"La
Vocazione"[1]
Vorremmo oggi analizzare il concetto di vocazione a partire dalle diverse
vocazioni di cui la Bibbia ci dà notizia. Non è neanche una riflessione
spirituale, nel senso classico del termine, vorrebbe essere una riflessione di
carattere teologico.... L'autorevolezza di quello che dirò sta nella logica che
sorregge la proposta; quindi aperta ad ogni valutazione critica.
Alcune
premesse:
Non c'è comunità cristiana oggi che non si
preoccupi del problema delle vocazioni, ed all'interno della Chiesa non
c'è congregazione, istituto, associazione ... che non si preoccupi della
propria continuità e della propria sopravvivenza. Si
tratta di una preoccupazione evangelica se la riconduciamo alla
preoccupazione di Gesù: "La messe è
molta, ma gli operai sono pochi: pregate dunque il Padrone della messe perché
mandi operai per la sua messe' (Lc.
10,2).
Non sono evangeliche, invece, alcune ansietà di troppo e qualche
cedimento alle urgenze, cose che attraversano responsabili ed animatori
vocazionali. E' giustificata invece la sollecitudine delle Chiese, degli
operatori vocazionali per questo problema, anche perché, senza niente
togliere al carattere soprannaturale della vocazione, è vero quanto dice il
Concilio in riferimento a questo tema, più precisamente alla vocazione
presbiterale, ma penso lo si possa estendere ad ogni forma di vocazione
specifica.
Dice il Concilio: "La voce
del Signore che chiama non va affatto attesa come se dovesse giungere
all'orecchio del futuro presbitero in qualche modo straordinario. Essa va
piuttosto riconosciuta ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni
giorno il Signore per far capire la sua volontà ai cristiani prudenti ed ai
presbiteri spetta di studiare attentamente questi segni".
Ecco sono proprio queste le osservazioni sulla natura
e la dinamica della vocazione che chiamano in causa gli operatori
vocazionali e li provocano ad una riflessione sulla qualità
del loro operare nel settore.
La vocazione è oggetto di indagine da parte della sociologia, della
psicologia, della pedagogia, della spiritualità, della pastorale. C'è un
investimento come mai, credo, s'è visto fino oggi, in termine di
persone, di organizzazione, anche di economia.
Io credo che tutti voi, impegnati in questo settore
specifico, vi rifacciate ad un certo concetto di vocazione che ritenete
chiaro, a partire dal quale elaborate le vostre strategie e le vostre
proposte.
Io non voglio minimamente dubitare della correttezza
della vostra ... chiamiamola "ideologia vocazionale", visione ideale
e corrispondente strategia. Il mio intento è molto più modesto: è
quello di offrire un abbozzo di
teologia della vocazione alla luce del quale possiate sentirvi o confermati o
spinti anche a qualche aggiustamento, a qualche integrazione o correzione, se
necessario.
NATURA E DINAMISMO DELLA VOCAZIONE IN GENERE.
Ci sono delle novità nell'ambito della riflessione teologica e la novità
risulta più chiara sulla base di un confronto con la concezione tradizionale.
Si tratta di rileggere il fatto, la realtà o il problema della vocazione sullo
sfondo più ampio del rapporto uomo-DIO,
perché è questo l'orizzonte entro cui collocare questo tema, quindi sullo
sfondo di un'antropologia teologica, cioè che cosa dice la fede a proposito del
rapporto tra uomo e Dio, se è vero che la vocazione è un rapporto, è una
relazione.
In passato, partendo da una visione piuttosto statica della realtà, si
indugiava su una concezione piuttosto 'cosificata', piuttosto essenzialistica
del rapporto uomo-Dio; c'era un concetto-chiave, "il concetto di grazia" che lo definiva.
Tra l'uomo e Dio ci sta questa realtà misteriosa che noi chiamiamo grazia.
Una tal visione
ci faceva credere all'esistenza di un modello comunque omogeneo di
vocazione, per cui la vocazione era uguale
per tutti, nella sua natura
profonda era uguale per tutti, era concepita
come un dono, una specie di decreto eterno che fissava in anticipo il futuro
destino di colui che era chiamato e se ne
trovava anche la giustificazione, a livello biblico.
Alcune espressioni
possono ancora risuonare dentro di noi, nel nostro orecchio: "Fin
dal seno materno io ti ho conosciuto..."
Troviamo frasi di questo genere....
