Nel momento in cui dai alla luce questo
libro (1990), escono varie
altre pubblicazioni. Ci avviciniamo all'anniversario dei 500 anni e abbiamo
appena celebrato i vent'anni di Medellin. Si sono appena compiuti anche i
vent'anni dal tuo arrivo in Brasile, vent'anni di cammino della tua Chiesa di
Sao Felix do Araguaia, e i tuoi sessant'anni. .. Come vedi la congiuntura
globale in cui appare questa tua nuova pubblicazione?
Mi sembra una congiuntura estremamente provocatoria, e allo stesso tempo
salutare. In termini cristiani, tutto ciò che é salutare rappresenta anche una
provocazione. Indubbiamente Medellin è stato il punto più alto della storia
ecclesiale dell'America Latina. In un certo senso il gran concilio
latinoamericano di Medellin, il nostro concilio più grande, ha rappresentato
una rottura e un gran balzo verso il futuro. Allo stesso tempo, i
"cinquecento anni", ai quali ci stiamo avvicinando, e che Spagna,
Stati Uniti, governi e istituzioni dell'America Latina e dell'Europa si
dispongono a celebrare in modo molto "festivo", molto acritico, spinti
certamente anche da molti interessi - il grande turismo dei 500 anni, la grande
baldoria etnocentrica dei 500 anni... - tutto questo ci obbliga, come cristiani
e come latinoamericani, a rivedere, a riesaminare, a rifare il cammino a
ritroso, a tornare indietro verso le fonti dell'identità latinoamericana e
anche verso le fonti dell'identità cristiana, cioè a
"de-colonizzare" e a "de-evangelizzare"Â…
La celebrazione dei 500 anni dovrà essere festiva o penitenziale?
Può essere le due cose insieme. Io celebro la morte di Cristo
penitenzialmente e festosamente. Deve essere una celebrazione pasquale. In primo
luogo, dobbiamo chiaramente riconoscere tutto ciò che in questi anni c'è stato
e c'è ancora di morte, di negazione, di proibizione, di schiavitù, di
colonialismo, di etnocentrismo, di riduzionismo.. In secondo luogo, dobbiamo
celebrare anche tutto ciò che in questi 500 anni c'è stato di eroismo, di
rischio, di martirio. .. Chiaramente non parlo solo dei martiri che forse gli
indigeni ci hanno procurato, ma soprattutto dei molti più martiri che noi
abbiamo procurato agli indigeni. Intendo parlare di tutti "i martiri del
Regno" che ci sono stati in questo continente per difendere la propria
cultura, per difendere la libertà , per difendere la giustizia. E forse per
annunciare il vangelo di Gesù.
La scoperta dell'America è stata una "scoperta"?
No. Si è trattato in gran parte di un incontro casuale. E' stato anche uno
scontro di culture e di popoli. E' stata un'avidità . E' stata un'invasione. E
stata una conquista. Dobbiamo far sì che diventi sempre di più un incontro di
continenti, un incontro di popoli. Quando i membri del CIMI (Consiglio
Indigenista Missionario-Brasile) e tutti gli antropologi onesti contestano le
politiche dei governi del continente verso gli indigeni, ciò che si contesta è
l'" integrazione" di queste culture, di questi popoli in una presunta
nazione più grande, in una cultura ipoteticamente più vasta o migliore.
Tuttavia, diciamo anche che potremmo accettare molto bene una "
inter-integrazione", cioè che un continente si incontri con un altro
continente, che determinati popoli si integrino con altri popoli e si "inter-integrino".
L'America Latina può e deve dare all'Europa molta ecologia, molta natura, molta
gratuità , molta gioia, molto colore, molta ospitalità , molta solidarietà ,
molta utopia, molta speranzaÂ…
L'evangelizzazione dell'America è stata una
"evangelizzazione"?
E' stata un'evangelizzazione forzata, molto
culturalista, molto impositiva. E
stata una evangelizzazione molto poco evangelica. E questo perché, servendo il
Signore, serviva il Re; portando il Vangelo portava anche cultura europea,
ispanica; credendo di annunciare il regno di Dio imponeva l'impero. Insomma era
poco lucida teologicamente. Forse le circostanze non hanno permesso che si
facesse di più, ma noi siamo obbligati a criticare la storia passata alla luce
di ciò che la storia presente ci consente, in modo da correggere il futuro. Si
è trattato di un'evangelizzazione violenta, che ha provocato quegli eclettismi
che in seguito con tanta frequenza e molta facilità abbiamo condannato. Il
mondo indigeno continua ad esistere. Anche il mondo nero continua ad esistere.
Fortunatamente non sono stati completamente distrutti ed hanno ancora
sufficiente vitalità per continuare ad essere se stessi, anche essendo
cristiani, anche essendo - forse "nuovamente"- evangelizzati.. .
L'evangelizzazione dell'America Latina è stata ambigua. La sua memoria dovrebbe
provocare una celebrazione penitenziale, per arrivare a quell'evangelizzazione
coraggiosa e "nuova" che lo stesso Giovanni Paolo Il chiedeva con
riferimento ai 500 anni.
Hai detto che tutto questo ci obbliga a "de-colonizzare" e a
"de-evangehzzare". Che cosa significa "decolonizzare"?
"Decolonizzare" potrebbe significare: tornare alle fonti
dell'identità latinoamericana, lasciare che l'America Latina sia ciò che
originariamente è, permettere che si realizzi come un continente di tutti,
fraterno, con una unità radicale, indigena, nera, creola. ..
