescovi capace di affrontare in modo profetico problemi sociali di tale portata. Purtroppo nei seminari non si formano preti pronti a calarsi nella realtà del popolo, bensì legati alla classe borghese. Sottesa al problema della formazione dei presbiteri c’è poi la questione nevralgica del potere nella Chiesa. Qui si pone anche il problema del ruolo della donna che svolge il suo servizio sempre per conto e a nome di altri, non è mai veramente protagonista, non ha modo di esercitare un reale potere decisionale.

 

Si nota nella Chiesa ufficiale una tendenza a distinguere tra comunità ecclesiali di base e comunità ecclesiali e basta, concedendo uno spazio di gran lunga maggiore a queste ultime. Nel documento pontificio postsinodale "Ecclesia in America", per esempio, le CEBs non sono nemmeno nominate. Non ritiene che questa distinzione terminologica sia segnale di un indebolimento dell’appoggio alle comunità ecclesiali di base?

 

CASALDÁLIGA: Le definizione di CEBs significa che si tratta di comunità ecclesiali, e di comunità che partono dal popolo e che optano per il popolo, cosa che in termini cristiani sta per opzione per i poveri. Sarebbe grave dimenticare quest’ultima parte. Ma l’importante non è il nome come etichetta, bensì lo spirito che sta dietro quel nome.

 

CHEMELLO: Quando nel documento di Porto Seguro parliamo di comunità, ci riferiamo a quelle che stanno qui. Quelle che studiano la Bibbia, che celebrano la Parola di Dio, che sono con i poveri. Parlando di comunità, io intendo quelle di base, ma a rigore non esistono solo quelle. Le comunità di base sono quelle presenti negli ambienti popolari più poveri, ma non diciamo che solo le comunità di base sono dei poveri. Quel che conta, però, è che la Cnbb appoggia il loro lavoro. Vale molto di più la presenza qui di tanti vescovi che una parola al posto di un’altra.

 

VALENTINI: Riguardo al documento del Sinodo, la spiegazione è che si è voluto mettere da parte tutto ciò che suonava polemico. Si sono lasciati fuori i movimenti e, per riequilibrare le cose, si sono lasciate fuori anche le CEBs. Anche la tendenza a parlare di comunità ecclesiali, sopprimendo il "di base", ha una sua spiegazione, che risiede nel fatto che all’inizio le CEBs affermavano valori che non facevano molto parte della pratica ecclesiale, come per esempio i ministeri laici. Oggi però questi valori affermati dalle CEBs fanno molto più parte della pratica normale della Chiesa. E quindi non c’è più la necessità di enfatizzare la componente "di base", perché il cammino aperto dalle CEBs è molto più integrato nella vita della Chiesa.

 

Alcuni osservatori denunciano un processo di istituzionalizzazione delle CEBs, che si sarebbe tradotto in un crescente distacco dal mondo degli esclusi. E’ d’accordo con questa analisi?

 

VALENTINI: Vi sono esclusi che sono a tal punto esclusi da non arrivare mai ad identificarsi con una istituzione, con una comunità. Quella degli esclusi è una sfida per tutti, è la grande sfida che sono chiamate ad affrontare le comunità. Ma di fatto la Chiesa tende eccessivamente ad istituzionalizzare e questa istituzionalizzazione rischia di bloccarne il cammino autentico. C’è bisogno allora di recuperare quello che era il criterio della Chiesa primitiva, quando era la pratica ecclesiale a guidare gli apostoli, era lo Spirito Santo, non la gerarchia. Oggi è invece questa che dice come deve essere la Chiesa. Ci troviamo di fronte ad una tendenza alla centralizzazione, alla istituzionalizzazione.

 

JOSÉ COMBLIN, teologo: Per fare solo un esempio, le comunità hanno una riunione alla tale ora, fissata per il tale giorno. Ma i poveri non hanno orario, non vanno a riunioni fissate vari giorni prima. Nelle città - nei campi è diverso - vi è un tale livello di disumanizzazione che, se si vuole raggiungere gli esclusi, tutto deve diventare infinitamente più semplice. Se si vogliono organizzare momenti di preghiera, deve essere a casa loro, con i loro vicini. Uscire di casa per andare ad un luogo di riunione già supera le possibilità dei più poveri. E non basta leggere il Vangelo: ad una semplice lettura nessuno presta attenzione. La gente ascolta e capisce se gli viene raccontato così come è stato compreso. C’è chi ha fatto l’opzione di abitare tra di loro, di stare in mezzo a loro per capire quali sono i temi per loro accessibili, le loro idee, le loro preoccupazioni. Storicamente, tutte le istituzioni iniziano dal basso e poi prendono a salire per la scala sociale. E allora c’è sempre bisogno di tornare là in basso. Si possono risvegliare nelle CEBs vocazioni per andare a vivere nelle favelas. Ma non sembra una preoccupazione quella di inviare missionari là dove si trovano realmente i più poveri tra i poveri. E’ diminuita anche la presenza dei religiosi inseriti in ambito popolare: i giovani sono più timidi, hanno paura di entrare in un mondo sconosciuto, con una cultura tanto diversa dalla loro. Preferiscono allora inserirsi in un ambiente popolare, ma che è già un po’ più sviluppato e in cui la differenza culturale non è poi tanto grande. E’ così nel Nordest, ma non so se questo vale per l’intero Brasile.

 

RIBEIRO: Nella realtà, le CEBs in Brasile toccano quelli che noi chiamiamo settori popolari, ma i settori popolari che presentano un minimo di condizioni di vita. Il mondo dell’esclusione non sta nelle CEBs e non c’è mai stato. Tale questione è molto viva in un momento in cui l’esclusione è in aumento, in cui crescono disoccupazione, povertà, miseria. Questa è certamente una grande sfida per le CEBs.

 

La Chiesa, le CEBs e la politica:in quale rapporto si trovano attualmente?

 

CASALDÁLIGA: Leggiamo in un documento della Chiesa che, sì, questa può assumere l’impegno della politica, ma di una politica con la "p" maiuscola. Dove per Politica con la lettera maiuscola si intendono i diritti umani in generale, la giustizia in generale. Ma tutti i candidati di tutti i partiti parlano di diritti umani e di giustizia. Dobbiamo occuparci della politica con la lettera maiuscola e con la lettera minuscola. Inoltre, se un partito è una mediazione politica ancora fondamentale, con tutte le sue deficienze, un cristiano o una cristiana che siano tali fino alle ultime conseguenze entrano anche in un partito, così come entrano anche in un sindacato. È necessario che una volta per tutte la Chiesa cessi di stigmatizzare la politica con la p minuscola.

CHEMELLO: È un bene che le CEBs conservino il loro carattere di critica sociale. È giusto che i poveri facciano critiche perché sono loro che sentono sulla propria pelle tutte le cose sbagliate che avvengono nel Paese. Sarebbe peggio l’indifferenza.

 

C. BOFF: Sento molto parlare di resistenza in questo Interecclesiale. Resistenza contro un sistema che ci isola, che ci esclude, che liquida le politiche pubbliche, che abbandona il popolo di fronte ai problemi dell’abitazione, della salute, dell’educazione. La critica al sistema neoliberista è molto presente nel discorso delle comunità. E si parla molto della questione del plebiscito sul debito estero, della lotta del Movimento dei Senza Terra, della necessità di risvegliare l’interesse della popolazione per le prossime elezioni municipali.