La vocazione era allora una specie di progetto prefabbricato, già inserito embrionalmente nel chiamato (predestinato) fin dal
principio, una specie di copione che aspettava solo di essere recitato,
certamente con una certa partecipazione anche convinta, ma da interpretare il più
possibile alla lettera. Individuarlo questo copione, ed una volta individuato,
metterlo in esecuzione. Esaspero un po' i toni,
per far emergere meglio la differenza!
Una tal concezione determinava, di conseguenza,
precisi comportamenti e del
chiamato e degli stessi operatori vocazionali.
Il soggetto interessato aveva il compito di scoprire la presenza o meno
della vocazione in sé: bisognava andare alla scoperta di qualcosa che non si
sapeva se c' era o se non c' era. Lo faceva tramite la verifica di alcuni
criteri, di alcuni segni.......
Allora...questo
ragazzo o ragazza
mi pare perbene perché.....
ha pietà, ... è docile, ... ha un certo tratto ...
E si pensava di individuare un pochettino il tipo! Fra l'altro, i
criteri erano uguali più o meno per tutti. Poi gli si chiedeva di conservare
gelosamente questo dono: "Attento a
non perderlo! Perché si può anche perdere la vocazione!"
Come potete osservare, si tratta di una concezione
piuttosto cosificata del rapporto con Dio. Del resto era in linea con la
concezione globale dello stesso cristianesimo, dell'esperienza cristiana, della
grazia, dei sacramenti. La grazia era una cosa, i sacramenti erano delle cose
che ricevute producevano qualcosa d'altro, il peccato era qualcosa che si
depositava nell'anima e bisognava tirarla via ... Si aveva
una visione piuttosto
cosificata, oggettiva del rapporto con Dio!
Ciò
interessava anche gli operatori vocazionali, di conseguenza. A partire da una
tal concezione, essi si muovevano secondo una metodologia di pastorale
vocazionale legata a forme di reclutamento,
spesso indiscriminato, con la speranza, più o meno dichiarata, di
"pescare" il fortunato possessore della
vocazione! "Allarghiamo la pesca e chissà che in mezzo ci sia qualcuno
che..."
Come valutare un po' questo?
Non si può certo demonizzare questo tipo di pastorale vocazionale, anzi.
Credo che vada ascritto a suo merito l'aver
sottolineato il primato di Dio e
della sua libera iniziativa, permettendo cosi di valorizzare religiosamente,
in prospettiva di fede voglio dire, l'origine della vocazione e la gratuità che
essa è in grado di esprimere. Tuttavia, mi sembra che una tal concezione nel
contesto dell'attuale riflessione, caratterizzata dall'accentuazione
dell'importante dimensione del ruolo del soggetto e della storia, per cui il
rapporto con Dio non è un qualcosa che avviene al di fuori delle dinamiche
storiche della persona e del contesto in cui si muove.
Ora alla luce di questo recupero dell'importanza del soggetto e della
storia, questa concezione rendeva ragione in maniera non del tutto adeguata
dell'esistenza cristiana. Si tratta
allora di rivisitare questo concetto tradizionale e di vita cristiana e di
vocazione, alla luce di nuove acquisizioni di
fede, circa il rapporto uomo-Dio.
Oggi, come si
pensa ?
L'esperienza cristiana, vale a dire il cristianesimo inteso come questo
rapporto dell'uomo con il Dio di Gesù Cristo, si autocomprende in una
prospettiva più storica, più personalistica si dice, più dialogica.
Ed a sostegno
di questa affermazione possiamo far riferimento ad un testo autorevole, come il
n° 2 della "Dei Verbum" in cui il rapporto uomo-Dio è
descritto proprio in termini di dialogo
storico, che avviene nella storia perchè l'uomo è posto nella storia, ne è il
protagonista.
Dice la "Dei Verbum':
"Dio invisibile, nel suo
grande amore, parla ... (già
questo è un rapporto; non dà qualcosa, ma si mette in comunicazione) agli uomini come ad amici e si intrattiene... (più personalistico
di cosi!) con essi per invitarli ed
ammetterli alla comunione con sé.
Questa economia della rivelazione, cioè questo disegno salvifico, questo
modo di agire di Dio, avviene poi con eventi e parole intimamente connesse: Dio
si mette a contatto con le persone attraverso la storia, parole ed eventi: questa
è la strada normale che Dio ha seguito per comunicare! Non un fatto misterioso,
interiore, che si consuma: certo, coinvolge l'interiorità, ma non è
la strada specifica.