"Decolonizzare" potrebbe voler dire lasciare che si realizzi e si
liberi questo continente finora proibito, dipendente, sottomesso ad un debito
estero ingiusto, iniquo, un debito che il popolo latinoamericano non deve
pagare, perché non è stato lui a contrarlo; un debito che il popolo
latinoamericano non può pagare, perché l'ha già pagato, con le materie prime,
con a mano d'opera a basso costo, attraverso la consegna dei propri beni, del
suolo, del sottosuolo...; un debito estero che è peccato pagare, che è peccato
riscuotere... "Decolonizzare", tornare all'identità latinoamericana,
significa permettere che la grande identità latinoamericana - che è
indubbiamente la somma di molte culture, inizialmente di molti popoli indigeni,
del popolo negro, schiavo, portato in America Latina, e poi del popolo creolo -
possa esprimersi in tutti gli aspetti della vita culturale, nelle sue produzioni
letterarie, artistiche, nell'educazione, nell'organizzazione politica,
amministrativa, e anche nell'agricoltura... "Decolonizzare" significa
permettere al popolo latinoamericano di esprimersi nel concerto delle nazioni
del mondo come altro, come diverso, a mio modo di vedere con una identità che
in un certo senso unifica tutti questi popoli e che consente di poter parlare
legittimamente di "Grande Patria ": l'intera America Latina e i
Caraibi.
Che cosa significa "de-evangelizzare"?
"De-evangelizzare" potrebbe significare decolonizzare
l'evangelizzazione. Il vangelo è arrivato in America Latina avvolto, portato,
espresso da una cultura al servizio di un impero, all'inizio quello spagnolo. Più
che un messaggio evangelico limpido, sovraculturale, liberatore... è giunto un
messaggio di importazione culturale che in 500 anni ha fatto sì che in America
Latina non si potesse realizzare veramente una Chiesa autoctona. Puebla, nel
famoso documento verde, che provvidenzialmente fu respinto in quanto a mio
parere incompleto e deformante, parlava dell "evangelizzazione delle
culture". Questa espressione viene ora ripresa nuovamente in America
Latina, nel Celam, in Vaticano. L'espressione potrebbe anche essere valida,
sempre che non la si riduca a quella forma di culturalismo che nega il processo
storico totale, che non è solo culturale ma anche politico. Dev'essere un'inculturazione
che entri in pieno nelle culture dei popoli, nella storia di questi popoli, e
nei nuovi processi storici che questi popoli stanno vivendo: processi culturali,
sociali, economici, politici.. . De-evangelizzare ciò che è stato mal
evangelizzato, per noi, in America Latina, può significare solo un punto di
partenza per una piena liberazione socio-politico-economica, culturale,
integrale; può significare solo evangelizzare in modo liberante i processi
storici dei nostri popoli. I processi di liberazione dei nostri popoli, alla
luce della fede, si integrano, fanno parte, in un certo senso costruiscono,
annunciano, preparano, ricevono, attendono... il grande Processo del Regno.
Puebla parlava legittimamente anche della "civiltà dell'amore",
espressione molto bella, molto stimolante e cristiana, se pienamente intesa.
Tuttavia sia in America Latina che in Europa, questa espressione è già stata
diluita in una specie di irenismo che nega la drammaticità dei processi storici
che noi, qui in America Latina e in tutto il Terzo Mondo, stiamo vivendo. Alla
"civiltà dell'amore" occorrerebbe aggiungere ciò che con espressione
felice il teologo gesuita spagnolo, basco, salvadoregno Ellacuria, chiamava la
"civiltà della povertà ".
"De-colonizzare" e "de-evangelizzare", allo stesso
tempo... Vorrei esprimerti già da ora un dubbio che avrà già assalito più di
un lettore, dopo quanto hai detto, e che molti altri esperimenteranno
inevitabilmente alla fine di questo libro: non stai per caso mescolando il
religioso al politico? In quanto hai detto non c'è forse molta politica?
Vorrei rispondere a questa possibile accusa o stranezza, risalendo al
fondamento ultimo, a Dio stesso. (Senza dubbio, in questo contesto di
"de-evangelizzazione" e di ritorno alle fonti della nostra identitÃ
cristiana, possiamo inserire anche la necessità di rivedere lo stesso Dio, di
riesaminare la nostra immagine di Dio). Il nostro Dio, se non vogliamo ridurlo
ad un idolo, può essere solo Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Paolo
parla dell'umanità , della condizione umana del Dio che è venuto tra di noi. Io
vorrei interpretarlo così. Il nostro Dio è un Dio che si è fatto uomo, che si
è incarnato. Suo Figlio è il Verbo, Gesù Cristo, Gesù di Nazareth, nato da
donna, figlio di Maria, uomo storico sottoposto ad una cultura, in un tempo
determinato, sotto un impero. . . Il mistero dell'incarnazione, per noi
cristiani, è l'espressione massima della solidarietà umana di Dio. Gesù
Cristo è la solidarietà storica di Dio verso gli uomini, con ogni persona, con
ogni popolo, e con i loro processi storici. Il nostro è un Dio che si è fatto
uomo, umanissimo, storicamente umanissimo. Per la nostra fede, i diritti umani
sono interessi storici di DioÂ…Per noi non esistono due storie umane: una
storia profana, laterale rispetto a Dio, e un'altra storia umana,
soprannaturale, di cui Dio avrebbe cura, che Dio farebbe sua. Senza negare ciò
che tradizionalmente i teologi hanno chiamato "ordine naturale" e