 

GODOY: La Chiesa, con la sua tradizione di lotta e impegno sociale, continua la sua presenza profetica, ad esempio nella battaglia per la riforma agraria, appoggiando il Movimento dei Senza Terra, nella denuncia delle cause strutturali della violenza sociale, cause addebitabili al sistema economico neoliberista. La Chiesa è ancora combattiva, anche se si deve riconoscere che, mentre prima si registrava un consenso immediato fra i vescovi su questi temi, ora tale consenso va pazientemente "imbastito". Nonostante tutto, io credo che la Chiesa brasiliana, seppure con tante ambiguità e contraddizioni, abbia ancora un volto profetico e un ruolo significativo nella società. Ci stiamo ancora giovando dell’eredità del passato, di una Chiesa, cioè, che camminava a fianco dei poveri. Questo incontro delle CEBs testimonia la vitalità che tale immagine di Chiesa è ancora capace di esprimere.

 

MARQUES: Tutti i gruppi e i movimenti da anni impegnati in attività sociali, le comunità di base che sono arrivate fino ad oggi, resistendo anche alle persecuzioni, sono per me un grande motivo di speranza. Il nostro riferimento è rappresentato dalle comunità descritte in Atti e nell’Apocalisse: comunità che seppero resistere all’impero romano e affrontare i problemi sorti al proprio interno. La nostra situazione è molto simile alla loro. La speranza oggi come allora ha bisogno di creatività e concretezza: ha i nomi e i volti di lavoratori e lavoratrici, si chiama "movimenti organizzati". La speranza è sognare con i piedi sempre ben piantati a terra e ha un nome più grande di tutti che è "regno di Dio".

 

RIBEIRO: Le CEBs sono nate in Brasile all’epoca della dittatura militare: in quel momento il nemico era molto chiaro, e l’opposizione delle comunità era chiarissima. In questo momento la situazione è molto più complessa. Cardoso era un sociologo che poteva essere considerato almeno di centrosinistra e poi ha fatto questo orrore di governo. Oggi le cose sono molto più confuse. Non c’è più forse quel sogno così ben delineato di una rivoluzione sociale e politica, perché oggi la situazione dell’America Latina è molto più complessa. Ma quello che continua ad essere molto chiaro nelle CEBs, una caratteristica che definisce la loro identità, è l’impegno con i poveri. Per le comunità il neoliberismo appare come il nemico. Come un sistema che deve essere abolito, smontato, riformulato, modificato radicalmente. Ma in questo momento l’alternativa al modello neoliberista non è chiara neppure per gli economisti. Si tratta di un processo lento, complesso, che passa attraverso piccole esperienze. Le CEBs sono molto vincolate a quella che viene chiamata economia solidale: le alternative in campo economico si presentano come piccole esperienze in campo locale. E questo anche a livello politico, nei municipi retti dal Partito dei lavoratori, dove esistono esperienze di partecipazione popolare nei consigli municipali o nella presentazione del bilancio.

(sommario)

 


 

SOGNIAMO UNA CHIESA DOVE DIO SI SENTA A CASA

DOC-992. ILHEUS-ADISTA. (dagli inviati) Quanto peso abbia assunto la dimensione ecumenica e interreligiosa nella pratica delle CEBs lo ha mostrato, proprio nella celebrazione di apertura dell’Interecclesiale, la presenza sul palco, finalmente su un piano paritario, di una mãe de santo, di un pajé, di una pastora luterana e di due vescovi, ciascuno con il proprio saluto alle comunità (v. Adista n. 57/00). Lo hanno mostrato, ancora di più, la ricca presenza di elementi e di simboli indigeni e afro durante tutti i momenti celebrativi dell’incontro; la celebrazione della "Messa della terra senza mali" (si è solo letto il testo poetico della messa, senza liturgia eucaristica, con una simbolica condivisione del pane e del vino), una messa per "la causa dell’Amerindia" secondo le parole di Pedro Casaldáliga (vedi di seguito il commento sulla messa fatta dal vescovo in conferenza stampa); la sensibilità per le questioni indigene e afro rivelata dai documenti dell’incontro; l’interesse per la presenza delle pastore luterane da parte delle donne delle CEBs, incoraggiate a rivendicare anche per sé il diritto a esercitare il ministero sacerdotale.

Ma se le CEBs hanno percorso già parecchia strada in questa direzione, la dimensione interreligiosa e interculturale non è ancora del tutto acquisita nella tradizione degli Incontri Interecclesiali. Lo dimostrano le critiche dei rappresentanti neri, delusi per essersi trovati ancora una volta - e proprio a Bahia, il cuore della loro cultura - ai margini dell’incontro, penalizzati da un’organizzazione che ha privilegiato la riflessione unitaria intorno agli stessi temi (memoria e cammino, sogno e impegno) piuttosto che quella per blocchi tematici come era avvenuto a São Luis, nel IX Interecclesiale (cattolicesimo popolare, religioni afrobrasiliane, pentecostalismo, esclusi e movimenti popolari, cultura di massa, questione indigena).

Grande spazio hanno invece conquistato gli indigeni, grazie anche alla vasta eco avuta dalle celebrazioni per i 500 anni dall’inizio dell’evangelizzazione in Brasile e, molto più, dalle controcelebrazioni organizzate dal movimento "Gli altri 500" (v. Adista n. 36/00).

Quanto alle donne, che costituivano la maggioranza dei delegati, la questione dei ministeri è quella che è emersa con maggiore forza: "se serviamo a pulire i banchi delle chiese - hanno detto -, serviamo anche per stare sull’altare".

Di seguito opinioni e commenti di alcuni dei protagonisti dell’incontro relativamente al dialogo interreligioso e alle questioni indigena, afro e di genere.

(sommario)

Il dialogo interreligioso secondo le Comunità

Come valuta la presenza della dimensione ecumenica e interreligiosa nel cammino delle CEBs?

MONTAGNOLI: Si tratta di un cammino iniziato a partire soprattutto dall’ottavo Interecclesiale, un cammino di dialogo interreligioso che ci sta conducendo verso un macroecumenismo. Lo Spirito sta illuminando i cristiani ad aprirsi alle varie denominazioni cristiane e alle altre religioni, affinché possiamo vivere tutti nella grande famiglia voluta da Dio.

 

ALTMANN: Le CEBs hanno dato un forte contributo al cammino ecumenico in Brasile, perché l’ecumenismo "accade" quando alla base le persone si uniscono per affrontare le difficoltà della vita, mettendo la Bibbia in relazione con la storia. L’ecumenismo di base è fondamentale, perché non può bastare quello di alto livello teologico.

 

JOSÉ OSCAR BEOZZO, storico e teologo: La questione del dialogo interreligioso è una questione che sta sorgendo con molta intensità e che sarà decisiva nei prossimi anni. In questo Interecclesiale è stata molto presente. Le CEBs parlano un linguaggio diverso da quello dei teologi. Se leggiamo questo Interecclesiale attraverso le celebrazioni e i simboli, come l’invocazione agli ancestrali o la danza indigena, troveremo già molte cose in questo cammino. Perderemmo l’essenziale di questo Interecclesiale se dibattessimo solo le questioni della teologia della liberazione o della struttura della Chiesa e trascurassimo questo linguaggio dei simboli che indica direzioni nuove, cammini diversi per parlare con Dio.

