1. LÂ’era della
globalizzazione è l’era del pluralismo delle religioni e delle culture. La
religione oggi non vive più in un universo chiuso; essa è esposta alla
concorrenza con altre religioni e con la loro pretesa di validità . Così si
raccomanda tolleranza, dialogo o discorso. Ciò, certamente è importante. Ma è
la risposta sufficiente al costitutivo pluralismo delle religioni? Non ci sono anche limiti alla tolleranza e criteri per il dialogo? E, nellÂ’era della
globalizzazione, non ci sono situazioni nelle quali la razionalità formale e
puramente procedurale dei discorsi viene meno?
Tener conto di queste questioni non vuol dire di certo
rinnegare o annullare il pluralismo, ma sviluppare una modalità ragionevole e
accessibile a tutti di relazionarsi ad esso. Ma esiste nellÂ’irrevocabile,
riconosciuta molteplicità delle religioni e culture un criterio di comprensione
del tutto vincolante e, in questo senso, veritiero? Oppure tutto rimane soltanto
affidato allÂ’arbitrio del mercato postmoderno? La globalizzazione nel campo
delle religioni e delle culture, alla fin fine, conduce forse a una
relativizzazione di ogni pretesa di validità , a un molteplice gioco di elementi
religioso – culturali che, in definitiva, stanno uno di fronte all’altro
senza una relazione?
Si devono interrogare e verificare le tradizioni e i
contesti delle religioni e delle culture. Oggi, proprio nel nostro contesto
culturale occidentale, in questÂ’era postmoderna, in questÂ’epoca nella quale
Nietzsche si respira nellÂ’aria, in questo tempo dellÂ’ateismo amico della
religione, molti favoriscono la “soluzione
morbida” di una religione senza Dio. Non risulta essa più tollerante e più
aperta al pluralismo del ricordo del Dio biblico che, in definitiva, è
tramandato come Dio della storia e delle leggi? Nondimeno la mia proposta si
indirizza a questa soluzione “forte”: alla memoria del Dio della tradizione
biblica, in quanto articolata come memoria della sofferenza dellÂ’uomo. Su
questo si basa la mia proposta di un cristianesimo nellÂ’era della
globalizzazione.
2. Cominciamo – in questo tempo di pluralismo costitutivo – con il
difficile concetto di universalità . Il principio monoteistico della tradizione
biblica è, per l’appunto, un principio universalistico. Dio o è un tema che
riguarda tutta l’umanità oppure non è affatto un tema. Gli dei sono
riducibili alla pluralità e alla regionalità ; Dio no. Egli è il “mio” Dio
solamente se può essere anche il “tuo”
Dio. Egli è il “nostro” Dio solamente se può essere anche il Dio di tutti
gli altri uomini. In senso proprio, il concetto monoteistico di Dio non è
idoneo a legittimare e a rafforzare il rapporto amico- nemico tra gli uomini.
Esso è – detto in modo elementare – un concetto di pace, non un concetto di
sottomissione: esso conduce al riconoscimento della figliolanza divina per tutti
gli uomini.
Certamente il discorso su Dio ha talora assunto i tratti di
un monoteismo “forte”, asservito alla politica del potere e come tale
esposto alla più tagliente critica della politica della modernità . Esso per lo
più, e non senza ragione, serve come fonte di legittimazione di un modo di
concepire la sovranità in senso predemocratico, ostile alla divisione dei
poteri; esso serve come radice di un obsoleto patriarcalismo e come ispiratore
di fondamentalismi politici. Di fronte a tale critica, il cristianesimo non può,
dunque, tentare di cavarsela, ripiegando – come non di rado avviene nella
teologia contemporanea – nella teologia trinitaria e cercando di dimostrare
dalla trinità di Dio la compatibilità del cristianesimo con il pluralismo e la
modernità . Con ciò, infatti, il cristianesimo verrebbe a negare, sin
dall’inizio, ogni capacità di pluralismo delle religioni strettamente
monoteiste, come, ad esempio, la tradizione giudaica o anche quella islamica, a
prescindere completamente dal fatto che un cristianesimo, che perdesse di vista
il suo tipico sfondo monoteista, si collocherebbe chiaramente contro la
tradizione biblica e con la sua teologia trinitaria e cristologia correrebbe il
rischio di cadere in una palese mitologia.