"ordine soprannaturale", "natura" e "grazia", noi
confessiamo un'unica storia umana, perché il Dio salvatore é lo stesso Dio
creatore... Questa umanità di Dio, di Gesù Cristo, che è il Dio fatto uomo,
passa per un processo storico concreto, determinato, fatto di tensioni, di
tentazioni, di conflitti con gli interessi dei grandi del suo tempo: dell'impero
romano, del tempio, di Gerusalemme, dei latifondisti ebrei, del legalismo che
sottometteva il popolo ad una vera e propria schiavitù spirituale. .Se
riesaminiamo la nostra immagine di Dio, dovremo rivedere anche l'idea di una
religione separata dalla storia (dall'unica storia), separata dagli uomini, dai
popoli, dai loro processi storici, dalla politica. . . Se crediamo veramente nel
Dio di Gesù (non dico in qualche altro Dio) non è possibile non entrare in
politica. E se crediamo in questo Dio, se accettiamo questo Gesù Cristo, Dio
incarnato, uomo conflittuale, accusato, condannato a morte, appeso ad una croce,
interdetto dai poteri imperiali, religiosi ed economici del suo tempo...,
necessariamente, come Chiesa, come comunità di seguaci di Gesù Cristo, dovremo
anche rivedere, riesaminare, trasformare la nostra stessa teologia, cioè la
sistematizzazione della nostra fede cristiana, la celebrazione di questa stessa
fede che è la liturgia, l'amministrazione di questa fede cristiana,
dell'esperienza di questa fede, che è la pastorale, e l'esperienza personale,
da parte di ogni cristiano, di questa stessa fede, che è la spiritualità … In
America Latina, in questa congiuntura concreta che parte da Medellin ed è giÃ
sotto il segno di questi 500 anni, si sta vivendo (tra molti conflitti,
certamente, la qualcosa è pur sempre un segno "cristiano") una nuova
liturgia, una nuova teologia, una nuova pastorale, una nuova spiritualità , una
santità in qualche modo nuova, tipica mente latinoamericana.
Andiamo per punti. Rivedere, riesaminare in primo luogo. La
teologia...
La teologia della liberazione è questo: una nuova sistematizzazione della
fede cristiana, proveniente dall'America Latina, che cerca di rivedere la
teologia cristiana tornando alle fonti della nostra identità cristiana.
Rivedere il Dio nel quale crediamo significherà prima di tutto e soprattutto
superare ogni dicotomia. Il Dio della
Bibbia, in tutte le sue pagine, è un Dio
antropomorfico, è un Dio mescolato alla terra, è un Dio profondamente
coinvolto nella storia. E' anche un Dio che descrive se stesso lungo la storia
di un popolo. Gli ebrei credenti potevano dire a ragione, entusiasti e grati:
non c'è nessun altro Dio più prossimo del nostro Dio... Anche noi cristiani
proclamiamo il nostro Dio come l'Emmanuele, il Dio con noi; ancora di più, Dio
come noi; ancora di più, Dio come il più povero di noi. Dio fatto uomo, Dio
fatto povero, Dio fatto emarginato, Dio fatto perseguitato, Dio fattosi
scomunicato, Dio fattosi condannato, giustiziato, morto... A partire da questo,
la teologia dovrà riesaminarsi… E questa intenzione si realizza qui da noi
nella teologia della liberazione. Ho ripetuto molte volte che questa teologia
riceve molto di più dal cammino di tutto il popolo latinoamericano, credente e
oppresso e in via di liberazione, che dalla testa pensante dei nostri teologi,
che potremmo immaginare chiusi nelle loro stanze con davanti solo i testi
biblici e quelli del magistero. .. Se si prende la parola con un certo humor,
che però mi sembra contenga una gran dose di verità , io direi che la teologia
della liberazione è molto "geopolitica", molto radicalmente storica.
Essa prende le mosse da una terra concreta, da un continente concreto; parte da
un popolo, da alcuni popoli, che hanno una certa unità continentale e che
vivono i loro processi di indipendenza, di massacro storico, di fame, di
schiavitù, e allo stesso tempo di rivendicazione e di liberazione. E' una
teologia che non vede solo i segni dei tempi - come ci ha insegnato il Vaticano
II - ma anche, come mi piace spesso sottolineare, i segni dei luoghi. E una
teologia che rivalorizza come forse mai è avvenuto prima - ad eccezione
probabilmente dei primi tre secoli della Chiesa - la voce del popolo come voce
di Dio, il sensus fidei di un popolo, di alcuni popoli. In Europa, almeno in
anni passati, si è lasciato troppo facilmente il teologo nel suo studio, sulla
sua cattedra, con i suoi libri; si è lasciato troppo facilmente il predicatore
nel suo convento, nella sua parrocchia, sul suo pulpito. Il teologo e il
predicatore della liberazione convivono con il popolo, si intestardiscono a
sperimentare anche la povertà del popolo, a vivere i processi pastorali di
questi popoli, processi che sono contemporaneamente culturali, politici ed
economici.
E' per questo che la teologia della liberazione si trova di fronte ad
altre teologie che non la comprendono?
Sì. Per cui occorre fare appello al necessario pluralismo. Capisco
perfettamente come mai a volte io non mi intendo con altri vescovi, con certi
settori della Curia romana - ad esempio Ratzinger - o su alcuni punti con lo
stesso Giovanni Paolo II. Questo non nega assolutamente né la mia fede né la
mia comunione ecclesiale. Se la Chiesa deve essere anche umana, se deve essere
anche storica, allora deve essere anche plurale, nell'unità di una sola fede.