 

RIBEIRO: In Brasile, a volte, prima e insieme alla sistematizzazione della riflessione vi è una pratica che si sta vivendo. In questo senso, per esempio, le celebrazioni iniziali tanto dell’Interecclesiale nel Maranhão, dove già erano presenti una mãe di santo (autorità religiosa del Candomblé) e una pastora (quindi sia la questione interreligiosa che quella di genere), quanto qui sono state molto simboliche e molto significative. Qui penso sia stato fatto un passo ulteriore, considerando la presenza, praticamente su un piano di uguaglianza e in un ambiente di grande tranquillità e apertura, di una mãe di santo, di un pajé, di una pastora luterana e di due vescovi. La riflessione su questi temi avanza piano piano, ma intanto si stabilisce un dialogo che passa per altri cammini.

 

VERA CRISTINA WELSSHEIMER, pastora luterana: L’ecumenismo non si fa con i discorsi, ma con le azioni concrete. E qui penso che le comunità stiano facendo un passo molto più grande di quello fatto dalla struttura ecclesiastica di tutte le Chiese.

(sommario)

Mons. Casaldáliga: la Messa della terra senza mali, una messa per la causa dell’Amerindia

La "Missa da terra sem males" è stata proibita dal Vaticano. È stata proibita anche la messa dei quilombos (comunità nere fuggite dalla schiavitù, ndt). E pure da parte del card. Gantin, che, in quanto nero, avrebbe dovuto intenderla meglio di tutti gli altri! Quello che mi dissero Gantin e Ratzinger è che non era corretto celebrare una messa per una razza. Eppure nella Chiesa, a volte, abbiamo celebrato la messa per una vittoria militare! La Missa da terra sem males è nata dalla volontà di chiedere perdono, cosa che poi è diventata quasi una moda. Non ci sembrava giusto celebrare solo i nostri martiri e dimenticare i molti martiri di cui si è resa responsabile la civilizzazione cristiana lungo i secoli, con le guerre sante e, molto concretamente, in America Latina - ma è meglio dire in tutto il Terzo Mondo - con la Conquista, che è stata una combinazione di spada e di croce. E’ sorta da qui l’idea di una messa che fosse, prima di tutto, missionaria e che poi rispondesse alla causa dell’Amerindia, che è una causa continentale ed è una mia ossessione: nessun popolo indigeno si salverà isolatamente; o si salverà continentalmente o continentalmente affonderà. Un fatto positivo è che vi sono molti più indigeni oggi che negli anni passati in America Latina. Secondo l’Onu il popolo xavante negli ultimi 4 anni è stato quello che è cresciuto di più nel mondo. Cosicché fra alcuni anni Amerindia sarà di nuovo Amerindia.

La messa della terra senza mali è centrata sul mito guarani, che si ripete con delle varianti in tutte le culture, perché in tutte le culture esiste un paradiso perduto e un paradiso cercato. In termini cristiani, e ancor più latinoamericani, la ricerca del paradiso diventa la lotta per la terra e la lotta per una società migliore. È il nuovo cielo e la nuova terra dell’Apocalisse. Nel corso dei secoli la Chiesa ha trasferito la terra in cielo. Ma è facile accettare la terra senza mali nella gloria dei cieli. Molto più difficile è rivendicare la terra senza mali qui sulla terra, nella misura del possibile. La grande critica rivolta alla Chiesa - e che è stata anche motivo di ateismo - è di aver trasferito sogni, aspettative e rivendicazioni in un altro mondo, determinando, in questo mondo, una rassegnazione che facilmente diventava fatalismo, o perlomeno passività. Questo è il senso fondamentale del testo della messa senza mali, sintetizzato nell’ultimo grido comunitario: memoria, rimorso, impegno.

(sommario)

Gli indigeni alla conquista delle CEBs

 

Mons. Chemello: un atto dovuto la richiesta di perdono agli indigeni

La messa celebrata il 26 aprile scorso a Coroa Vermelha a conclusione delle celebrazioni per i 500 anni di evangelizzazione ha suscitato molte polemiche. Cosa è avvenuto?

Due giorni prima della messa vi sono stati gli incidenti provocati dall’impiego da parte del governo brasiliano di forze militari e poliziesche per impedire la marcia degli indigeni e dei senza terra. Quando gli indigeni ci hanno chiesto di partecipare alla celebrazione abbiamo pensato che era conveniente ed era una buona cosa. Nella messa era prevista la presenza di un gruppo di indigeni, con l’accordo della Santa Sede. L’episcopato brasiliano aveva deciso di chiedere perdono ai neri, per la schiavitù, e agli indigeni, per essere stati decimati. Oggi gli indigeni sono approssimativamente 300.000, ma secondo gli studi dei ricercatori avrebbero dovuto essere tra i 5 e i 10 milioni. In piena messa, si è presentato un altro gruppo di indigeni e uno di loro, che considero molto bravo, una persona istruita, Matalawê, ha fatto un discorso molto forte contro i bianchi. Non era contro la Chiesa, ma contro i bianchi. "Questa terra che voi state calpestando è nostra", ha detto. E questo discorso ha avuto una grande ripercussione.

 

Il vescovo di Eunápolis mons. José Santana de Oliveira ha chiesto scusa a Sodano per questo discorso.

Egli ha pensato che fosse un’offesa al card. Sodano. Ma non lo era. Non era quello l’obiettivo degli indigeni. Quello che c’è stato è solo un’entrata in piena liturgia con un indio che ha preso la parola. Non è molto abituale entrare in piena messa e parlare. Ma non c’era nessuna offesa al cardinale.

 

Mons. Franco Masserdotti, vescovo di Balsas e presidente del Cimi
(Consiglio indigenista missionario): una presenza forte e accettata

Come presidente del Cimi come valuta la presenza degli indigeni in questo Interecclesiale?

La presenza indigena è stata così bella che ha addirittura messo un po’ in ombra il movimento nero. E questo è un aspetto un po’ negativo del nostro Interecclesiale: essendosi svolto qui a Bahia avrebbe dovuto dare maggiore forza alla questione nera. Quanto agli indigeni, sono stati accolti molto bene, anche a causa della risonanza avuta dagli avvenimenti del 22 aprile, con la violenta repressione della marcia indigena a Porto Seguro, e del 26 aprile, con la messa per i 500 anni di evangelizzazione. Nel nostro gruppo era presente Matalawê, l’indio pataxò che è intervenuto alla messa per i 500 anni, salvando così la teologia dell’eucarestia

 

Mons. Montagnoli: La Chiesa è con gli indigeni, verso la patria grande

Questo Interecclesiale coincide con i 500 anni dalla conquista. Come ha vissuto la Chiesa brasiliana questo appuntamento?

La scelta di celebrare quest’anno il X Interecclesiale esprime il tentativo di annunciare e denunciare quanto avvenuto in questi 500 anni, di recuperare i valori positivi introdotti dal cristianesimo e di chiedere perdono per gli errori commessi contro indigeni e neri. E questo con l’obiettivo della costruzione della patria grande che noi vogliamo sia il Brasile, dove tutti vivano come fratelli e sorelle.

 

Il discorso tenuto dal card. Sodano nella messa per i 500 anni non ha avuto un alto gradimento. Le sembra che sia andato in questa direzione?

Si può capire come il rappresentante papale debba usare un linguaggio più universale, parlare in termini più generali. Chi si trova in questa realtà vive le cose in maniera diversa rispetto a chi viene da fuori per una celebrazione ufficiale in rappresentanza del papa. Il discorso di Sodano si è mantenuto ad un livello generale, generico, ma la Chiesa ha cercato di dare spazio agli indigeni, i quali hanno potuto partecipare, parlare e manifestare. Se il governo ha impedito loro la marcia, la Chiesa ha permesso che essi parlassero ed esprimessero la loro protesta e il loro annuncio. Questo è stato importante.