Una tal antropologia trova il suo fondamento
in tutta la Bibbia e,
se vogliamo alcuni riferimenti esemplari possiamo ricordare i
racconti della creazione, sia nella versione che ne dà la tradizione
sacerdotale sia nella versione che ce ne dà la tradizione jahvista.
Nelle due
narrazioni della creazione Dio si intrattiene con Adamo, con i primi uomini:
è in un rapporto di amicizia.
Possiamo anche seguire la pista delle diverse
vocazioni: Abramo, Mosè, i Profeti.
A livello più teologico, questa concezione, chiamiamola
dialogico-vocazionale, della persona, che ovviamente attinge anche dalla
riflessione filosofica, quando la persona si auto-scopre come una autorelazione
tra un io ed un tu, si intrecciano vari aspetti.....
A livello teologico
trova motivazioni e radici nello stesso mistero trinitario; che poi è un
intreccio di relazioni. Le implicanze, allora, di una simile relazione sono
molteplici.
A noi interessa rileggere in termini personalistici
la realtà della vocazione, per evidenziarne poi le conseguenze sul piano dell'
azione pastorale, che è più vostro.
Chiariamo la natura della vocazione
alla luce di questa impostazione
nuova del rapporto uomo-Dio.
Risulta chiaro
come la vocazione debba essere essenzialmente intesa come un evento, un fatto,
un avvenimento, qualcosa che accade, di incontro di tipo relazionale tra Dio e
l'uomo nella storia.
Ciò implica il
concorrere di questi tre elementi essenziali:
- Dio
- il soggetto
- la
sua realtà storica.
Nessuno di questi tre elementi, pur nella loro
disparità (perchè non di eguale valore) può e deve essere sottovalutato,
perchè il rischio è quello di alterare, evidentemente, la stessa realtà
vocazionale. Allora facciamoli interagire tra di loro questi tre elementi.
Anzitutto la
vocazione è da parte di Dio, è
iniziativa di Dio certamente!
Il suo carattere tradizionale, quello
dell'iniziativa divina che precede e fonda ogni possibile risposta umana, è un
dato irrinunciabile del vangelo della vocazione. Non si può parlare di
vocazione in senso cristiano, prescindendo dal fatto dell'iniziativa di Dio e
se ne fa autorevole interprete Giovanni Paolo Il al capitolo IV del
documento: "Pastores dabo vobis"
(è vero che la prospettiva è sempre la vocazione presbiterale, ma la
assumiamo come paradigma, come
simbolo di ogni altra vocazione). Al n°
36 dice:
"La storia di ogni vocazione
sacerdotale (come peraltro di ogni vocazione cristiana),
è la storia di un ineffabile dialogo tra Dio e l'uomo, tra l'amore di Dio che
chiama e la libertà dell'uomo che, nell'amore, risponde a Dio, è questo il
paradigma costante...". E
conclude: "Ma del tutto prioritario, anzi preveniente, e quindi fondante e
decisivo, è l'intervento libero, gratuito di Dio che chiama. Sua è
l'iniziativa di chiamare."
La consapevolezza ed il rispetto di tale priorità
esclude, quindi, ogni forzatura, da parte di chicchessia; esclude ogni pretesa, sia
da parte del soggetto che non può autochiamarsi, autoinvitarsi... "ma
io vorrei farmi prete, vorrei
farmi suora" ... No!: la vocazione è
iniziativa di Dio. Sia
da parte di quanti collaborano all'azione divina: nessuno può imporre una
vocazione! La vocazione è un dono, non è un diritto per nessuno! Non è una
promozione. Mi piacerebbe tanto
andare sull'altare, vestire da monsignore!" No. Un semplice progetto
personale? No assolutamente.
Ma come concepire questa iniziativa divina una volta affermata? Qui il
pericolo è di ricadere ancora in una concezione mitica della vocazione, come
qualcosa, dicevo prima, di inserito dall'esterno, ad un certo punto della
vita, magari. Questa concezione un po' puntuale: Dio che irrompe dentro la vita
ad un certo momento, scombinandola.
Oppure come un seme... forse questa è un'immagine,
un simbolo, una figura che è più frequente, inserito embrionalmente fin da
principio.