Una sola fede e molte teologie. Sarebbe legittimo affermare che deve esserci una
sola teologia, quando nei 20 secoli di storia della Chiesa ci sono già state
tante teologie? La teologia di Agostino non è quella di Origene, ed entrambe
sono riconosciute. La teologia di Agostino non quella di Tommaso, e quella di
Tommaso non e quella della liberazione. E tuttavia, tutte queste teologie, al
loro tempo, con le loro peculiarità e le loro mediazioni storiche e
scientifiche, hanno cercato in ogni momento di sistematizzare la fede. Ma questo
legittimo pluralismo non significa che la teologia della liberazione sia una
"teologia in più", la teologia "per l'America Latina". Non
significa che la teologia della liberazione non abbia - al di la del suo
carattere latinoamericano - qualcosa di permanente e di universale che non è
solo per l'America Latina. Ho detto in qualche occasione, e posso riaffermarlo,
che secondo me l'unica vera teologia cristiana non può che essere teologia
"della liberazione". L'unica vera spiritualità cristiana non può che
essere spiritualità "della liberazione". L'unica vera teologia
"cristiana" è quella teologia che sistematizza la fede "nel Dio
liberatore" così come ci si è manifestato in Gesù, il Liberatore dal
peccato, dalla schiavitù, dalla morte, sia delle persone che dei popoli.
L'unica vera spiritualità "cristiana" è quella che sperimenta la
presenza di questo Dio che si è manifestato in Gesù Cristo Liberatore, e che
stimola, assimila, propugna e rischia fino alla morte perché lo Spirito
"Liberatore" di questo Dio si espanda in ogni persona, perché la
"Sua Liberazione" si realizzi in ogni popolo.
Passiamo ad un altro dei punti da sottoporre a revisione, tra quelli
che hai citato: la liturgia.
E' stata la teologia della liberazione - finalmente riconosciuta dallo stesso
Giovanni Paolo Il come utile e necessaria e ormai maggiorenne - a fornirci una
certa libertà di spirito e quella maturità che rende possibile vivere la
nostra stessa liturgia e la nostra pastorale della spiritualità in un modo che
potremmo definire sistematicamente lucido. Il popolo latinoamericano reclama la
sua religiosità popolare da 500 anni. Spesso, da allora, questa religiosità é
stata disprezzata, considerata in un primo tempo pagana, poi ambigua, eclettica,
e infine anche alienante da certi settori di sinistra. Nonostante questo, oggi
la si sta riconoscendo sempre più come una spiritualità assolutamente
legittima, latinoamericana, e anche dotata di un grande potenziale di
liberazione. Anche se, certamente, con una comprensibile percentuale di ambiguitÃ
storiche. Secondo quanto affermano i migliori etnologi e antropologi, la
religione è parte essenziale di una cultura, è il nucleo radicale di una
cultura. E qui stiamo parlando del continente amerindio, profondissimamente
religioso. Gli antropologi dei primi anni di questo secolo, venuti dall'Europa,
arrivarono a dire che in alcune regioni dell'America Latina, concretamente del
Brasile, gli indigeni non avevano religione. Ma in seguito, dovettero
riconoscere che in quegli indigeni tutto era religione... La religiositÃ
popolare, o "la religione popolare" - come gli specialisti vogliono
che la si chiami in segno di rispetto, e per superare una certa connotazione
dispregiativa - è vissuta oggi in America Latina in modo abbastanza armonico,
militante e molto liberante. Le celebrazioni della fede sono sempre più
storicamente impegnate: le celebrazioni delle "processioni della
terra", qui in Brasile, le celebrazioni nazionali o continentali delle
Comunità ecclesiali di base in cui l'eucarestia diventa - ogni volta di più,
senza possibilità di dicotomia - celebrazione della Pasqua di Gesù e della
Pasqua del suo popolo, eucarestia fraterna e sovversiva.
E la spiritualità ?
La nuova santità che noi predichiamo non e poi tanto nuova. Vuole essere
semplicemente "cristiana". Vuole essere la santità di Gesù stesso,
la spiritualità del cristiano che segue Gesù; cioè vivere la fede, nel
proprio luogo e tempo, secondo lo Spirito di Gesù. Non è Egli il Verbo
incarnato? Una spiritualità cristiana, necessariamente, non potrà essere
disincarnata, astorica. E la storia è politica. Essa dunque dev'essere
necessariamente una spiritualità che superi ogni dicotomia. Per noi non c'è il
cielo da una parte e la terra dall'altra. In questo unire il cielo e la terra,
la liturgia cristiana più tradizionale canta la "reciprocità " o
"scambio" tra il cielo e la terra, tra Dio e l'uomo, reciprocità e
scambio che si realizzano in Gesù Cristo. Una vera santità cristiana, come
quella che intendiamo conoscere e vivere oggi, qui in America Latina e nel mondo
intero, dovrà necessariamente passare attraverso delle "mediazioni
storiche". Bisognerà assumere i problemi, le sofferenze e i rischi del
proprio popolo, dell'ora storica che questo popolo sta vivendo. Si contemplerÃ
Dio non solo nella parola scritta e statica della Bibbia, e nemmeno in una
visione idilliaca della natura, ma prima di tutto e soprattutto nella
conflittualità , nella lotta, nel processo storico. Sì alla Bibbia, e anche
alla natura, ma prima di tutto e soprattutto sì alla storia. Già Agostino ci
ricordava che Dio ha scritto due grandi libri: il libro della Bibbia e il libro
della vita. La migliore corrente biblica attuale dell'America Latina insiste
molto su questo aspetto che è diventato uno slogan per le nostre comunitÃ
cristiane: "la Bibbia e la vita, la vita e la Bibbia". Carlos Mesters,
il famoso biblista brasiliano, ha saputo tradurre in splendidi libri questa