 

Le è piaciuto il discorso dell’indio Matalawê?

Sì, molto. E’ piaciuto alla maggior parte dell’episcopato. Per me era un po’ la voce di Dio. E questo ci incoraggia a continuare la nostra lotta nella costruzione della società che tutti vogliamo.

 

Maria de Lourdes, capo villaggio Jenipapo Canindè (Fortaleza):
le Cebs hanno sposato la causa indigena

Come è avvenuto che lei, una donna, sia stata scelta come capo (cacique) nel suo villaggio?

Nel nostro villaggio costituito da 314 persone raccolte in 44 famiglie, dopo la morte del precedente cacique (Teodorico), non si trovava un uomo capace di sostenere un tale incarico (erano tutti molto giovani) e così, cinque anni fa, fui scelta io per decisione dell’assemblea riunita degli uomini del villaggio. Fui chiamata Cacique Pequena.

 

Qual è la situazione della donna nel suo villaggio?

E’ una situazione precaria, non perché ci sia discriminazione da parte degli uomini, ma perché le donne non intendono bene il loro ruolo nella società. Esse vogliono rimanere dentro casa, dedite ai loro consueti lavori, e non capiscono che devono assumere responsabilità pubbliche nella società. Devono riscoprire la profonda uguaglianza con gli uomini e smetterla di sentirsi in una condizione di minorità.

 

Quale relazione esiste fra le CEBs e le comunità indigene?

Le CEBs ci hanno già aiutato, ma d’ora in poi credo che ci aiuteranno ancora di più, promuovendo la causa indigena. Noi non chiediamo favori, vogliamo solo che ci sia dato ciò che ci spetta di diritto perché siamo i più antichi abitanti di queste terre. Ci siamo avvicinati alla pratica cristiana e ai suoi sacramenti senza perdere i nostri costumi e la nostra cultura. Abbiamo una memoria molto viva delle nostre tradizioni, mai vorremmo che i nostri figli e i nostri nipoti le dimenticassero. Chiediamo l’appoggio degli organi nazionali ed internazionali, di ogni Chiesa e religione perché sostengano la nostra lotta fino alla meta finale che è la demarcazione della terra, la sua equa ripartizione. Vogliamo che la terra venga tolta a chi se n’è indebitamente appropriato e ora vorrebbe metterci sempre di più in un angolo. Senza la terra non abbiamo lavoro, cibo, salute, istruzione per i nostri figli, dignità. Vogliamo un domani con una vita libera, degna e questo lo chiediamo non solo per noi ma anche per tutti gli altri popoli indios: siamo nati liberi. Abbandonerò questa lotta solo quando le nostre divinità mi chiameranno. Nel momento in cui il divino Spirito Santo sarà su di me e mi dirà : "Oggi è il tuo giorno, Cacique", io farò il mio viaggio e andrò tranquilla perché veramente sto dando la mia vita per il mio popolo.

(sommario)

Ma per i neri c’è ancora da attendere

 

Antônio Aparecido da Silva, teologo nero: un passo avanti e uno indietro

Qual è il suo bilancio del X Interecclesiale rispetto alla questione afro?

Su questo Interecclesiale riponevamo molta speranza perché si svolgeva a Bahia, dove i neri sono vissuti come schiavi, e per di più nell’anno del Giubileo e delle celebrazioni sui 500 anni. Per tutto questo pensavamo che gli organizzatori dedicassero un’attenzione speciale alla questione afro. Ma non è stato così. A São Luis, nel IX Interecclesiale, l’organizzazione del lavoro per blocchi tematici (donne, indigeni, neri, pentecostali) aveva favorito l’approfondimento delle singole questioni e la successiva condivisione con l’insieme dell’Assemblea. In questo Interecclesiale, invece, il coordinamento, preoccupato per la possibile frammentazione, ha optato per una riflessione unitaria, che ha lasciato un po’ da parte la questione afro. Noi siamo sempre più coscienti che la differenza non frammenta, bensì aggiunge. D’altro lato siamo contenti del fatto che nei resoconti dei regionali, nelle proposte, negli impegni, la sensibilità per la questione afro sia stata presente. E così per quella indigena e per quella di genere. E io penso che nel prossimo Interecclesiale, in Minas Gerais, dove pure la presenza nera è molto forte, questa mancanza nell’organizzazione venga corretta.

 

Qual è stata numericamente la presenza dei neri in questo Interecclesiale?

E’ stato l’Interecclesiale con una maggiore presenza di neri e di nere. Direi che intorno al 30 o 35% dei partecipanti sono afrodiscendenti. Quanto ai vescovi, sono solo 5 su un totale di 300. Ma poiché lo Spirito Santo non ha potuto ancora collocare un numero maggiore di vescovi neri ha supplito con la qualità. L’ultimo vescovo nero che ci ha dato lo Spirito Santo, dom Gílio Felício, vescovo ausiliare di San Salvador, è un eccellente vescovo che viene proprio dall’ambiente della militanza nera. È invece cresciuto sempre più il numero di preti neri: dall’80 si è quasi quadruplicato, passando da nemmeno 400 a più di 1500, su un totale di 15.000 sacerdoti.

 

Perché la presenza nera durante la messa per i 500 anni è stata così limitata?

Abbiamo mandato alla Cnbb suggerimenti concreti, anche di diversa forza. Abbiamo fatto proposte su gesti, su simboli, anche su una richiesta di perdono simbolica da parte dell’episcopato brasiliano, dopo quella del papa 8 anni fa nella Repubblica Dominicana in occasione della quarta Conferenza dei vescovi latinoamericani. Non abbiamo ricevuto risposta.

 

Riguardo invece alle celebrazioni di questo Interecclesiale la questione afro è stata molto presente.

Un elemento positivo di questo X Interecclesiale è proprio questa presenza nera nelle celebrazioni e nei momenti culturali, che dimostra come l’ambiente delle CEBs sia impregnato da questa sensibilità. Ma c’è un pericolo. Perché se non c’è spazio per riflettere sugli elementi afro presenti nelle celebrazioni, questi rischiano di restare folclore, cioè una cosa che viene vista, ma non viene assunta. Non basta collocare nelle celebrazioni i simboli afro, serve uno spazio di riflessione.

(sommario)

Questione di genere e ruolo delle donne: avanti, piano

Come è affrontata dalle CEBs la questione di genere?

ALTMANN: La struttura di base delle Cebs permette un’ampia partecipazione delle donne, anche a livello decisionale. Un elemento, questo, totalmente nuovo rispetto all’esclusione abituale sofferta dalle donne quando si misurano con il problema della gestione del potere nella Chiesa.

 

BEOZZO: Circa l’80% delle celebrazioni nelle comunità sono guidate non da preti, da ministri ordinati, ma dalle persone della comunità, in grande maggioranza donne. Le donne dirigono le comunità, celebrano, spiegano la Parola, battezzano. E in molti luoghi hanno il mandato del vescovo, sono autorizzate ufficialmente a fare tutto questo. Qui sorge il problema del riconoscimento dei ministeri che sono di fatto esercitati. C’è un ritardo tra la pratica e l’accompagnamento della Chiesa per riconoscere quello che sta avvenendo. In questo senso c’è una grande differenza tra il documento sui ministeri uscito a Roma e quello della Cnbb pubblicato successivamente, che non cita neppure una volta il documento romano.