Ecco la tendenza è sempre quella, con queste
immagini, di oggettivare, di cosificare il mistero, cioè cosificare Dio stesso
se fosse possibile, poterlo meglio possedere. Perchè se la vocazione è un
seme, l'idea del seme ce l'ho, è
abbastanza chiara, mi par di possederla e quindi custodirlo, farlo crescere. Ora Dio non è come il profeta che appare
improvviso sulla scena, passa, vede, chiama e poi non torna più (quando
facciamo le analisi dei passi biblici corrispondenti nel vangelo, insistiamo
molto nell'analisi di queste parole: è giusto!).
Ricordiamo un po' tutti... almeno io ricordo nella
mia infanzia espressione come queste: "Ho paura del Signore che passa"
e se passa invano, non torna più indietro e quindi se perdo l'occasione divento
responsabile di aver perso la vocazione. (?)
Ma il Dio che ci
presenta la Bibbia è il Dio, il Vivente!
Dicono i filosofi: l'Atto puro che è sempre in azione, non è mai
impotenza, è sempre in azione, è sempre in una relazione di appello nei
miei confronti, mi chiama sempre, è sempre in un atteggiamento vocazionale.
Il Vangelo di Giovanni,
al capitolo 5, 17 afferma: "Il Padre
mio opera sempre!". Ecco Egli muove i cuori con il suo Spirito in ogni
tempo, in ogni circostanza, in una maniera che supera ogni nostra
comprensione, Dio si rivela sempre all'uomo, "premendo"
in qualche modo sulla sua
coscienza; premendo nel senso che siamo sempre alla
ricerca di senso, alla ricerca di
verità, alla ricerca di felicità: per
noi credenti questa tensione che ci è riconosciuta
anche dal non-credente, per noi non è altro che il 'premere' di Dio
nella coscienza dell'individuo; è la presenza di Dio, in qualche modo, in ogni
circostanza perchè l'uomo lo possa scoprire.
"Sto alla porta e busso".
E quando questa
scoperta si verifica è sempre la scoperta di un Dio
che "era già là" e che sempre viene nella mia vita, qualcuno
che già fa parte della mia storia.
Pertanto l'agire di Dio... quindi la vocazione come
iniziativa di Dio a livello personale, pur essendo un inizio assoluto, perchè
non è che noi siamo come Dio, abbiamo inizio ad un certo momento, come atto
di creazione, di fatto si realizza secondo la logica della progressione storica
e secondo costanti che scandiscono il generale disegno salvifico di Dio.
Difatti com'è
CHE QUESTA INIZIATIVA DI Dio si realizza? La dobbiamo vedere sullo sfondo dell'azione
globale di Dio nei confronti del mondo e dell'uomo: ha le stesse caratteristiche
nei miei confronti personali: in
fondo Dio esercita su di me la stessa azione creativa che ha esercitato sul
mondo e sull'umanità.
Ma quali sono i
tratti di questo agire di Dio?
La sua è una costante azione creativa, per cui la vocazione come atto
creativo di Dio, non la si perde mai: Dio ci crea e ci ricrea continuamente! Non
solo. La sua creazione non è un semplice atto di potenza, ma è una PAROLA,
non è un far qualcosa, è un DIRE
QUALCOSA, per cui la vocazione è una libera iniziativa di Dio che
interpella: è una PAROLA in questo senso.
La Parola nasce da una scelta: è la Persona che si dice e può anche
non volersi dire; quindi è un iniziativa libera di Dio che interpella,
perchè la parola è sempre un appello rivolto a qualcuno... Non si parla inutilmente! Quando uno parla da solo si dice che è un
po' fuori testa.... Che interpella un'altra libertà: quindi un dialogo, direi
non miracoloso, ma che si inserisce nella storia personale di ciascuno,
rispettandola.
Ancora:
l'azione di Dio è sempre e contemporaneamente un'
azione salvifica, una liberazione.
Pertanto la vocazione, riletta alla luce di questa caratteristica dell'azione
di Dio, è sempre anche una storia di conversione.
Se è vero questo, nessuna esperienza di debolezza,
nessuna consapevolezza di indegnità, nessuna situazione di peccato può
impedire o bloccare il dialogo
vocazionale!
E se noi guardiamo alla Bibbia troviamo la conferma:
Paolo è stato chiamato non perchè era un bravo ragazzo, stava perseguitando la
Chiesa di Dio! Noi l'avremmo messo alla gogna, il Signore invece lo chiama.