preoccupazione. Questa santità politica è una santità incarnata, storica, una
santità che opta per i poveri impoveriti, che prende partito per i poveri, che
cerca di situarsi nel loro luogo sociale; una santità che con i poveri assume i
rischi, il conflitto, la lotta di liberazione dei poveri stessi, che contesta il
sistema di oppressione, di dominio, di privilegio; è una santità che contempla
Dio nel cammino della storia, degli avvenimenti quotidiani. Le spiritualitÃ
tradizionali dicevano di contemplare e poi di andare a dare, a comunicare agli
altri quanto si era contemplato. Altre spiritualità dicevano:
"contemplativi nell'azione". Noi affermiamo più concretamente che
bisogna essere contemplativi nella liberazione, contemplativi nell'azione
specificamente politica. Non si tratta solo di un'azione di beneficenza,
semplicemente umanitaria o caritativa. Si tratta di un'azione tipicamente
politica. Già Pio XI, se non ricordo male, diceva che l'espressione più grande
dell'amore cristiano è la carità politica, perché è un amore che raggiunge
le persone e i popoli. Raggiunge le persone in quanto strutturate e strutturanti
e raggiunge le congiunture e le strutture dell'essere e del vivere degli esseri
umani. Inoltre è una santità che sa vivere ecumenicamente la presenza di Dio e
la sua azione salvifica nel mondo. Una santità normalmente di frontiera. In
tutto questo cammino di liberazione del Dio con noi e del Dio come noi, Dio
forse non appare nel suo complesso un Dio "ecclesiastico", e forse
neppure un Dio "cristiano", ma appare comunque sempre come un Dio
umanamente "liberatore". Quando celebriamo i nostri martiri,
ricordiamo sempre che anche se alcuni di loro forse non erano cristiani, e anzi
si proclamavano atei, sono stati comunque "martiri del Regno", martiri
di questo processo più grande, di questa Causa più grande, di questo interesse
più grande di Dio che anche la Chiesa deve servire. La Chiesa, tutta la Chiesa,
non può essere che una diaconia, un servizio al Regno di Dio. La Chiesa non è
per se stessa. La Chiesa è per il Regno, nel mondo, nella speranza e nella
preparazione del Regno futuro, nella parusia. La spiritualità della
liberazione, contemporaneamente e per definizione, sarà una spiritualitÃ
necessariamente conflittuale, incompresa perché contestataria. Perseguitata dai
privilegiati, da tutti i potenti, perché spiritualità rivoluzionaria. D'altra
parte questa conflittualità è un tratto caratteristico dello stesso Gesù
Cristo. La conflittualità tipica della vita di Gesù, questo atteggiamento
fondamentale della sua vita, sarà un atteggiamento fondamentale della vita del
cristiano che voglia vivere la spiritualità cristiana. Gesù ha vissuto anche
la conflittualità con il tempio e con la sinagoga. Potrebbe sembrare naturale
che egli entrasse in conflitto soprattutto con l'impero romano. Invece possiamo
dire che nella vita di Gesù appare molto più quotidiana, molto più costante,
la conflittualità con la sinagoga e con il tempio, la conflittualità con la
legge e con il culto. Gesù, se così si può dire, è apparso come il nuovo Dio
che recuperava il Dio antico, che negava il Dio profanato, strumentalizzato,
sottomesso alla legge. Quando si squarcia il velo del tempio da cima a fondo, si
ha l'impressione che si squarci, che si rompa tutta una concezione di Dio, tutto
un modo di vivere il culto, tutta una legge religiosa e morale che non
corrispondeva veramente a Dio, al vero Dio. Da ciò, la conflittualità di Gesù
con il tempio e con la sinagoga. Nella Chiesa, in ognuno di noi, continua ad
esserci sadduceismo, fariseismo, legalismo... La Chiesa, come qualunque
istituzione umana, sebbene non sia solo un'istituzione umana, corre il rischio
di istituzionalizzarsi eccessivamente, di ripiegarsi su se stessa, corre il
rischio - come hanno detto i nostri teologi, che saggiamente hanno cercato di
metterci in guardia - di fare a volte affogare il carisma nel potere. Per questo
anche il cristiano d'oggi, come a suo tempo Gesù, può sperimentare il
conflitto, non solo di fronte ai poteri di questo mondo, ma anche di fronte a ciò
che nella Chiesa può esserci di tempio e di sinagoga.
In America Latina, il problema più vitale e incandescente non è
semplicemente la relazione tra fede e politica, ma quello tra fede e
rivoluzione. E questo perché i processi storici che vivono i nostri popoli sono
processi rivoluzionari, cioè processi violenti e traumatici.. . Che dire dei
processi rivoluzionari?
Se si dice che la Chiesa deve mettersi in politica (cosa che oggi ormai viene
accettata), e se si dice che la Chiesa deve optare per i poveri, si dice
necessariamente che la Chiesa deve mettersi nella politica reale che si sta
sviluppando in ogni popolo e in ogni luogo. Si dice che la Chiesa deve optare
non solo per i poveri individualmente considerati, ma anche collettivamente
considerati. Deve optare anche per gli interessi di questi poveri, per i loro
processi. Se avviene un processo rivoluzionario in Nicaragua, in Guatemala, in
El Salvador, o in Messico, o nelle Filippine, o in Colombia o in Perù… la
Chiesa dovrà necessariamente entrare in questi processi. Come lo stesso Cristo,
che è entrato nella storia umana. Bisogna entrarvi criticamente, alla luce di
una mediazione più grande. La Chiesa non possiede l'ultima parola nelle
mediazioni socio-politiche. Essa non può pretendere di avere un programma
socio-politico-economico per nessuna società . Tuttavia, la Chiesa, come luce,
come fermento, come lievito, può e deve entrare in tutti i processi storici.