 

MARQUES: Il tema del ruolo delle donne è sostanzialmente nuovo, dunque è tutto da esplorare e da approfondire. Non ci accontentiamo dei risultati conseguiti: la questione del genere è molto più ampia e complessa rispetto a quella relativa alla conquista di spazi di potere. Ha a che fare con la natura, con il cosmo, non inerisce solo al rapporto uomo-donna. E’ un problema di uguaglianza profonda che passa attraverso il corpo della donna.

 

WELSSHEIMER: La presenza di una donna ordinata provoca sempre discussione tra le donne. Perché, dicono, noi non possiamo avere questa presenza? Se noi siamo utili a pulire i banchi della chiesa, dobbiamo esserlo anche per stare là sull’altare. Quanto alla presenza delle donne nell’incontro, questa è fortissima. Ma non altrettanto la loro visibilità.

 


 

LA CHIESA BRASILIANA IN TEMPO DI NORMALIZZAZIONE: RESISTENZA SENZA RESA

DOC-993. ILHEUS-ADISTA. (dagli inviati) È apparsa un po’ come il convitato di pietra dell’Interecclesiale la questione della normalizzazione della Chiesa brasiliana. E non poteva essere altrimenti. Le CEBs, infatti, si trovano sempre più in controtendenza rispetto all’attuale linea pastorale ed è con questa che sono chiamate a fare i conti. Così come tutta la Chiesa del Brasile è chiamata a fare i conti con il sempre più pesante centralismo vaticano. Ne è un esempio, tra i tanti, il caso del congresso della Soter, la Società di teologia e di scienze della religione, importante associazione di teologi e di studiosi del Brasile. Al congresso, che si è poi svolto regolarmente a Belo Horizonte dal 24 al 28 luglio, erano stati invitati a parlare, tra gli altri, Clodovis e Leonardo Boff, Victor Codina, José Comblin, Gustavo Gutierrez. Ma, a sorpresa, era arrivata al presidente della Conferenza episcopale, mons. Jaime Chemello, una lettera del card. Ratzinger che vietava la partecipazione al congresso di alcuni di quei teologi. La reazione della Cnbb questa volta, però, è stata ferma: Chemello ha preso l’aereo per Roma ed è riuscito a convincere il Vaticano. Ad di là del singolo caso, tuttavia, cosa sta facendo la Chiesa brasiliana di fronte ai sempre più forti venti di normalizzazione? Lo abbiamo chiesto a mons. Pedro Casaldáliga, mons. Demetrio Valentini e al teologo José Comblin.

 

Mons. Casaldáliga: l’ostacolo del centralismo vaticano

All’interno della Chiesa vi è stato e vi sarà sempre un conflitto che in ultima istanza finisce per essere un conflitto di potere. Abbiamo un’eredità di mille anni di potere assoluto nella Chiesa e questi mille anni non possono essere superati tanto facilmente, soprattutto se si considera che questo potere si è incarnato in una cultura, è un potere occidentalizzato. Ma la dimensione comunitaria si sta conquistando uno spazio, non solo nell’episcopato dei Paesi periferici, ma anche nella Chiesa popolo. Vi è molto meno gerarchismo che anni addietro, vi è una libertà, in gruppi come "Noi siamo Chiesa" o gruppi affini, che anni fa non c’era. Le celebrazioni di questo Interecclesiale 10, 20 anni fa erano inimmaginabili. Penso che siamo avanzati parecchio anche di fronte al Vaticano. Il Vaticano come Stato è una cosa che contesto con forza, per amore della Chiesa. Vorrei che non esistesse, così come vorrei che il papa non fosse un capo di Stato. Altra cosa è il ministero del papa. Ma lo stesso papa ha chiesto di essere aiutato a riformare questo ministero. Paolo VI disse che egli sapeva che il papa era il maggior ostacolo all’ecumenismo. E a volte il centralismo vaticano è il maggioro ostacolo ad una certa libertà e pace all’interno della Chiesa cattolica.

 

Mons. Valentini: difendere le conquiste, lottando contro la marea

Come sta rispondendo la Chiesa brasiliana al processo di centralizzazione in atto?

Stiamo vivendo un momento di perplessità e di impotenza di fronte ad una tendenza che si è imposta molto chiaramente, nella consapevolezza che si tratta di un periodo di attesa, perché questa situazione non sarà duratura, passerà. I tempi sono cambiati e non è il caso di provocare scontri, perché non risolverebbero nulla e anzi rischierebbero di mettere di nuovo, inutilmente, la Chiesa brasiliana sotto questione.

 

Non si corre in questo modo il pericolo di rinunciare alle opzioni affermate nella a Medellín?

Quello che sentiamo è che dobbiamo difendere le conquiste consolidate silenziosamente, nonostante si tratti di lottare contro la marea. Il clero per esempio ci preoccupa molto: è molto più imbevuto di una vecchia pratica anteriore al Concilio, centralizzata, meramente sacramentale. Esiste, chiaro, la preoccupazione di consolidare il cammino percorso. E io sono convinto che il futuro è nella valorizzazione dei laici, attraverso i ministeri laici. Il documento elaborato lo scorso anno dalla Cnbb sulla questione ("Missione e ministeri dei laici e delle laiche cristiani") penso che sia un documento profetico. Mentre in Europa i dicasteri romani hanno firmato un documento che mette in seria questione i ministeri laici, noi qui in Brasile abbiamo elaborato un documento di grande riconoscimento di questi ministeri. E anche se, riguardo alle comunità ecclesiali di base, il "di base" è passato un po’ sotto silenzio, l’ "ecclesiale" è stato grandemente valorizzato, nel senso di riconoscere la leadership delle comunità, che è quella che deve indicare i ministri laici. Nella mia diocesi, per esempio, da anni esiste un progetto di valorizzazione dei ministeri laici. I ministri sono indicati dalle comunità e non dal vescovo e devono essere uomini e donne, e non isolati, ma in gruppo, secondo una pratica di collegialità. Perché la collegialità, che è oggi in crisi nella Chiesa, dovrebbe trovarsi a tutti i livelli, tanto dell’episcopato che dei sacerdoti e dei laici. Si tratta di un processo che conferisce una stabilità molto più grande alle comunità e che pone la Chiesa nelle mani dei laici, in maniera ufficiale.

 

Ultimamente, con le polemiche relative alle celebrazioni per i 500 anni, all’uso dei preservativi, al caso della Soter, le relazioni della Cnbb con il Vaticano sembrano di nuovo essere andate in crisi. Che spiegazione ne dà?

Nella riunione dei teologi di Amerindia che si è svolta a febbraio in Guatemala si è indicata l’esperienza della Soter come il cammino giusto da seguire, sottolineandone il lavoro alla luce del sole, le buone relazioni con la Conferenza episcopale, e ribadendo la necessità di difendere la libertà della ricerca teologica. Sono rimasto sorpreso dall’intervento di Ratzinger sul congresso della Soter. Si tratta sempre dello stesso equivoco: Roma ascolta molto più chi arriva da fuori e dice non si sa che, mettendo tutto sotto sospetto, piuttosto che quelli che possono dire le cose in maniera più diretta. Si dà maggior credito a chi informa in modo occulto, senza seguire i normali cammini di comunicazione. Se, per esempio, avessero chiesto della Soter alla Conferenza episcopale, avrebbero ricevuto tutte le informazioni che volevano. È una altra dimostrazione del fatto che Roma guarda con sospetto quasi tutto quello che si fa qui.

 

Comblin: Trenta anni di ostilità costante

Le relazioni dell’episcopato brasiliano con il Vaticano non sembrano essere oggi molto buone. Cosa sta succedendo?

