Una
persona chiamata a evangelizzare non rappresenta di per sé una novità . Se ne è
parlato non una ma molte volte negli ultimi decenni. Fu il tema del sinodo dei
vescovi a Roma nel 1974 che diede origine allÂ’esortazione Evangelii
Nuntiandi (=EN);
si ripeté ampiamente a Puebla, e in Perù nel 1973, nella XLII Assemblea
Episcopale. La reiterazione sul tema da parte di Giovanni Paolo II certamente è
stata molto opportuna in se stessa, ma fino a questo momento è rimasta in buona
misura sulla carta. Chiunque osservi il panorama religioso a partire dalla
prospettiva della Chiesa cattolica, e in particolare nel nostro continente, non
ha dubbi sul fatto che è urgente uno sforzo di evangelizzazione ... ma
diversa, “nuova”.
L’esortazione è quella di portare a termine una
evangelizzazione “nuova”. Questa caratteristica è comprensibile semanticamente
solo in contrasto con una evangelizzazione “vecchia”, passata, alla quale si
sostituisce la “nuova”. E questo si comprende se si ha preso consapevolezza del
fatto che il modo di evangelizzare deve essere diverso, “nuovo”, come lo spiegò
bene il Papa nella sua frase programmatica ormai famosa: “Nuova nel suo ardore,
nei suoi metodi e nella sua espressione”, ma il modo di farlo fino a ora non ha
dato risultati o non è ancora efficace. A ciò si dovrebbe aggiungere che non
solo il modo di evangelizzare deve essere ripensato, ma anche il contenuto
stesso.
Per molte, moltissime persone evangelizzare
equivale a indottrinare, catechizzare. Tuttavia il Papa stesso ha ricordato in
più di una occasione che si tratta di “annunciare Gesù Cristo, lo stesso
ieri, oggi e sempre”. Questo era il contenuto dell’evangelizzazione a partire
dagli inizi del cristianesimo: l’annuncio della persona di Gesù Cristo come il
Messia inviato, il salvatore del mondo. Si annunciava una buona
novella (euangelion),
non semplicemente una notizia, e neppure una dottrina, ma un avvenimento
di carattere salvifico: l’avvenimento-Gesù Cristo, la sua vita e la sua chiamata
a seguirlo per questo cammino che conduce alla salvezza già da subito. Per
questo si esortava alla conversione e a “camminare” secondo il Vangelo (Ef 4,1;
Col 1,10; 2,6; Gal 5,16). Tuttavia la domanda finale non è tanto che cosa
crediamo (concetti, idee), ma che cosa facciamo (prassi); non è per la
ortodossia ma per la ortoprassi. EÂ’ la domanda del giudizio
finale: “Quando ebbi
fame mi avete dato da mangiare …” (Mt 25,31ss).
L’evangelizzazione è (deve essere) il primo
passo nella predicazione del cristianesimo: è l’annuncio dell’avvenimento-Gesù
Cristo il cui nucleo è il kerigma, la morte e resurrezione di Gesù di
Nazaret e le sue implicazioni. Dopo l’incontro con Gesù Cristo viene
lÂ’istruzione formale, o catechesi, che conduce al pieno impegno con lui e il suo
cammino, all’accettazione dell’invito “tu, vieni e seguimi”. Cristiano, in
senso stretto, è colui che ha accettato questo invito e si è impegnato con
Gesù Cristo come suo discepolo.
Innanzitutto riconosciamo (alcuni più di altri)
che l’evangelizzazione non è progredita, che sono state anteposte altre cose,
che il metodo era imperfetto, che i risultati lasciano a desiderare Â… Il
crescente grado di corruzione e immoralità nel nostro continente, che si
proclama cristiano, lo mette in evidenza. Per questo l’evangelizzazione non può
essere pensata come prima; deve essere “nuova”. Ma quali sono gli ingredienti
perché la “nuova evangelizzazione” sia fruttifera?
Perché l’evangelizzazione sia realmente
fruttifera dobbiamo apprendere da Gesù e dalla Chiesa nascente. Dobbiamo
lasciarci guidare da questi maestri nellÂ’evangelizzazione di cui ammiriamo i
frutti. Per questo, il potenziale evangelizzatore, come la Chiesa tutta, deve
prima evangelizzarsi e lasciarsi evangelizzare (cf. Ad Gentes 5.11-12; EN
15). Questo presuppone il fatto di prendere molto sul serio il Nuovo Testamento,
molto più in serio di quanto si è soliti fare. Già questo sarebbe qualcosa di
realmente nuovo! Si deve ascoltare, meditare, assimilare e mettere in pratica
quella parola di Dio, perché spesso succede quello di cui già Gesù si lamentava:
“Colui che ascolta queste mie parole ma non le
metterà in pratica sarà simile a quell’uomo insensato che costruì la sua casa
sulla sabbia: crollò e la sua rovina fu completa” (Mt 7,24-27;Lc 6,47-49).