Concretamente, parlando di una rivoluzione, è evidente che la Chiesa può e
deve entrare in una rivoluzione che trasformi le strutture imperialiste,
oligarchiche, di sfruttamento, di saccheggio, di fame, malattia, incultura, in
strutture di identità culturale nazionale, di autonomia, di cibo, educazione,
salute, casa… Concretamente, per i cristiani, il grande problema sarà quello
della violenza o della non-violenza. Perché non c'è dubbio che lo stesso Gesù,
che ha portato la pace, che è "il Principe della Pace", che "è
la nostra Pace", come direbbe san Paolo, non è venuto per principio a
portarci la violenza. C'è però una serie di testi che ci parlano di una certa
violenza: "Non sono venuto a portare la pace ma la violenza";
"Sono venuto a separare i padri dai figli"; "il regno di Dio
soffre (reclama, esige) violenza". So che si dirà che non si tratta di una
violenza rivoluzionaria. Domando: di che tipo di violenza si tratterà ? Mi
diranno che si tratta di una violenza ascetica. Domando: sarà una violenza, una
reazione semplicemente individuale, individualista, che possa prescindere dal
collettivo, dal sociale, dallo strutturale? Secondo me, è chiaro che un
cristiano deve essere contro le armi, che deve essere per principio contro ogni
violenza. Ma la stessa Chiesa, lungo i secoli, ha riconosciuto alle persone e ai
popoli il diritto alla legittima difesa. Ancora recentemente i papi, Paolo VI e
anche Giovanni Paolo Il in qualche particolare momento, hanno riconosciuto ai
popoli oppressi da una tirannia prolungata il diritto ad una rivoluzione armata
per liberarsi da questa tirannia, quando non ci fossero altre vie d'uscita
possibili. Se l'umanità evolve, se i diritti dei popoli saranno rispettati in
altro modo, se una futura ONU riuscirà a risolvere i conflitti tra i popoli dal
di dentro di ogni popolo, per via diplomatica e politica, tanto meglio.
Attualmente, come stanno le cose, le Chiese del Nicaragua, del Guatemala, e di
El Salvador... non possono rifiutarsi di partecipare ai processi rivoluzionari
dei loro popoli, ai processi che quei popoli contadini, indigeni, oppressi
stanno vivendo. La Chiesa del Nicaragua, quella del Guatemala e di El Salvador
non possono sottrarsi ad una chiara presa di posizione contro l'intervento degli
Stati Uniti, contro la prepotenza e la violenza dell'esercito salvadoregno,
sostenuto fisicamente dagli Stati Uniti, o dall'esercito guatemalteco, al
servizio dell'oligarchia nazionale. La Chiesa in quanto Chiesa, come istituzione
nei suoi documenti, nelle sue celebrazioni, nelle norme concrete offerte a tutta
la comunità , dovrà ricordare prima di tutto e soprattutto i grandi principi
cristiani che si riferiscono alla morale politica, all'impegno storico dei
cristiani. Evidentemente non ratificherà nessun processo come se fosse
"l'unico processo possibile" per il Regno; non difenderà nessun
partito come se fosse "il partito cristiano"; non dirà che la
democrazia cristiana è "il partito della Chiesa". E questo un peccato
che è già stato commesso nella vecchia Europa, nella tanto ecclesiastica
Italia, e si sta commettendo ancora attualmente in Centroamerica. Sappiamo tutti
che da parte di altissimi settori della gerarchia ecclesiastica c'è la chiara
intenzione che la democrazia cristiana trionfi in Centroamerica. Duarte è
democristiano, e lo è anche Cerezo. (Mi ha colpito molto - l'ho detto più di
una volta - che Napoleon Duarte abbia inviato alla rivista ufficiale di
Comunione e Liberazione, questo movimento così potente oggi nella Chiesa, e
tanto amato personalmente da Giovanni Paolo Il, una lettera in cui chiamava
"compagni" i membri del movimento, e che la rivista abbia pubblicato
questa lettera in prima pagina, praticamente come editoriale). Mi sembra che i
cristiani, e la Chiesa in quanto tale, hanno avuto e hanno ancora pochi scrupoli
nel definirsi, quando si tratta di una politica o di un processo di tipo più
conservatore. Hanno avuto e hanno molti scrupoli quando si tratta di un processo
rivoluzionario.
Che la Chiesa non debba canonizzare un partito, significa che deve
mantenersi neutrale, al di sopra delle parti in lotta, in una rivoluzione?