Non è una novità. Non lo è dal 1970, da quando Aloísio Lorscheider venne eletto presidente della Conferenza episcopale. Sono trenta anni di ostilità costante, durante i quali il Vaticano ha cercato con tutti i mezzi di smontare, disfare, destabilizzare la Conferenza episcopale.

 

Lo stesso vale con i teologi, come dimostra il caso della Soter.

E’ lo stesso sistema di intimidazione. Canonicamente non c’è nessuna ragione perché un vescovo o il papa interferisca in un incontro di teologi che si riuniscono a titolo individuale, come in una qualunque riunione di cristiani. Ma a loro piace interferire in tutto. Tuttavia in questo caso c’è stata una reazione: mons. Chemello è andato a Roma e ha risolto.

 

Cosa pensa della possibilità di un nuovo Concilio?

Considerando l’attuale situazione dell’episcopato, ci sarebbe prima bisogno di nuove nomine di vescovi, perché oggi i tempi sono molto diversi da quelli del Concilio Vaticano II. Pio XII faceva nomine migliori di questo papa. Quando Giovanni XXIII convocò il Concilio, vi era una serie di personalità in grado di dare un orientamento. Oggi le figure più grandi sono in pensione, o in via di pensionamento. Il resto è dato da uomini buoni, pieni di virtù magari, ma timidi e insicuri. Ci sarebbe prima bisogno di una nuova generazione di vescovi, persone che sappiano fare proposte, assumersi gli impegni, vincere questa resistenza psicologica a qualunque cambiamento, a qualunque trasformazione.

 

Non vi è il rischio che il prossimo Sinodo vaticano sul ruolo dei vescovi rappresenti il colpo finale alla collegialità?

Garantito. È sufficiente fare la storia dei sinodi anteriori per vedere come si cerchi sempre di relativizzare quanto avvenuto con il Concilio Vaticano II. I documenti e le dichiarazioni del card. Ratzinger hanno sempre mirato a questo: a togliere valore alle conferenze episcopali, a limitare la collegialità. Può essere persino che le proposizioni del prossimo Sinodo vadano nella direzione di un rafforzamento della dimensione collegiale, ma al momento di redigere il documento finale questo cadrà o cambierà completamente. Si tratta di una specie di commedia per dare l’impressione che vi sia dialogo.

 

Appare quindi sempre più difficile la convocazione di una quinta conferenza dell’episcopato latinoamericano.

Sono già passati 8 anni dall’ultima e ancora non se ne annuncia un’altra. Tanto più che si è appena svolto il Sinodo per l’America. Credo che sia molto difficile che questo possa avvenire durante l’attuale pontificato. Dipenderà dal prossimo.

(sommario)

 


 

NOI VESCOVI CREDIAMO NELLE CEBs

DOC-995. ILHEUS-ADISTA. (dagli inviati) Che l’appoggio dei vescovi alle comunità ecclesiali di base sia meno forte e meno convinto di un tempo sono in molti, fuori e dentro le CEBs, ad affermarlo o a lamentarlo. La presenza di oltre 60 vescovi all’Interecclesiale - per quanto, è stato osservato, sia stata proprio la nuova generazione di vescovi a mancare un po’ all’appuntamento - indica comunque che tale appoggio non è venuto meno. "Come pastori - si legge infatti nella "Lettera alle comunità ecclesiali di base" scritta dai vescovi presenti all’incontro - crediamo nelle CEBs, confermiamo il loro cammino e riaffermiamo la loro importanza per le nostre Chiese particolari". Su questa lettera - di cui riproduciamo qui di seguito un ampio stralcio in una nostra traduzione dal portoghese - riportiamo anche il commento di mons. Franco Masserdotti, che del documento è stato tra i principali promotori.

 

Lettera dei vescovi alle Comunità Ecclesiali di Base

(...) Sentiamo quanto le CEBs siano vive e operanti e ci poniamo in ascolto dello Spirito che in esse si manifesta.

Come pastori, crediamo nelle CEBs, confermiamo il loro cammino e riaffermiamo la loro importanza per le nostre Chiese locali (in grassetto nell'originale, ndt) che, nella quasi totalità, hanno inviato delegate e delegati a Ilhéus.

Nelle CEBs riconosciamo i tratti e l'ecclesiologia delle prime comunità descritte negli Atti degli Apostoli, perseveranti nella preghiera, nell'ascolto della Parola, nella frazione del pane e nella condivisione fraterna dei beni (cfr At 2,42-45). In esse, ritroviamo anche una risposta agli orientamenti del Concilio Vaticano II.

Esortiamo le CEB's a perseverare nella loro esperienza comunitaria, nella lettura orante e popolare della Bibbia, nell'amore all'Eucarestia e nell'impegno sociale e politico.

Siamo coscienti dei cambiamenti e delle nuove sfide che esigono trasformazioni nelle espressioni concrete delle CEB's. Vogliamo accompagnarle nello sforzo di intensificare il lavoro di formazione delle laiche e dei laici cristiani, secondo le linee date dal documento 62 della CNBB (Missione e ministeri delle laiche e dei laici cristiani), per:

  • lottare per il riconoscimento della dignità e dell'ugua-glianza della donna, nei diversi ambiti della vita della Chiesa e della società;
  • consolidare il fiorire di nuovi ministeri assunti ugualmente da uomini e da donne, adulti e giovani;
  • mantenere il fecondo metodo di lavoro basato sul "vedere, giudicare, agire, celebrare e rivedere";
  • approfondire la spiritualità e la pratica ecumenica e di dialogo interreligioso, la dimensione missionaria e di presenza trasformatrice nella società, come anche l'espressione inculturata delle loro celebrazioni e della loro riflessione biblica, teologica e pastorale.

Vogliamo appoggiare le CEBs nelle nostre diocesi con una nostra maggiore presenza nella base, e anche quella di sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose; dare il meglio di noi stessi e delle risorse delle nostre Chiese perché continuino a sbocciare come comunità di fede, di annuncio, di testimonianza di comunione, di dialogo e di servizio fra i più poveri (cfr Direttrici di azione evangelizzatrice del Brasile). Le CEB's sono eredi del sogno di Gesù e della sua missione di liberazione, per la quale Egli ha dato la sua vita e alla quale ci ha chiamato, dandoci il suo Spirito e la sua grazia. (...)

Vescovi cattolici del Brasile e dell’America Latina
presenti al X Interecclesiale

(sommario)

Mons. Masserdotti: in difesa di una certa visione di Chiesa

Qual è il senso di questa Lettera dei vescovi alle comunità?

Noi vescovi presenti all’Interecclesiale abbiamo voluto con questa lettera esprimere il nostro appoggio non solo alle comunità ecclesiali di base, che abbiamo constatato essere vive e dinamiche, ma anche ad una certa visione di Chiesa. Oggi si parla della necessità del dialogo con i movimenti ecclesiali. E’ bene dialogare, ma non partendo da posizioni neutrali. Dobbiamo partire dalla visione di una Chiesa che valorizzi la ministerialità, la partecipazione dei laici, che lotti per realizzare il sogno di una società migliore a partire dal basso, a partire dalla base, che sia politicamente impegnata. Le comunità di base prendono sul serio i nostri documenti, sono fedeli a quello che noi affermiamo. E così ci ricordano che dobbiamo essere anche noi coerenti. A volte noi soffriamo una certa schizofrenia: da un lato un’apparente apertura attraverso i documenti, dall’altro un’incapacità ad essere fedeli a quelle impostazioni che noi stessi abbiamo affermato. E questo vale per il discorso dell’inculturazione, della liberazione, del dialogo ecumenico e macroecumenico e di tutti i bei discorsi che abbiamo fatto e che ci contraddistinguono come una Conferenza episcopale aperta. Una delle preoccupazioni emerse è quella relativa all’eucarestia, di cui si è parlato poco qui all’Interecclesiale, nonostante il grande amore che all’eucarestia riservano le comunità di base. Questo dipende dal fatto che almeno il 70% delle comunità cattoliche non possono accedere all’eucarestia, se non molto sporadicamente, a causa della mancanza di preti, soprattutto in aree dell’Amazzonia. Perché - ci si chiede allora - la Chiesa afferma che è l’eucarestia che costruisce la comunità e poi non crea le condizioni perché essa arrivi realmente alle comunità cattoliche? È evidente che il problema non può essere risolto attraverso una più intensificata promozione vocazionale, ma è necessario, con calma e con serenità, pensare ad altri canali, ad altri mezzi.