La conferma l'abbiamo a partire dal fatto che il
Sacramento della Penitenza è il momento fondamentale della storia delle
singole vocazioni, noi diciamo. Tra
l'altro, quando facciamo la proposta di un cammino vocazionale, noi diciamo che è importante la celebrazione
della penitenza, della Riconciliazione. Credo che al di là del sacramento è la
stessa vita che ha bisogno di riconciliarsi continuamente. Allora il sacramento
ci permette di recuperare, dà slancio alle responsabilità che non sempre noi
riusciamo ad onorare in maniera coerente.
Mi domando:
quali le conseguenze, se queste cose sono vere, circa l'attività vocazionale?
Noi abbiamo come unico criterio esclusivo, dicevo prima, certi tipi....
Non ce la sentiamo di accettare una prostituta che venga a chiederci: "Io voglio farmi suora"
... o altro tipo di persona.
Ci sono dei monasteri che attualmente si aprono a queste esperienze!
Abbiamo un criterio!........
La Sua azione, inoltre, è orientata ad un'alleanza.
Ora rileggere la vocazione in termini di alleanza vuol dire evocare i
tratti fondamentali dell'alleanza ed applicarli quindi alla vocazione, che è
pure un'alleanza. E quali sono i tratti?
·
Anzitutto
la sua incondizionatezza: ciò
ci chiama per puro amore, non in
base alle nostre qualità! "Non ti ho scelto perchè eri un popolo migliore
di altri, più numeroso, anzi eri il più piccolo...."
"No.
Ti ho scelto per puro amore". Allora non sono le nostre
qualità umane che fondano la dignità o meno della vocazione! Io capisco
qui che poi ci troviamo in difficoltà rispetto anche ad una prassi; si tratta
comunque di interrogarci!
·
L'altra
caratteristica dell'alleanza, è la sua irrevocabilità,
per cui certamente noi ci possiamo sottrarre ai benefici di questa alleanza, ma Dio non si ritira, si lega a noi indissolubilmente.
In questa
prospettiva la vocazione non si perde mai.
Quando Dio ha stabilito un'alleanza con noi nel
matrimonio, i due possono anche dividersi, però l'alleanza da parte di Dio
resta sempre, è sempre li. Possiamo
abbandonare il sacerdozio o la vita religiosa, o le altre scelte consacrate.....
Dio ci ha chiamati per sè ed è sempre lì in atteggiamento di alleanza: sta a
noi se vogliamo recuperarlo (a parte che poi la Chiesa dispone in una certa
maniera piuttosto che in un' altra... lo fa per ragioni pastorali o per altre
ragioni che possono anche essere plausibili...).
L'azione di
Dio, infine, è sempre un invio, una missione, un compito.
Tutte le vocazioni bibliche sono finalizzate ad una missione, per cui
vocazione e missione sono due termini correlati, uno rimanda all'altro. Anzi la
missione conferisce il contenuto proprio dell'esistenza cristiana. E' grazie
alla missione che ognuno, oltre ad edificare il regno di Dio nella storia, si
costruisce lui stesso come parte di questo regno.
E qui facciamo un'altra osservazione:
non avete l'impressione che molta azione di pastorale vocazionale sia
sbilanciata sul "venire" sullo "stare con",
sull'ascolto", sul "contemplare", lasciandosi inconsciamente
condizionare dalla pedagogia del 'solo vedere', 'solo ascoltare', del
'solo toccare' che, pur necessario, come dice San Giovanni nella I
Lettera: "Quel che noi abbiamo
udito, che noi abbiamo veduto, che le
nostre mani hanno toccato..."
tutto questo riceve contenuto dalla seconda parte del discorso...
"Tutto questo noi lo annunciamo a voi, perchè siate in comunione
con...": il
discorso della missione!
Ed ultimo elemento che vorrei segnalare è il
tratto ecclesiale della chiamata.
E' questo un aspetto ben evidenziato al n°
35 della "Pastores dabo vobis": dopo aver riaffermato
che ogni vocazione cristiana viene da Dio, è dono di Dio, Giovanni Paolo Il
afferma esplicitamente:
"Essa però non viene mai elargita fuori od
indipendentemente dalla Chiesa, ma passa sempre nella Chiesa e mediante la
Chiesa". Cioè fa parte dell'iniziativa di Dio anche il passare tramite
la Chiesa (qui c'è un grosso problema, evidentemente). "Perchè,
come ci ricorda il Concilio Ecumenico Vaticano Il", (dice sempre la
"Pastores dabo vobis"),
"piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini, non individualmente e
senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo che Lo
riconoscesse nella verità e santamente lo servisse.