No. Non è possibile che le due parti abbiano la stessa ragione, lo stesso
diritto, gli stessi interessi, la stessa maggioranza. In Centroamerica questo è
molto chiaro. Concretamente, in Nicaragua, non c'è dubbio che il sandinismo,
pur con le sue deficienze, con le sue mediazioni anche marxiste, sia un processo
storico rivoluzionario partito dal popolo nicaraguense, assunto dalla
maggioranza del popolo nicaraguense; un processo sandinista più che marxista
(perché è anche un processo cristiano), che proviene dalla maggioranza del
popolo del Nicaragua e che contesta l'imperialismo secolare, l'oligarchia
secolare, la dittatura somozista; che rivendica l'autonomia del Nicaragua; che
rivendica una riforma agraria al servizio della maggioranza dei nicaraguensi (i
contadini del Nicaragua); che esige non solo la terra, ma anche cibo, salute,
educazione, per tutto il popolo nicaraguense. E anche la maggioranza del popolo
salvadoregno, la maggioranza del popolo guatemalteco, sta rivendicando la terra,
la salute, l'educazione... Stanno contestando lo stesso imperialismo, le stesse
oligarchie secolari... Là non è possibile essere neutrali senza cessare di
essere cristiani. Quando ci troviamo di fronte a questo tipo di movimenti
rivoluzionari di liberazione, con una tale convergenza di obiettivi (riforma
agraria, contestazione dell'imperialismo, liberazione da tante oppressioni
secolari, dalla colonizzazione, recupero della propria identità ), a partire
dalla nostra stessa fede, dalla teologia e dalla spiritualità della
liberazione, non possiamo non appoggiarli, anche se naturalmente in modo
critico. Quando sono stato in Nicaragua, anche se ci sono andato già a partito
preso e anzi con passione, alla luce della mia fede, nella preghiera, cercando
di riesaminare le cose con serenità , ho capito almeno quattro o cinque cose
molto evidenti, che posso così sintetizzare: i vescovi, in quanto vescovi, in
Nicaragua, possono e devono pronunciarsi contro l'intervento nordamericano;
possono e devono rivendicare l'autodeterminazione del popolo nicaraguense;
possono e devono appoggiare il processo sandinista, per quanto riguarda la
riforma agraria, il recupero dell'identità culturale del popolo nicaraguense,
il cibo per tutti, l'educazione per tutti... Si tratta di beni di base,
fondamentali. E' lì che noi cristiani, che possiamo credere solo nel Dio e
Padre di nostro Signore Gesù Cristo, possiamo riscontrare che quei diritti
umani coincidono con gli interessi di questo stesso Dio. La Chiesa non può
essere neutrale in nessun luogo. Come dico altrove in questo libro:
"nell'amore, nella fede e nella rivoluzione, la neutralità non è
possibile". E insisto sul fatto che questa neutralità è impossibile non
solo qui nel Terzo Mondo, ma anche nel Primo Mondo. Io, come europeo, ma anche
come vescovo, ho detto molte volte - e voglio tornare a dirlo con molta sinceritÃ
e anche con una certa aggressività pastorale - che la Chiesa del Primo Mondo
(parliamo così, senza ulteriori sfumature di Primo e Terzo Mondo) se vuole
essere sincera e solidale, non potrà che vivere nel Primo Mondo optando
realmente per i poveri e per i processi dei poveri del Primo e del Terzo Mondo,
per essere l'unica Chiesa di Gesù Cristo nel mondo, per confessare l'unica
umanità , figlia dell'unico Dio che riconosciamo come Padre. Se la Chiesa del
Primo Mondo non si fa solidale con le persone e i popoli del Terzo Mondo, nega
Dio, non esercita la carità fraterna. In questo senso - come dico anche più
avanti - oggi, la carità , intesa socialmente, intesa comunitariamente, intesa
collettivamente, prende il nome di "solidarietà ". La poetessa
nicaraguense Gioconda Belli dice che "la solidarietà è la tenerezza dei
popoli". Io aggiungerei che la solidarietà è la carità delle Chiese.
Deve esserlo.
Oggi accettiamo che ci sia salvezza al di fuori della Chiesa; sappiamo
che i movimenti di liberazione si muovono al di fuori della Chiesa, e a volle
sono anche attaccati da essa... Cosa si potrebbe dire oggi di quel vecchio
adagio che recitava "fuori della Chiesa non c'è salvezza"?
Al di fuori della liberazione - intesa come fatto integrale, pieno, totale -
non c'è Chiesa. Ed è per questo che fuori della Chiesa liberatrice non c'è
Chiesa. La Chiesa è Chiesa solo nella misura in cui annuncia, celebra,
costruisce e attende la Salvezza. E la Salvezza è Salvezza solo se salva le
persone come individui e come membri di un popolo, di una società . La Salvezza
è Salvezza solo se salva le persone anche storicamente. La Salvezza diventerÃ
piena nell'escatologia, nella parusia, ma la Salvezza avviene in questo modo.
Gesù non è nostro Salvatore solo oltre la morte. Gesù è nostro Salvatore
perché già prima della morte ci salva da ogni peccato, da ogni schiavitù (la
schiavitù è il peccato organizzato) e ci salverà anche dalla morte.
"Fuori della Salvezza non c'è Chiesa". Fuori della Liberazione, così
intesa, non può esserci Chiesa. La Chiesa o è liberatrice o non è Chiesa di
Gesù Cristo, il Liberatore.
Concludiamo con due domande globali. A partire da questi 500 anni,
quali potrebbero essere i punti di interesse più importanti per l'America
Latina?