1. IMPOSTAZIONE
Solo se lÂ’evangelizzazione si adempie in modo
tale che si possa riconoscere la coerenza tra ciò che il predicatore dice, ciò
che fa e la sua stessa vita, questa crescerà di credibilità . Ma precisamente ciò
significa che se si predica Gesù Cristo si deve incarnare il modus vivendi
di Gesù Cristo. E questo presuppone che l’evangelizzatore conosca questo
modus vivendi di Gesù Cristo, cioè che sia permeato dalle testimonianze su
di lui nel Nuovo Testamento. Quando questo si realizza, lÂ’evangelizzazione sarÃ
realmente “nuova” in un continente stanco di apparenza e demagogia ma “assetato
di autenticità ” e della parola liberatrice di Dio vissuta oggi.
Al contrario, la predicazione di un Cristo che
ama tutti nello stesso modo, che è misericordioso e compassionevole, solidale
con i poveri, gli emarginati e i sofferenti, mancherà di credibilità se si fanno
discriminazioni (per esempio verso le donne), se si ha più condiscendenza con i
potenti che con gli umili, se si mette “il sabato davanti all’uomo”, se si vive
voltando le spalle al dolore altrui, incapaci di “piangere con coloro che
piangono”, se i poveri sono solo occasione per conversazioni o paternalismi e se
la giustizia più elementare non cessa di essere un progetto o un oggetto di
disquisizioni interessate a scopo di lucro.
Quale credibilità merita la predicazione
di un Cristo crocifisso, umile, salvatore, redentore, liberatore, quando questa
proviene da chi si presenta facendo sentire la propria autorità e il proprio
potere, da chi ama fare bella figura o usa gli altri per ingraziarsi chi sta
sopra di lui? O quando proviene da chi parla soltanto, si impone e non ascolta,
da chi di fronte alle ingiustizie dei potenti tace per salvare la propria
immagine o non perdere il loro favore, da chi cioè fugge dall’essere lui stesso
crocifisso, se già non è egli stesso ingiusto? O quando proviene da chi impone
alle persone “un giogo che neppure i nostri padri poterono portare” (che ci
ricorda la religiosità di scribi e farisei), per il quale l’uguaglianza, i
diritti umani e la libertà (di pensiero e di espressione, per esempio) è tema di
retorica più che una realtà ?
Ma manca di credibilità anche la
reiterazione di una “opzione per i poveri”, di una supposta attitudine di
servizio e di una difesa dellÂ’uomo da parte di coloro che vivono in modo
lussuoso e pomposo, chiusi dentro i loro inaccessibili uffici e che cercano di
essere serviti facendo valere i loro titoli, posizioni e altri “diritti” a una
relazione preferenziale, o che non fanno valere certi diritti umani nella loro
stessa Chiesa. LÂ’annuncio che in Cristo troviamo lÂ’amore di Dio manca di
credibilità se si è incapaci di piangere con chi piange (Rm 12,15), di aiutare a
portare il peso degli altri (Gal 6,2), cioè se non manifestiamo nelle nostre
vite “gli stessi sentimenti che ebbe Cristo” (Fip 2,5).
Solo se la predicazione della Buona Novella è
avvallata dalla prassi e dallo stile di vita del predicatore essa acquista
credibilità e l’evangelizzazione potrà essere efficace. Alla fine, non sono le
parole ma gli esempi che affermano la fede annunciata. E se si tratta del
Vangelo, lo sarà la testimonianza dell’esperienza che “la parola
della croce” è realmente salvifica.
Le pagine che seguono sono una lettura
ermeneutica di alcuni testi del NT, specificatamente di San Paolo e di San
Giovanni, che toccano queste tematiche. Sono un invito a ripensare, partendo
dalle nostre stesse radici, lÂ’importanza della coerenza che deve caratterizzare
l’evangelizzazione. Questa coerenza deve darsi a partire da tre angoli: ciò che
si dice, ciò che si fa e il modo in cui si vive. Lei sola darÃ
allÂ’evangelizzazione quel necessario marchio di autenticità e di credibilitÃ
preteso sempre più dall’uomo di oggi. E la sua esperienza radicale farà sì che
l’evangelizzazione sia “nuova”.
2. “NOI ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO” (1 Cor
1.23)
A causa della divisione e della confusione che si era
prodotta tra i cristiani a Corinto, Paolo spiegò loro in una lettera che, per
quanto lo riguardava, la sua predicazione si concentra nel “Cristo crocifisso”
(1 Cor 1,23). Paolo spiegò, inoltre, che “Cristo non è diviso” (v.13), per tanto
non avrebbero dovuto esserci divisioni tra i cristiani. La fede in Cristo non
deve produrre divisione, ma unione tra tutti coloro che si riferiscono a lui,
come sappiamo bene ed è testimoniato più volte nel NT. E’ il tema della lettera
agli Efesini, riassunto nella confessione “un solo Signore, una sola fede, un
solo battesimo” (4,5). E’ anche la richiesta di Gesù in Gv 17, di cui ci
occuperemo più avanti.