Allora la dimensione ecclesiale è parte costitutiva dell'azione
dell'iniziativa di Dio: la vedo su questo versante.
Che poi la Chiesa si debba dar da fare, certamente!
Ma vista in quest'altra ottica; anzi è la Chiesa stessa che si configura come
mistero di vocazione, per nativa costituzione è vocazione e quindi generatrice
ed educatrice di vocazione.
Non solo la vocazione deriva dalla Chiesa e dalla sua
mediazione, (ovviamente attingendo da Dio, come segno e sacramento appunto
della chiamata di Dio), non solo si fa riconoscere e si compie nella Chiesa
(seconda sottolineatura), ma si configura
anche come servizio alla Chiesa.
Quindi la dimensione ecclesiologica della vocazione
passa attraverso questa triplice sottolineatura:
* arriva da Dio tramite la Chiesa,
* si compie
nella Chiesa,
* a
servizio della Chiesa.
E' un dono destinato alla edificazione della Chiesa e alla crescita del regno di
Dio nel mondo.
Quanto detto sul carattere ecclesiale della vocazione
non può non avere una sua ricaduta in relazione al carattere ecclesiale della
pastorale vocazionale.
Incombe sulla Chiesa tutta il compito di annunciare e
testimoniare il Vangelo, cioè la Buona Notizia della vocazione.
Per cui la pastorale vocazionale ha come soggetto
attivo, come protagonista, la comunità ecclesiale come tale, nelle sue diverse
espressioni.... Tutti i membri della Chiesa, nessuno escluso, hanno la grazia e
la responsabilità della cura delle vocazioni!
La "Pastores dabo vobis" fa
un'enumerazione: Vescovo, presbiterio, famiglia, scuola, fedeli laici, catechisti
insegnanti, educatori, animatori della pastorale giovanile... fa
un'elencazione perchè la Chiesa è una realtà organica. E conclude dicendo:
"Sono da stimare e promuovere
i gruppi vocazionali, nonché movimenti ed associazioni dei fedeli laici".
Ed ancora una nota conclusiva che ci riguarda
direttamente:
"Le varie componenti ed i diversi membri della Chiesa
impegnati nella pastorale vocazionale, renderanno tanto più efficace la loro
opera, quanto più stimoleranno la comunità ecclesiale come tale, a cominciare
dalla parrocchia, a sentire che il problema delle vocazioni non può minimamente
essere delegato ad alcuni incaricati. Perché, essendo un problema vitale che si
colloca nel cuore stesso della Chiesa, de ve stare al centro dell'amore di ogni
cristiano verso la Chiesa."
Si tratta di ricostruire la "mentalità cristiana" non solo nei
singoli, ma come fatto connaturale all'interno della Chiesa.
E' un'impressione che molti sforzi, molte energie, molte persone impegnate
nell'ambito vocazionale, sembrano produrre poco, perché?
Ma perché è scomparsa questa "mentalità",
questa "cultura" vocazionale nel contesto ecclesiale. Potrete
aumentare i vostri sforzi, ma più di tanto non produrranno... perché il
"bacino d'utenza" si restringe sempre di più.
Abbiamo un appello che ci tocca da vicino, in qualche
modo. La vocazione vista sul versante della risposta umana, ossia
il problema del raggiungimento da parte del soggetto di questo rapporto
particolare con il Signore.
L'insistenza sul carattere personale del rapporto
Dio-uomo, se da un lato ci ha spinto à sottolineare la priorità dell'
iniziativa di Dio, dall'altro lato non
ci permette di sottovalutare l'altra dimensione, altrettanto essenziale, della
risposta intesa come esercizio della libertà umana. Lo dice sempre la
"Pastores dabo vobis", al n°
36:
"La libertà è essenziale alla vocazione. Una libertà che nella
risposta positiva si qualifica come adesione
personale, profonda, come donazione d'amore, o meglio come ri-donazione
al Donatore, che è Dio che chiama."
Si tratta di ricambiare il dono, riportarlo alla sua
radice.
"Non vi
possono essere vocazioni se non libere", diceva Paolo VI. Se esse, cioè, non sono
offerte spontanee di sé, generose e totali, non esistono. Quest' idea
di offerta totale di sé, oblazione, è il vero problema, dal punto di
vista del soggetto che risponde..... l'offerta
di sé!