 

Da quanto si è visto e vissuto in questo Interecclesiale, le sembra che la normalizzazione abbia colpito anche le CEBs?

Mi sembra di no. Ho notato un clima di serenità, di accoglienza reciproca, ma non di irenismo. In fondo sono emerse anche situazioni di conflitto. Per esempio, riguardo all’eucarestia. Un altro motivo di tensione è dato dal fatto che le comunità ecclesiali di base si sentono non dico abbandonate, ma frequentemente trascurate dai sacerdoti nelle parrocchie. Il conflitto qui è con i movimenti ecclesiali, in forte crescita, come il Rinnovamento carismatico, che ha già superato gli 8 milioni di aderenti. Le comunità chiedono maggiore attenzione e rispetto. Ed era proprio questa la nostra intenzione nel scrivere la lettera: affermare, sì, il pluralismo all’interno della Chiesa, ma ribadendo la linea espressa nei nostri documenti. Una linea che ci sembra essere molto più viva nelle Cebs che nei movimenti ecclesiali. Non sono mancate, nell’incontro, le questioni spinose. Il problema del riconoscimento della dignità della donna in tutti gli ambiti della Chiesa, anche a livello ministeriale, mi sembra che non sia stato fatto cadere. E questo vale per il discorso sull’impegno politico, di liberazione e di trasformazione sociale, per il discorso sui ministeri in generale. Mentre un discorso nuovo che sta emergendo, senza creare conflitto, è quello dell’ecologia.

 

In che senso crea conflitto il discorso politico?

Nel senso che si vorrebbe che fosse più forte da parte dell’istituzione ecclesiastica. Nella tavola rotonda era evidente che chi ha attratto maggiormente l’attenzione dei delegati non era Pedro Casaldáliga, che pure era il più conosciuto ed amato, ma Chico Whitaker, che non è molto noto, perché ha toccato in termini molto concreti il tema della politica partitica, della corruzione elettorale, della violenza.

(sommario)

 


 

LETTERA DELLE COMUNITÀ DI BASE: IL RACCONTO DEI SOGNI E DELLA MEMORIA

DOC-996. ILHEUS-ADISTA. (dagli inviati) Le CEBs non si arrendono. Non si arrendono al clericalismo, all’autoritarismo, al machismo, alla centralizzazione del potere, al rifiuto della dimensione politica della fede. E non si arrendono neppure al neoliberismo "che toglie ai poveri e agli esclusi il diritto di sognare", sistema "escludente che mantiene la dipendenza politica ed economica del Paese impedendo la sovranità nazionale". Contro tutto questo, denunciato con forza nella "Lettera alle comunità" conclusiva dell’incontro, le CEBs riaffermano la propria volontà di sognare e di lottare per una società giusta, solidale, rispettosa della cittadinanza e delle differenze. E di una Chiesa materna, povera, accogliente, decentralizzata, impegnata con la causa degli esclusi. La memoria del cammino già percorso (assente, inspiegabilmente, il riferimento alla Teologia della Liberazione), i sogni e le sfide del presente, gli impegni per il futuro, tutto questo costituisce la Lettera alle comunità che qui di seguito riportiamo, con alcuni tagli, in una nostra traduzione dal portoghese.

 

(...)

Memoria e caminhada

5. Nella grande tradizione biblica del "...i nostri padri ci hanno raccontato", le nostre comunità hanno sempre valorizzano molto la memoria, perché sanno che Dio parla nella storia concreta del popolo. Sanno anche che un popolo che ha coscienza della sua storia è capace di evitare gli errori del passato, di rafforzare le conquiste e di compiere passi sicuri verso il futuro. Per questo ci siamo chinati sui 2000 anni del nostro cammino. Abbiamo cominciato con Gesù e i suoi primi seguaci, che hanno perseverato negli insegnamenti degli apostoli e delle apostole, nella missione, nella frazione del pane, nella preghiera e nella condivisione fraterna dei beni.

6. Osservando il passato a noi più vicino, abbiamo visto che le attuali comunità ecclesiali di base si sono generate da due filoni che si sono intrecciati e completati: uno più religioso, attraverso la recita del rosario, dei gruppi di riflessione, dei circoli biblici, dei pellegrinaggi; l'altro più sociale, dell'impegno nelle lotte popolari, nei campi e nella città.

7. Abbiamo visto che negli ultimi decenni, soprattutto a partire dagli Incontri Interecclesiali, abbiamo fatto un cammino, segnato da passi avanti e da difficoltà, da vittorie e da ostacoli. Grazie alla nostra azione profetica, abbiamo ottenuto molte volte che la società cambiasse la sua agenda, assumendo i temi di interesse per i poveri. Così siamo cresciuti nella difesa dei diritti umani, nella costruzione della cittadinanza, nella lotta per la riforma agraria, nella valorizzazione dei popoli indigeni, del popolo negro, delle donne, dei bambini, dei giovani, dei portatori di handicap e degli anziani.

8. Le nostre Chiese si sono sentite spesso chiamate ad aprire le loro porte ai sogni e alle proposte degli esclusi. Abbiamo aiutato le nostre Chiese ad essere più Chiese di comunione e partecipazione, più attente ai diritti dei poveri e delle donne, più sensibili ai diversi ministeri.

9. Abbiamo fatto memoria anche dell'importanza di organizzazioni che facilitano la nostra articolazione. Abbiamo dato risalto agli Incontri Interecclesiali. Sono 25 anni di cammino! Il nostro famoso "treno delle CEB's" si allunga sempre più. Sono già dieci vagoni. Ognuno di essi trasporta una montagna di storia della caminhada.

10. Attorno al tavolo della Parola e dell'Eucarestia, le nostre celebrazioni sono sempre molto creative, articolate con la realtà del popolo che soffre, e agevolano il legame fra la fede e la vita. Per noi le celebrazioni sono momenti fondamentali per rafforzare la nostra fede nel Dio della vita; per conquistare forza nel cammino, accrescendo la nostra convinzione nella sequela di Gesù. La Bibbia raccontata, cantate, recitata e celebrata, spesso ecumenicamente, è strumento importante del nostro lavoro e fonte di ispirazione per la nostra mistica di militanza.

11. In questa ricostruzione collettiva della memoria, quello che ha riempito i nostri occhi e il nostro cuore di allegria è stato percepire che c'è, da parte delle comunità, un impegno molto serio in innumerevoli lotte sociali e politiche. Abbiamo imparato a legare la nostra fede con la trasformazione della società, partecipando alle associazioni comunitarie, ai gruppi di donne, ai sindacati, e ai partiti impegnati nel progetto politico popolare. Siamo riusciti a far eleggere vari compagni e compagne alle cariche politiche, sostenendoli e accompagnandoli nella loro attività parlamentare e amministrativa, in modo comunitario.