I corinzi, che avevano formato gruppi o
“partiti”, non avevano posto la loro adesione in primo luogo nella persona
di Cristo, ma nelle idee del predicatore (Paolo, Apolo, Cefas, Cristo).
Per questo potevano dire “io sono Paolo, io sono Apolo …”. Molti esegeti sono
rimasti sconcertati dal fatto che tra i gruppi o partiti menzionati in 1 Cor
1,12 si include Cristo. I corinzi in questione commisero un errore che nel corso
della storia non ha cessato di ripetersi: confondere insegnamento con
predicazione, idee o dottrine con fede, e associarle alla salvezza. E’ ciò che
conosciamo come gnosticismo, che più tardi sarà condannato nel cristianesimo
come eresia: credere che la salvezza è questione di concetti, idee, dottrine,
cioè conoscenze (gnosis). Questa confusione non ha cessato di darsi ogni
volta che si è teso a presentare Gesù come maestro di dottrine (nello
stile dei maestri filosofici, tra cui gli gnostici), come chiaramente
evidenziato nel Vangelo apocrifo di Tommaso. A questo corrisponde “il partito di
Cristo”. La cosa importante sarebbero le dottrine e gli insegnamenti, non la
persona del maestro. La salvezza dipenderebbe da concetti, dottrine, teologie Â…
e non dalla relazione esistenziale con Gesù Cristo, dalla fede. E nello spazio
comunitario, erano più importanti le dottrine delle persone. Proprio per questo
si disprezzavano e si divisero! Risulta familiare?
Nel passaggio citato (1 Cor 1,23), Paolo chiarì
quale era il contenuto e l’oggetto della sua predicazione. Quella di Paolo è la
predicazione di “Cristo crocifisso”, non di Cristo solamente (cf.1 Cor 2,2; Gal
3,1). Lo ha espresso in modo così preciso per evitare di lasciare l’impressione
che si tratti di Cristo maestro di conoscenze, di dottrine, di gnosis, e
per questo causa di divisioni. Il “Cristo crocifisso” che Paolo predica non
esclude nessuno, ma la sua fu una totale pro-esistenza (H. Schürmann) sino alla
croce, solidale con le vittime delle divisioni ed emarginazioni del suo tempo,
tanto per ragioni ideologiche e religiose come socio-economiche. Per questo
Cristo stesso fu crocifisso! Dividendo ed emarginando, crocifiggono.
Cristo venne per riconciliare tutti gli uomini, senza alcuna
esclusione, con Dio
e quindi tra di loro. (cf. Rm 5,6-11; 2 Cor 5,17-21).
Il Vangelo predicato da Paolo non rappresentava
le idee di un maestro (Cristo) ma il maestro stesso, la persona stessa di Gesù
Cristo, e tutto ciò che lui incarna storicamente e soteriologicamente. Il
problema a Corinto, come si apprende da unÂ’attenta lettura di 1 Cor 1-2, era che
si aveva confuso vangelo con teologia, inoltre si correva il rischio di
trasformarla in una specie di ideologia (cosa che implica molte delle altre
deviazioni che Paolo si sentì obbligato a correggere nella stessa lettera).
Dopo aver denunciato lÂ’esistenza di gruppi o
partiti a Corinto, Paolo annotò: ”Fu Paolo crocifisso da voi o avete ricevuto il
battesimo in nome di Paolo? (v. 13). Per quanto riguardava lui, la sua
predicazione non dovrebbe essere presa come sua, ma riferita a Cristo. Lui è
solamente mediatore (1 Cor 4,1; 2 Cor 3,6; 6,4). Questo ci porta a un
ammonimento che si ricava da quanto detto, quello di predicare non se stessi, ma
Gesù Cristo, senza finire per sostituirlo in importanza. (cf. EN 15).
In ripetute occasioni, Paolo evidenziò che lui
non predicava se stesso, inoltre evitava tutto ciò che potesse essere un
ostacolo alla sua predicazione: “Non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù come
Signore” (2 Cor 4,5). Paolo utilizzò lo stesso verbo di 1 Cor 1,23: kêryssein,
annunciare. Entrambe le affermazioni si possono porre perfettamente in
parallelo:
“Noi annunciamo (kêryssomen)
Cristo crocifisso” (1 Cor 1,23)
“Non annunciamo (kêryssomen)
noi stessi ma Cristo Gesù come Signore” (2 Cor 4,5).
Per questo Paolo evitò tutto quello che potesse
essere un ostacolo nella sua predicazione di Gesù Cristo. Così lo fece sapere ai
corinzi:
“C’è mai chi faccia il servizio militare a proprie
spese? Chi pianti una vigna e non mangi i suoi frutti? Chi faccia pascolare un
gregge e non si nutra del latte che da questo ricava? (Â…) Tuttavia non abbiamo
usato di questo diritto ma lo sopportiamo tutto per non porre alcun ostacolo al
Vangelo di Cristo” (1Cor 9,1-18; cf. 2Cor 11,10; Fil 4,11ss).