L'iniziativa di
Dio sempre in atto si realizza sempre in rapporto alla libertà, alla novità
della libertà dell'uomo.
Dio parla ad un
uomo che è un essere libero, situato
nella storia.
Risulta evidente che una relazione personale (e la
vocazione è una relazione personale), anche quando sia offerta da parte di
Dio, arriva a realizzarsi concretamente solo quando viene accolta da parte di
chi riceve questo dono.
La vocazione di Dio si fa concreta, esiste, solo
quando c'è una libertà storica che l'accoglie. Non esiste la vocazione
indipendentemente da un'accoglienza, non è ancora vocazione: è solo appello.
Se la vocazione
è proposta e risposta,
bisogna che la risposta ci sia perché esista vocazione. Quindi non devo
concepirla come qualcosa già dentro
di me ben formata, che si tratta di scoprire. Si tratta di realizzarla la
vocazione; altrimenti rimane solo proposta, offerta, possibilità di vita, ma
non ancora stile di vita, modo, scelta.
Come sarà
il tipo di risposta?
Qui siamo chiamati a riflettere sul tipo di dinamiche che sono o devono
essere messe in atto, è a questo livello che l'azione umana può intervenire.
Anzitutto segnaliamo l'esigenza di un corretto modo di pensare il processo della
"chiamata-risposta".
Riaffermando che la vocazione è libera iniziativa di
Dio, non possiamo pensare alla volontà di Dio come ad una pura arbitrarietà,
ad un Dio capriccioso, o peggio ancora, indifferente nei confronti dell uomo.
No. Dio
coincide con la sua libertà; Dio è LA LIBERTA'. Per cui Egli è ciò che vuole essere; coincide con la sua
volontà, con l'esercizio della sua libertà.
Il Dio di cui ci parla la Bibbia è un Dio che sta in
rapporto amoroso nei confronti dell'uomo: Dio è questo, DIO E' AMORE. Dio
non gioca quindi a nascondino con l'uomo, è un Dio che si vuol far trovare;
non solo ma si rivela, si manifesta.
Direi di più: non sta di fronte a noi come un "partner alla
pari", che detta leggi, a cui noi dobbiamo obbedire; ma è uno che si è
talmente consegnato a noi da costituire la sorgente della nostra libertà, il
fondamento. E' un Dio che si è consegnato all'esercizio della nostra libertà! "Fate
di me quello che volete".
Qui abbiamo (e potrebbe essere discutibile) una
visione teologica che si rifà a
Rahner. Significa che Egli non esprime la sua signoria su di noi come un giogo,
ma attraverso l'esercizio corretto (usiamo questo termine insufficiente) della
nostra libertà. Noi rispondiamo a Lui accettando in pieno il rischio della nostra libertà:
la
nostra libertà è il 'luogo' nel quale Dio si è
consegnato a noi!
Allora nel
dialogo con Dio il giovane credente inter-agisce con Dio nel dar forma alla propria
vocazione, proprio in questo dialogo ogni vocazione si riconosce nel mentre
stesso che si va attuando, man mano io esercito la libertà; nel dialogo con
Dio io costruisco la mia identità di credente e di chi è amato.
In questa
prospettiva la vocazione non è "preconfezionata", non è
"data", ma si fa nel mentre; per esemplificare un POI, nel mentre
ascolto la Parola di Dio, nel mentre ascolto le esigenze del mondo, dei
fratelli, mi sento disponibile, nasce
dentro di me una disponibilità e
mi decido per.
Mentre vivo tutte queste dinamiche, la vocazione si
concretizza, prende forma in me, io vengo configurato secondo quella forma. Ho
evocato anche la decisione, perchè la
decisione non è susseguente alla vocazione:... ho scoperto la vocazione e mi
decido, a cui poi mi consegno.
Ma entra come elemento costitutivo
della vocazione: finché non ho deciso, non sono chiamato ancora.
Più
dettagliatamente: le piccole scelte a cui le circostanze della vita
ci provocano concorrono a dar figura alla vocazione specifica, danno
identità precisa alla nostra storia, definendola come storia presbiterale, come
storia consacrata in questa istituzione o in quest'altra: laicale,
matrimoniale, ecc.....
Se dico questo non è per una paura razionalistica,
dello straordinario, del miracoloso.