12. Abbiamo visto anche con molta speranza tutto lo sforzo che si va facendo per difendere e riscattare le culture oppresse, nella varie regioni del Paese.

13. Sono state motivo di allegria per noi la presenza costante e la compagnia ecumenica di numerosi fratelli e sorelle delle Chiese cristiane e di altre religioni. Abbiamo riaffermato la nostra alleanza con i popoli indigeni e con i negri, nel loro modo di essere, di esprimersi e di mettersi in relazione con Dio.

14. In questa ricostruzione comunitaria della memoria sono state ricordate varie sfide. Vogliamo condividere con voi i nostri dubbi e le domande per affrontare insieme gli ostacoli che sono sorti.

15. Abbiamo percepito che spesso manca chiarezza sulla nostra identità. Ci sono alcune comunità chiuse e preoccupate esclusivamente delle loro questioni interne. Persiste la pratica dell'autoritarismo tanto da parte del clero quando da parte di laici e laiche. E in alcune comunità la Bibbia è letta in maniera fondamentalista.

16. Queste e altre difficoltà non ci scoraggiano né ostacolano la nostra capacità di sognare un nuovo mondo e una nuova Chiesa. I frutti raccolti in questi 2000 anni di cammino ci danno la certezza che nessuna siccità sottrarrà forza alle sementi irrigate con il sangue dei martiri.

 

Sogni e sfide

 

17. Il terzo giorno dell'incontro, tutti gli arraiais (così sono stati chiamati gli spazi in cui i delegati si sono divisi per gruppi, utilizzando un termine che nella cultura nordestina indica i luoghi di feste popolari, ndt) hanno riflettuto sull'importanza dei sogni nella vita personale, nella vita della Chiesa e in quella della società. Di fronte alla società neoliberale che sottrae ai poveri e agli esclusi il diritto di sognare, è stato posto come una delle grandi missioni delle CEBs il riscatto del sogno.

18. L'uguaglianza in tutte le sue dimensioni - insieme a vita in abbondanza, giustizia e pace, senza discriminazione di classe, di genere o di etnia e con la piena valorizzazione della persona - è stata presentata come il grande sogno che deve essere realizzato.

19. Sogniamo una Chiesa partecipativa, tutta ministeriale, unita nel rispetto della diversità, missionaria. Una Chiesa madre, accogliente, povera, impegnata nella causa degli esclusi e aperta alle nuove sfide. Le CEBs sono profondamente dispiaciute di essere quasi sempre private della mensa eucaristica nelle celebrazioni domenicali e chiedono che la Chiesa ripensi urgentemente la questione ministeriale. Sognano anche una Chiesa dove il potere sia condiviso, e dove si dia spazio alla partecipazione della donna ai vari livelli di servizio e di decisione.

20. In controtendenza rispetto a una società dove la ricchezza è accumulata nelle mani di pochi, il potere è centralizzato, il sapere privatizzato, sogniamo una Chiesa dove tutti leader testimonino, nella loro prassi, una nuova convivenza ecclesiale basata sulla condivisione, sulla partecipazione e sulla comunione.

21. Sogniamo una società giusta, egualitaria, solidale, rispettosa della cittadinanza, delle etnie, che assuma le differenze come fattore di crescita e di arricchimento mutuo. Poiché miriamo alla costruzione di un progetto alternativo di società, manifestiamo la nostra ansia di eleggere politici impegnati in amministrazioni popolari, con bilancio partecipativo, impegnati in una politica di migliore distribuzione del reddito e della terra, che promuovano la demarcazione e la sicurezza delle terre dei popoli indigeni e dei discendenti dei quilombos. Sogniamo una presenza sempre maggiore di cristiani e cristiane nelle diverse istanze di partecipazione e di servizio all'interno della società, come: consigli di diritti, associazioni di quartiere, sindacati, partiti politici e altre organizzazioni e movimenti popolari.

22. Di fronte all'attuale modello di sviluppo economico, di mentalità consumista e distruttore dell'ambiente, rivendichiamo una società rispettosa delle acque e della madre terra come luogo della nostra convivenza solidale.

23. Sono molte le sfide e molti gli ostacoli sulla via della realizzazione di questi sogni. Dal punto di vista personale, percepiamo che l'egoismo, l'individualismo, lo scoraggiamento, la stanchezza, il disincanto e la rassegnazione limitano o impediscono l'assunzione delle lotte di liberazione a tutti i livelli della vita. Nella Chiesa, molte volte, il sogno di una nuova comunione ecclesiale è ostacolato dal clericalismo, dal maschilismo, dalla centralizzazione del potere, dalla non accettazione della dimensione politica della fede.

24. Nella società i nostri sogni sono resi impraticabili dal sistema neoliberista escludente, che mantiene la dipendenza politica ed economica del Paese a scapito della sovranità nazionale. La disoccupazione, il lavoro schiavo e il lavoro infantile, il monopolio dei mezzi della comunicazione sociale, l'ambizione del potere, la concentrazione del reddito e della terra, il processo di indebitamento esterno ed interno, senza investimenti nel sociale e nel settore produttivo rendono il nostro popolo sempre più dipendente e povero.

25. Affrontiamo questi ostacoli e queste sfide. Stiamo già realizzando alcuni dei nostri sogni in relazione alla Chiesa, attraverso lo studio e la celebrazione della Parola di Dio, i corsi di teologia per laici e laiche, le missioni popolari, il coinvolgimento con il popolo nelle varie pastorali e nei servizi, la partecipazione delle donne ai differenti ministeri, le liturgie inculturate. Nella società, il sogno si sta concretizzando attraverso la partecipazione alle lotte sociali e popolari, alla lotta per la riforma agraria con la grinta di movimenti come quello dei Lavoratori Rurali Senza Terra (MST); alle lotte per il rispetto della dignità dei negri(e), delle donne, dei popoli indigeni, per la difesa dei diritti dell'infanzia, dell'adolescenza, della gioventù e della terza età; alle lotte sindacali, politico-partitiche, alla ricerca di un processo di educazione popolare, alla lotta dei popoli indigeni per la terra e l'autonomia.

 

Impegni

 

26. Sottolineiamo gli impegni comuni assunti dai regionali, dagli indigeni, dai negri e dagli evangelici:

27. Riscatto dell'identità delle CEB's;

28. Rafforzamento della mistica, dell'organizzazione e dell'articolazione delle Comunità;

29. Formazione biblico-teologica e accompagnamento sistematico dei dirigenti;

30. Costruzione di relazioni egualitarie fra donne e uomini, nella Chiesa e nella società;

31. Partecipazione effettiva al plebiscito sul debito estero e al Grido degli Esclusi;

32. Coinvolgimento nel processo elettorale e nel controllo dell'attuazione della legge n. 9840 sulla corruzione elettorale;

33. Partecipazione ai Consigli dei Diritti;

34. Appoggio alla lotta dei popoli indigeni per la demarcazione e regolarizzazione delle loro terre;

35. Lotta contro la disoccupazione;

36. Difesa dell'ambiente;

37. Lotta alla discriminazione razziale e appoggio alle lotte del popolo negro;

38. Appoggio alla marcia mondiale delle donne contro la violenza e la povertà;

39. Impegno per la sottoscrizione del "Ripartire la terra per moltiplicare il pane", emendamento costituzionale che limita la dimensione della proprietà rurale nel Paese, nell'ambito della lotta per la riforma agraria. (...).