Paolo si appellò, almeno un paio di volte, alle
sue sofferenze come garanzia dell’autenticità del suo Vangelo. Concretamente,
per gli stessi corinzi, in 1Cor 4,9-13 e in 2 Cor11,23-28, fece un conteggio
delle sue sofferenze: naufragi, mille viaggi con ogni tipo di pericoli, fame e
sete, prigioni, fatiche e insulti, etc. La credibilità della sua predicazione
era enormemente importante per lui, e si preoccupava molto di questo, costasse
ciò che costasse.
Cristo crocifisso, quello che Paolo predicava, è
colui che fu, come Paolo stesso, coerente tra ciò che diceva, ciò che faceva
e ciò che viveva. Nello stesso modo, era un Paolo “crocifisso” quello che
predicava: disinteressato, povero, totalmente dedito, che non cercava
assolutamente nulla per il proprio beneficio personale, che non si imponeva né
si condannava, disposto a dialogare (per questo era “crocifisso” da coloro che
lo respingevano). E la sua predicazione proveniva dalla sua compenetrazione con
Cristo, con i suoi sentimenti, la sua mentalità , la sua crocifissione, e come
lui era colpito, emarginato. La sua compenetrazione fu tale che potè aggiungere
nella stessa lettera: “Già non sono io che vivo; è Cristo che vive in me”
(2,20).
Anche per questo Paolo relativizzò la sua
capacità oratoria (che secondo il suo stile di scrittura, non era per niente
disprezzabile) in 1Cor 2,1-5:
“Io, fratelli, quando venni da voi non mi
presentai ad annunziarvi il mistero di Dio con sublimità di linguaggio o di
sapienza, ma in mezzo a voi preferii di non sapere altro che Gesù Cristo, anzi
Gesù Cristo crocifisso (…) affichè la vostra fede non si fondasse sulla sapienza
degli uomini, ma sulla potenza di Dio”.
La ragione lÂ’aveva espressa poco prima:
“Cristo infatti (…) mi ha mandato a predicare il
Vangelo, non con sapienza di linguaggio, affinchè non sia resa vana la croce di
Cristo” (1,17).
Se Paolo ebbe successo fu perché, tra le altre
cose, seppe adattarsi in modo che il suo uditorio captasse nella sua
predicazione il messaggio riferito a Cristo. La stessa esigenza si impone oggi:
adattare il linguaggio in modo che sia comprensibile al popolo semplice al quale
i predicatori si rivolgono, invece di anteporre lÂ’oratoria e di usare un
vocabolario che per gli altri è incomprensibile (si veda EN 63).
Se osserviamo attentamente la realtà del
cristianesimo, incluso il cattolicesimo, la nostra situazione non è diversa da
quella denunciata da Paolo in 1Cor1. Una delle cause per le quali
l’evangelizzazione manca di forza è perché si spendono troppe energie in
questioni di ortodossia, catechismo, obbedienza etc. Sembra essere più
importante ciò che si pensa rispetto a ciò che si vive. Si corre il rischio di
ricadere nel gnosticismo. Le dottrine risultano più importanti delle persone e
della creazione di comunità , l’ortodossia della ortoprassi, la teologia della
fede (quest'ultima intesa biblicamente). Senza alcun dubbio, questa è una delle
cause per le quali il cattolicesimo in particolare ha perso credibilità . Ogni
volta che si sono anteposte idee, concetti, teologie alla persona di Gesù
Cristo, si sono verificate tensioni e divisioni. E tutte le volte che è successo
questo, ne ha sofferto la fiducia o la speranza che non pochi avevano
nell’efficacia salvifica di Gesù Cristo, cioè la credibilità nel Vangelo stesso.
Paolo scrisse nella stessa lettera ai corinzi
che la predicazione di Cristo crocifisso è “scandalo per i Giudei, follia
per i Gentili” (1,23). Perché?
“La parola della croce” non è oggetto di
disquisizioni e ragionamenti, di una logica filosofica, neppure di discussioni
teologiche (cf. 1,18-21). A questo livello, la croce è un controsenso, e per
questo è considerata dai Gentili come “follia”. Non è nemmeno questione di
discorsi. E’, come disse bene Paolo, Cristo stesso che è “potenza di Dio e
sapienza di Dio” (v.24). La “parola della croce” è un’esperienza, è un
linguaggio vissuto, non verbale! La croce parla per se stessa: Cristo
crocifisso è un linguaggio! E’ una realtà e, per esserlo, è “potere di Dio”, e
su di lui deve basarsi la fede, come Paolo spiega più avanti (2,5). In poche
parole, è un cammino, quello di Cristo, che è un cammino del dono totale di se
stesso, come vedremo poi.