Sappiamo che la vocazione straordinaria è sempre
possibile, alla San Paolo! Ma non è questa la via ordinaria di Dio.
Quindi se dico questo è per una realistica, mi pare,
e coerente accettazione del principio dell'incarnazione, che è poi della
rivelazione stessa, di un Dio che si manifesta nella storia, che connota poi
tutta la Bibbia. Israele sia alle sue origini, sia nel momento più alto in cui prende coscienza di essere il
popolo eletto, scopre la presenza attiva di Dio nel travaglio della propria
libertà; si va costruendo come popolo di Dio.
Detto questo
rimane aperto il problema di come "appropriarci" allora di questa
vocazione,
di questo modo di rispondere. E qui
rivediamo subito alcune modalità insufficienti, che possono interrompere o
compromettere il cammino vocazionale: quando la vocazione è relegata alla
suggestione di un rapporto puramente emotivo, all'istanza puramente sensitiva:
"Sento ... o non mi sento."
Non si tratta certo di demonizzare l'universo delle
emozioni, anzi è importante chiamarle in causa... Abbiamo visto che anche San
Giovanni dice: "Quello che abbiamo
visto, udito, toccato...", quindi non è da scartare questo. Non si
tratta quindi di demonizzare l'universo dei sentimenti, delle emozioni, ma di
impedire che la vocazione sia percepita e vissuta solo sul terreno della soddisfazione e del godimento, perchè
spesso non c'è per niente soddisfazione e godimento.
Bisogna inoltre, e questo è l'altro aspetto e
l'altro estremo, strappare la realtà
della vocazione al rapporto esclusivamente concettuale.
La vocazione non è unicamente un pensare, un rappresentarsi,
un possedere delle conoscenze sulla realtà di Dio e di Gesù Cristo e
della Chiesa. La vocazione quindi non è frutto di geniali intuizioni o di
folgorazioni che prendono; nessuna semplificazione, quindi, in questo senso.
La vocazione,
vista dal punto di vista del soggetto, è un atto complesso.
Certo è un sapere, un conoscere, e quindi chi fa attività vocazionale
deve tener conto di questo, non può giocare sulle emozioni esclusivamente!
E' un sapere....
E' un sapere ed un avvertire come un bene per me,
avvertire che c'è una relazione. Non mi basta verificare la verità, la
chiarezza, la logica, l'intelligibilità, il rigore intellettuale delle verità
cristiane, lo desidero, lo cerco,
sento che è il senso della mia vita, che c'è una relazione buona che si
instaura con Lui, che è una garanzia di un "benessere"....
Ecco il valore etico che appare e che instaura una
relazione e che provoca, ovviamente, una decisione, per cui decido
di affidarmi ed è il sapere
della libertà.
Questo è il
nostro modo di 'sapere' Dio, il Dio
rivelato da Gesù.
E' chiaro allora che a livello di attività vocazionale si tratta di
agire a questi tre livelli, fare in modo che essi interagiscano tra di loro in
maniera circolare, in maniera armonica. Nessuno dei tre, in qualche modo, deve
mancare.
Come si colloca allora l'educatore di fronte a questa
modalità, a questa struttura ?
Aiutando l'interessato, in questo caso, a non
confondersi in qualche modo con la chiamata. E' importante che colga i segni
gratificanti ma deve anche tener
conto dei suoi limiti, delle sue resistenze, delle sue povertà di fronte alla
vocazione. Quindi, mi pare, vigilare su certi entusiasmi un po smodati, su
una certa irruenza spirituale... e diffidare della modalità di essere
totalmente dall'altra parte.... senza avvertire che Dio resta ALTRO
rispetto alla percezione che io ne ho.
Quindi aiutare a non dimenticare se stessi. Lo
vocazione come chiamata non gode della scomparsa del soggetto: abbiamo visto,
deve interagire! Quindi non è il fatto di perdere se stessi, di sacrificare se
stessi al punto da farsi
scomparire. Non bisogna perdere il contatto con la storia:
siamo qui con le proprie responsabilità..... evitare
quella specie di risonanza di tipo orgoglioso,
o di ostentazione, di essere in qualche modo chiamati da Dio (oggi c'è
questa specie di orgoglio), ma conservare i
tratti di una personalità piuttosto serena, umile, piuttosto modesta, che
sappia occupare un posto nel contesto o nel concerto della comunità cristiana o
della Chiesa.
(Trascrizione
di P. John Fenzi - Missionari Comboniani -
Thiene)