Ho parlato di recupero dell'identità del continente. In primo luogo, occorre
riconoscere il continente latinoamericano, tutto il continente americano, come
un continente "amerindio". Quindi l'identità di tutti i popoli
indigeni. I loro pieni diritti. I loro territori. Le loro culture, e all'interno
delle loro culture, le rispettive lingue (la lingua è il 50% della cultura di
un popolo; fino a che un popolo continua ad usare la propria lingua continua ad
essere "quel" popolo). Occorre riconoscere anche i diritti e l'identitÃ
del popolo nero, in tutto il continente. Portato come schiavo, più diluito nel
continente, ma che rappresenta pur sempre un contingente numerico molto
significa (il Brasile, secondo paese nero del mondo, ha circa cinquanta milioni
di neri). Occorre riconoscere questa specie di "identità eclettica",
se così si può dire, del continente latinoamericano, che è indigeno, nero,
creolo. L'America Latina ha un volto. Ha un'anima. E' lei. E' altra. Può e deve
completare l'umanità . In secondo luogo, occorre permettere che l'America Latina
abbia un'esperienza autoctona di rivoluzione sociale, politica, economica. Che
l'America Latina viva il suo socialismo, e perfino il suo marxismo laddove
ritenga di doverlo vivere. Lo stesso Che e Mariategui, solo per fare due nomi
significativi, gloriosi, dell'America Latina, sarebbero già un esempio. La
stessa Cuba, pur dibattendosi ancora nelle conseguenze dello strangolamento
storico che ha vissuto, e anche ammettendo i suoi errori, e in seguito il
Nicaragua con il suo processo sandinista, stanno insegnando fino a che punto lo
stesso marxismo - non diciamo, in termini più generali, la stessa - rivoluzione
- possano essere vissuti in maniera autoctona in America Latina, imparando anche
dalle deficienze, errori, limitazioni di questi primi processi. La democrazia in
America Latina - anche nel mondo, ma ora stiamo parlando dell'America Latina -
deve essere un "altra democrazia". L'ho detto molte volte, e lo ripeto
nuovamente: probabilmente dopo "amore" il termine più prostituito nel
mondo è quello di "democrazia". Dire democrazia oggi non significa
quasi più niente. Anzi spesso, fatalmente, significa la negazione stessa della
democrazia. Perché non è una democrazia popolare. Perché non è una
democrazia realmente partecipativa. Perché non è un governo del popolo al
servizio del popolo. Essa finisce per essere ancora il governo minoritario, il
governo oligarchico, "in nome del popolo", al servizio di alcune
minoranze. In tale luogo l'America Latina può e deve esigere, in occasione di
questi500 anni, un nuovo diritto internazionale, un nuovo diritto dei popoli.
Perché un popolo deve essere considerato maggiore o migliore di un altro
popolo? Perché gli Stati Uniti - potremmo parlare anche della Russia se ci
riferissimo al resto del mondo, o del Giappone o della Germania, imperi più
recenti, per non parlare più dell'impero spagnolo o di quello portoghese -
possono permettersi il lusso di invadere decine di volte l'America Centrale?
Perché l'ONU e le Nazioni a livello mondiale assistono a queste violazioni con
tanta passività ? D'altra parte, questo carattere autoctono della politica,
della cultura, dell'economia, che esigiamo nel nostro processo rivoluzionario,
dobbiamo esigerla anche dalla Chiesa. L'unica umanità che esiste nei vari
continenti, è qui umanità amerindia, afroamericana, creola. L'unica Chiesa di
Gesù Cristo che esiste su tutta la terra, esiste qui, deve esistere qui
"in modo latinoamericano" per essere "la Chiesa del Verbo
Incarnato, la Chiesa di Gesù di Nazareth", una Chiesa per questi popoli,
per questo popolo, per questa ora...
Per finire: quali potrebbero essere i grandi interessi delta Chiesa
dell'America Latina, a partire da questa congiuntura dei 500 anni?
Rendere possibile, con gioia e con azioni di grazie, il processo della
teologia della liberazione. Rendere possibile e stimolare, con gioia e con
azioni di grazie, il processo della spiritualità della liberazione.
Canonizzare, se non nella "gloria del Bernini" - che forse non è
necessaria - però certamente nel pubblico riconoscimento, questa pleiade di
martiri che l'America Latina sta dando alla Chiesa e al mondo da secoli, ma
soprattutto in questi ultimi anni; martiri con un nome solenne riconosciuto,
come San Romero d'America, e migliaia di martiri anonimi, come gli indigeni, i
contadini, gli operai, gli operatori di pastorale, i difensori dei diritti umani
in America Centrale e nei diversi paesi del continente.. . Rendere possibile una
liturgia autoctona, tipicamente latinoamericana. Stimolare la pastorale
latinoamericana. Riconoscere l'aspetto autoctono delle conferenze episcopali.
"Rifare" il Celam (Conferenza episcopale latinoamericana), quel Celam
che è stato fonte di tante speranze, di tanta testimonianza, di tanta
coraggiosa profezia, e che ultimamente è passato ad essere per molti o un Celam
semplicemente scomodo, o un Celam appena tollerato. Che diventi realmente una
sorta di comunione delle varie conferenze episcopali del continente
latinoamericano... In questi giorni stavo pensando ancora una volta ai 500 anni.
Immaginavo anche una serie di sonetti che farei, che sto già facendo, così, in
cammino, come tutte le mie poesie. Sarebbero cinque primi sonetti, a Colombo,
alle caravelle. .. E poi ancora cinque sonetti, al conquistatore anonimo, al
missionario anonimo, all'indio anonimo, al negro anonimo, alla madre anonima. E
infine un sonetto libero alla Grande Patria. Il nostro amato teologo, il nostro
grande teologo Gustavo Gutierrez, pubblicherà quest'anno un libro su san
Bartolomeo de Las Casas, come amo chiamarlo io. Per questo libro ho appena
composto un sonetto. Eccolo:
A BARTOLOME' DE LAS CASAS
I Poveri ti hanno giocato la partita
di una Chiesa più grande, di un Dio più vero:
contro il battesimo sull'indio morto
il battesimo primario della vita.
Encomendero * della Buona Notizia,
la Corte e Salamanca hai sostituito.
E questo tuo cuore appassionato
ha cinquecento anni di testimone.
Cinquecento anni saranno, veggente,
e oggi più che mai ruggisce il Continente
come un vulcano di ferite e di braci ardenti.
Torna e insegnaci ad evangelizzare,
libero da caravelle tutto il mare,
santo padre d'America, Las Casas!
tratto da: Pedro
Casaldaliga. "In cerca di Giustizia e
libertà ", E.M.I.
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