Solo gli sciocchi non comprendono “la parola
della croce”, ma aspettano una logica o un’argomentazione concettuale: come può
un Dio umiliarsi in questo modo? I giudei lo considerano uno scandalo perché il
Messia dovrebbe venire con forza, potere e gloria, e non come venne Gesù. “La
parola della croce”, allora, risulta essere un’inversione dei valori che il
mondo ha fissato per Dio. Per questo Paolo poteva dire molto bene che “il mondo,
con la sua sapienza, non ha conosciuto Dio nella sapienza di Dio” (1,21).
La Croce non era solo unÂ’inversione di valori di
fronte a Dio, ma anche - e in modo inseparabile - di fronte agli uomini. La
croce incarna la chiamata all’unità realmente fraterna di tutti. E’ umiliazione
per poter così accogliere gli umili nella solidarietà con loro. La croce stessa
è una “opzione di Dio per il povero”, l’emarginato, l’escluso. E’ così che la
croce, questa “follia di Dio”, si è manifestata come vera sapienza, poiché
produce lÂ’unione fraterna tra gli uomini, mettendo in evidenza la follia della
sapienza umana, che produce discriminazioni, divisioni ed esclusioni. Greci e
Giudei non comprendevano il fatto di dare la loro vita perché regni la
fraternità indiscriminata e incondizionata tra tutti gli uomini, al di là della
loro condizione sociale, religiosa, economica, etc., perché Dio regni. La vera
sapienza, quella che viene da Dio, si dà nella povertà e nell’umiltà , in un
amore preferenziale per gli ultimi del mondo, e nella dipendenza da Dio e non
dai poteri e dalle ricchezze di questo mondo. Per questo Gesù stesso poteva
dichiarare: “Beati i poveri, perché di essi è il regno di Dio”. Questo è
quanto evidenzia la croce, questo è il Vangelo predicato da Paolo, un Vangelo
realmente efficace, autentica “potenza di Dio e sapienza di Dio”, come molti
corinzi potevano testimoniare (2,1ss). Prova del fatto che la sapienza di Dio è
costituita dalla croce, è che la predicazione del cammino e delle opzioni di
Gesù Cristo non ha cessato di produrre crocifissioni da parte di coloro che si
sentono minacciati da essa, come è successo più volte negli ultimi decenni nel
nostro continente, e paradossalmente da parte di persone che affermano di essere
cristiane.
Per illustrare la sapienza Divina, Paolo si
appellò alla realtà sociologica della comunità : “Considerate, fratelli, la
vostra chiamata”. Nella maggior parte sono persone umili (1,26ss). Per
avvicinarsi a Cristo, per comprendere la sapienza divina e sperimentare la
“giustizia, santificazione e redenzione” (v.30) che da lui procede, è
indispensabile l’umiltà e il reale distacco, l’essere povero. I maggiori
ostacoli sono costituiti dallÂ’orgoglio (kauchesisi) e dallÂ’attaccamento
al denaro e al potere, che generano autosufficienza e il volere che Dio si
conformi ai nostri schemi mentali e ai nostri criteri socio-politici, invece di
piegarci noi ai suoi. Queste attitudini esplicano la croce. Sono quelle che
fanno sì che il nostro mondo sia diviso e generano violenza … che si torni a
crocifiggere Cristo.
Dunque, se lÂ’evangelizzazione si riduce solo a
discorsi, prediche, conferenze e pubblicazioni, per molti continuerà a essere
“parole, parole, parole”, ma non “la parola della croce” così come Paolo la
predicava e la spiegava ai corinzi. Sarà inefficace, non sarà “potenza di Dio”.
In altre parole, la predicazione deve essere avallata dalle azioni e dalla vita
stessa del predicatore. Deve essere trasmessa coerentemente, accompagnata dalla
testimonianza della sua efficacia salvifica nella vita del predicatore
stesso. Per questo il papa Paolo VI colpì nel segno avvertendo nella EN che
“Oggi più che mai la testimonianza della vita
si è convertita in una condizione essenziale in vista di una reale efficacia
della predicazione” (n.76)
Cristo crocifisso è colui che storicamente visse
la missione di chiamare alla conversione e allÂ’accettazione di questo regno di
Dio che poneva alla portata dellÂ’uomo. (Mc 1,15). Non un regno di Dio solo nei
cieli lontani, come molti deplorevolmente pensano. Questo regno di Dio, che non
è mai definito nei Vangeli, ma che fiorisce chiaramente nei frequenti
riferimenti a esso, tanto espliciti come impliciti, è una realtà che, se anche
non appartiene pienamente a questo mondo, inizia già qui. E si fa realtà nel
modo in cui Gesù lo realizzava: lì dove si vive il perdono, la misericordia,
l’accoglienza di peccatori e pubblicani, di bambini e donne, lì dove si
riavvicinano i lebbrosi, si illumina la vita ai ciechi … dove è una realtà la
prima beatitudine: “beati i poveri, perché di essi è il regno di Dio”.
3. “VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO”
(Gv 13,34s)
I due aspetti emersi si trovano anche nel quarto Vangelo,
in modo particolare nel discorso di commiato, dove Giovanni concentrò gli
orientamenti per la sua comunità di fronte al mondo. Si tratta dell’identità del
discepolo e, nei testi citati, della credibilità del cristianesimo stesso:
13,35: “In questo tutti conosceranno che voi
siete miei discepoli: che vi amiate gli uni gli altri”.
17,21: “Padre, che tutti siano uno (…) perché il
mondo creda che tu mi hai inviato” (cf. v. 23).
Iniziamo dal secondo. Come in 1Cor1, si tratta
di una chiamata all’unità tra tutti. In Gv 17,21 spiccano due aspetti. Come
prima cosa, quest'unità deve essere “come tu, Padre, in me e io in te, che anche
loro siano in noi”, cioè deve essere un’unità esistenziale, più esattamente una
stretta unione tra i cristiani. L’elemento unificante è l’amore
reciproco, come è chiaramente esposto in Gv 13. Secondo, la ragione per esigere
questa unione è “perché il mondo creda che tu mi hai inviato”, cioè che credano
che Gesù è effettivamente l’inviato definitivo di Dio, il Messia, non un profeta
o un maestro. Perciò questa affermazione centrale era preceduta dalla
chiarificazione “non solo per questi ti prego, ma anche per coloro che
mediante la loro parola crederanno in me” (v.20). E’ una questione di
credibilità ! La parola deve essere supportata dai fatti: l’unione nell’amore.
LÂ’esperienza del Vangelo deve unire gli uomini. LÂ’elemento unificatore cristiano
è l’amore, l’unico comandamento lasciato da Gesù. Il corollario è che, se ci
sono divisioni, è perché non regna l’amore tra i fratelli e il Vangelo non è
stato assunto in modo esistenziale, è rimasto al livello della teoria o della
compiacenza intellettuale, dall’ortodossia non è passato all’ortoprassi. Su
questo abbiamo già riflettuto prima a proposito di 1Cor 1. Ora deve essere più
facile comprendere Gv 13,34s.
La prima indicazione di carattere
evangelizzatrice in Giovanni è che i discepoli devono amarsi gli uni gli altri,
perché “in questo tutti conosceranno che voi siete miei discepoli” (13,35). La
ragione per l’amore fraterno è testimonianza per attrarre gli altri a Gesù.
La fedeltà a Cristo la si dà nell’amore, non in
questioni dottrinali in se e per se stesse: “Rimanete (meinate)
nel mio amore!” “Se osserveranno i miei comandamenti rimarranno nel mio amore”
(17,9s). Per questo la sua esperienza è intesa come evangelizzatrice: “In questo
tutti conosceranno che sono miei discepoli”. L’esperienza di un amore come
quello mostrato da Gesù è diventata indispensabile per la credibilità della
Buona Notizia incarnata in Gesù Cristo.
Il comandamento dell’amore fraterno è
caratterizzato come “un comandamento nuovo”. Quale è la novità ? Non
l’amore reciproco. Questo si conosceva già nell’antichità . La novità dell’amore
impostato da Gesù e preteso dai suoi discepoli è mostrata dalla sua stessa vita:
“amatevi…come io vi ho amato” (13,34; 15,12). Lo spiega in 15,13: l’amore
più grande è “dare la propria vita per i propri amici …” E Gesù lo fece.
Come è noto, Giovanni omise la narrazione
dellÂ’istituzione dellÂ’eucarestia e al suo posto mise quella del lavaggio dei
piedi. Entrambe sono strettamente relazionate. La narrazione del lavaggio dei
piedi esplicita visibilmente il significato concreto di “fate questo in memoria
di me” presente nell’istituzione dell’eucarestia. Leggiamo attentamente il testo
nella sua parte esplicativa:
“Dopo aver dunque lavato loro i piedi (…) disse:
“Intendete quello che vi ho fatto? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e
dite bene, perché lo sono. Se dunque vi ho lavato i piedi io, il Maestro e il
Signore, dovete anche voi lavarvi i piedi lÂ’un lÂ’altro. Io, infatti, vi ho dato
l’esempio, affinchè come ho fatto io, facciate anche voi” ”. (13, 12-15)
Il significato dell’eucaristia è il dono di Gesù
stesso. L’eucaristia anticipa che il suo “corpo sarà consegnato per (hyper)
voi” e il suo “sangue sarà versato per voi” (Lc – 1 Cor). La sua morte sulla
croce è la materializzazione di questa consegna. Il lavaggio dei piedi
rappresenta ciò che questa consegna significa in concreto per i discepoli, che
devono fare come fece il Maestro, mettersi al servizio dei fratelli, come uno
schiavo si mette a servizio del proprio signore o padrone. Questa è la qualitÃ
dell’amore richiesto, esemplificato e vissuto coerentemente da Gesù stesso! Ed è
proprio questa la qualità di amore che deve far vedere al mondo che “voi siete
miei discepoli”. La comunione con Gesù Cristo per mezzo dell’eucaristia è
comunione con la sua qualità dell’amore, che è un amore ad extra. Obbliga
a “fare questo in memoria” sua, ad amarsi come lui amò, a lavare i piedi al
fratello, cioè ad assumere l’attitudine di “ultimo – schiavo – minore” e non di
“primo – signore – maggiore”, molte volte ripetuta in modi diversi nei vangeli
sinottici e ampliata particolarmente nellÂ’istruzione data ai discepoli in Mc
10,42-45. La partecipazione all’eucaristia obbliga cioè a svestirsi nella
consegna di se stesso in umile servizio agli uomini, come lo fece Gesù. Si farÃ
“in memoria” sua quando sia continuazione fedele del progetto di vita
iniziato da Gesù.
Questa è la testimonianza che molti si attendono
da coloro che si dedicano a evangelizzare. E hanno diritto di aspettarselo,
persino di reclamarlo, perché è una questione di credibilità . Questo è
certamente un aspetto sul quale dovremmo riflettere in modo sincero e onesto
guardandoci nello “specchio del Signore”; ma invece di avvicinarci a una
testimonianza di amore nello stile di Gesù, cioè servizievole, umile,
aperto al dialogo, fraterno, purtroppo si ha lÂ’impressione che ci muoviamo verso
il contrario. Si sa pubblicamente che, per una serie di azioni e attitudini da
parte di alcune delle istanze della chiesa, ci stiamo allontanando dalla
unione fraterna procedendo per cammini di costrizioni, imposizioni,
monologhi, censure, in un clima di sospetto e di diffidenza Â…
Gesù mostrò con la sua vita che cosa significa
essere veramente un pastore, un buon pastore, a differenza dei mercenari (Gv
10). Ha dato la sua vita per le sue pecore (v.11.15). E di questo precisamente
incaricò Pietro: “Pascola le mie pecore” (Gv 21). Non disse che erano
pecore di Pietro, e neppure che le governasse. Per loro avrebbe dovuto dare la
propria vita. Il menzionato passaggio in Mc 10 avverte in modo molto chiaro al
riguardo, nellÂ’occasione in cui alcuni discepoli volevano assicurarsi la
preminenza nel Regno:
“Voi sapete che quelli che passano per capi delle
nazioni, le governano con imperio, e i loro grandi esercitano potere su di esse.
Ma non così deve essere fra di voi. Al contrario, colui che vorrÃ
diventare grande fra voi sarà il vostro servo; e colui che fra voi vorrà essere
il primo, sarà lo schiavo di tutti. Poiché anche il figlio dell’uomo non è
venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto di
molti.” (10,42-45)
IN SINTESI
L’evangelizzazione sarà realmente nuova e sarà efficace nella misura in cui
sia come quella di Gesù e della Chiesa nascente testimoniata nel NT. Cioè sarÃ
nuova ed efficace nella misura in cui gli evangelizzatori si lascino
evangelizzare dalla parola di Dio e questa sia in dialogo con la realtà alla
quale si rivolgono, realtà che include la presa di coscienza della cultura in
questione (tema che lascio da parte, ma che è già stato magistralmente trattato
a Puebla e a Santo Domingo). Ciò suppone che chi evangelizza deve mostrare
unÂ’evidente coerenza tra la Buona Novella che annuncia, la sua stessa prassi e
il modo in cui vive. Che sia cioè un testimone vivo della propria esperienza
della “parola della croce”. In caso contrario, mancherà di credibilità e, in
quanto a evangelizzazione, sarà sterile.
PER QUANTO RIGUARDA LÂ’UNITAÂ’
Purtroppo, con crescente frequenza, si va
insistendo più sull’uniformità che sull’unità . C’è una crescente insistenza
nella nostra Chiesa perché tutti pensino in modo uguale, difendano gli stessi
concetti, confessino le stesse idee, etc. E deplorevolmente si agisce con mezzi
lontani dal modo di invitare all’unione che mostrarono Gesù, Paolo e Giovanni:
censure, emarginazioni, minacce, silenzi, quindi imposizioni e costrizioni, al
posto dellÂ’avvicinamento, del dialogo e del rispetto. Questa impostazione
dell’unità non ha unito, ma ha creato antagonismi, e di conseguenza ha dato una
testimonianza negativa che ha allontanato molti dalla Chiesa cattolica (migliaia
in Europa, come si sa pubblicamente). L’unità , a differenza della uniformità ,
non si impone: si stimola e si guadagna. L’evangelizzazione sarà realmente nuova
se, tra le altre cose, fomenta l’unità per il cammino evangelico: quello
dell’amore, del dialogo, della fraternità , della solidarietà con i poveri e gli
emarginati.
Paolo VI chiedeva se “uno dei grandi mali
dell’evangelizzazione” non fosse forse la mancanza di unità tra i cristiani,
perché “il vangelo che proclamiamo sembra lacerato da questioni dottrinali, da
polarizzazioni ideologiche o da condanne reciproche tra i cristiani” (EN 77).
Poi aggiunse un invito a proseguire nel dialogo ecumenico. Solo un cieco non
vede che questa mancanza di unione e gli stessi rimproveri si applicano
mutatis mutandi alle relazioni dentro la Chiesa cattolica.
In questi tempi di una
valutazione così grande dei diritti umani, l’insistenza all’uniformità al posto
dell’unità - e questa autenticamente rispettosa e fraterna - produce un rifiuto
naturale da parte di coloro che cercano proprio quest'unità in termini di fede
prima che di dottrine, di esperienza comunitaria prima che di idee. L’unità si
guadagna, non si impone; l’unità è inseparabile dalla libertà e dal dialogo. E’
ciò che è esistito tra personaggi tanto diversi come gli apostoli Pietro e
Paolo, tra ebreo e gentile-cristiani. Ma quando si volle imporre un’uniformità ,
senza ammettere la diversità nell’unità , sorsero gli scismi di cui oggi tanto ci
lamentiamo. Questo mi ricorda la confessione che pubblicò il filosofo Bertrand
Russel “Perché non sono cristiano?”. L’impostazione è ammirevole, ma la sua
applicazione, concretamente la mancanza di unione e di rispetto tra i cristiani,
tolgono ogni credibilità alla sua autenticità . Non testimoniano ciò che
predicano.
PER QUANTO RIGUARDA IL
CONTENUTO FORMALE DELLÂ’EVANGELIZZAZIONE
Evangelizzare è annunciare
la Buona Novella, che è Gesù Cristo, la sua persona, la sua missione e
mediazione salvifica.
“Non c’è vera evangelizzazione se non si annuncia il nome, la dottrina, la vita,
le promesse, il mistero di Gesù di Nazaret, figlio di Dio”, annotò
opportunamente Paolo VI (EN 22). Per questo avvertì, rimandando a 2 Cor 4,5, che
gli inviati devono andare:
“A predicare, non se stessi o le proprie idee
personali, ma un vangelo del quale neppure loro sono padroni e proprietari
assoluti per disporre di esso a loro piacimento, ma ministri per trasmetterlo
con somma fedeltà ” (EN 15).
La Chiesa dovrebbe essere nuovamente
Vangelo-centrica, o più chiaramente, Cristo-centrica, dopotutto il vangelo non è
altro che l’avvenimento-Gesù Cristo. Se ci riesce, allora la sua stessa vita
sarà evangelizzatrice, perché incarnerà a partire dal Papa, passando per vescovi
e clero fino al più umile dei laici, uno spirito come quello di Cristo. Essere
cristiano, a differenza dell’essere ebreo, è essere discepolo di Gesù
Cristo, non essere semplicemente “teista”.
Nel sinodo europeo nel dicembre del 1991, solo
il cardinale Ratzinger affermò:
“L’evangelizzazione è parlare di Dio. La Chiesa
parla troppo di se stessa, della propria struttura e bisogna chiedersi se non
lasciamo nell’ombra l’annuncio di Dio. L’evangelizzazione non è un annuncio di
dogmi e di prescrizioni, è l’annuncio del Dio che in Cristo si rivela a tutti
gli uomini”.
PER QUANTO RIGUARDA GLI EVANGELIZZATORI
L’evangelizzazione sarà nuova se si mostra realmente coerente, e per tanto
degna di credibilità . Tra il vangelo, le azioni e la vita vissuta da
coloro che evangelizzano ci deve essere coerenza, in modo che si testimoni il
vangelo come realmente efficace nella propria stessa vita. Questa
coerenza deve essere reale ed evidente, non immaginaria. Manca di credibilità la
predicazione dellÂ’amore se non si vive e si proietta questo amore in modo
concreto e visibile.
In ripetute occasioni Paolo VI avvertì nella EN circa
l’importanza della testimonianza personale (nn. 21,26,41,76), perché
evangelizzare è, prima di tutto, dare testimonianza. Egli stesso ci ricordava
che “questo secolo ha sete di autenticità ” e che per questo:
“Tacitamente o a forti grida
ci viene chiesto: “Credono veramente in ciò che annunciano? Vivono ciò che
credono? Predicano veramente ciò che vivono?” Oggi più che mai la
testimonianza di vita è diventata una condizione essenziale in vista di una
reale efficacia della predicazione” (EN 76).
Questo spetta a tutti, dal primo allÂ’ultimo, dalla alta
gerarchia sino allÂ’evangelizzatore laico. Per questo concludeva con lÂ’avvertenza
che:
“Il mondo esige e si aspetta
da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità con tutti, specialmente
per i piccoli e i poveri, obbedienza e umiltà , distacco da se stessi e rinuncia.
Senza questo marchio di santità , la nostra parola … corre il rischio di farsi
vana e infeconda” (Ibid.).
E prima Paolo VI aveva avvertito che:
“Evangelizzatrice, la
Chiesa comincia a evangelizzare se stessa (Â…). La Chiesa ha sempre la
necessità di essere evangelizzata se vuole conservare la sua freschezza, il suo
impulso e la sua forza per annunciare il vangelo” (EN 15, rimanda al
decreto del Concilio, Ad Gentes n.5, 11-12).
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