3. Il discorso sul Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che è anche il
Dio di Gesù, non è espressione di un qualsiasi monoteismo, ma di un monoteismo
“debole”, vulnerabile, empatico; esso è essenzialmente una teologia
sensibile al dolore. Mi si permetta di dire così: per quanto riguarda questo
monoteismo biblico si tratta di un “monoteismo riflessivo” . Ciò significa
due cose: in primo luogo, questo monoteismo è accompagnato da una forma di
“illuminismo biblico”, cioè, sebbene contenga elementi di un monoteismo
arcaico con i suoi tipi violenti e le sue figure amico/nemico che si oppongono
alla pace, allo stesso tempo però, esso conosce un “divieto di farsi delle
immagini”, una radicale critica dei miti e la teologia negativa dei profeti.
In questo luogo, la teologia della tradizione biblica è una teologia che, a
motivo del problema tanto insolubile quanto ineludibile della teodicea, ovvero
del problema del dolore allÂ’interno della creazione uscita buona dalle mani di
Dio, è una teologia costitutivamente interrotta, che non ha una risposta ma una
domanda di troppo. Essa è perciò, una teologia che si può universalizzare
solo a partire dal problema del dolore, a partire dalla memoria passionis,
a partire dalla immedesimazione del dolore, in particolare del dolore degli
altri, fino al dolore del nemico. Questa teologia può essere universale, ovvero
significativa per ogni uomo, solamente se nel suo nucleo essenziale, è una
teologia sensibile al dolore altrui. Sforzarsi di raggiungere questo monoteismo
ha presumibilmente un significato decisivo per gli attuali, tanto discussi
conflitti culturali – per esempio, tra la cultura politica dell’occidente e
quella dei paesi islamici. Ritengo che sia senza prospettiva, in vista di questa
ed analoghe discussioni, voler eliminare completamente il “principio
monoteistico”. Piuttosto si tratta di richiamare ed evocare i tratti di questo
monoteismo sensibile al dolore, presenti nelle tradizioni di tutte e tre le
grandi religioni monoteiste: presso gli ebrei, i cristiani, i musulmani.
Naturalmente tutte le religioni monoteistiche sono segnate profondamente dal
loro storico tradimento dellÂ’assioma fondamentale del monoteismo biblico, in
base al quale il ricordo di Dio è legato all’immedesimarsi nel dolore altrui.
E oggi non sono sempre ancora le
stesse religioni monoteiste che peccano contro questo immedesimarsi nel dolore
altrui e così risvegliano o rendono stabili situazioni di odio e di violenza:
nella ex Jugoslavia, in Irlanda, nel conflitto tra Israele e i Palestinesi, nel
Libano, nel subcontinente indiano, e così via?
4. Le
tradizioni bibliche del discorso su Dio e la storia neotestamentaria di Gesù
conoscono una forma irrinunciabile di universalismo, di responsabilitÃ
universale. Al riguardo, però, e su questo si dovrebbe far attenzione,
l’universalismo di questa responsabilità non è primariamente orientato
allÂ’universalismo del peccato dellÂ’uomo ma allÂ’universalismo del dolore
nel mondo. Il primo sguardo di Gesù
non si rivolgeva al peccato dellÂ’altro, ma allÂ’altrui sofferenza. Il peccato
per lui era anzitutto rifiuto della partecipazione al dolore dellÂ’altro, era
rinunzia a pensare oltre lÂ’oscuro orizzonte della storia della propria
sofferenza, era, come l’ha definito Agostino “il ripiegamento del cuore su
se stesso”, una consegna al narcisismo latente della creatura. Ed è così che
il cristianesimo cominciò come comunità di narrazione e di
memoria, alla sequela di Gesù il cui primo sguardo era dedicato alla sofferenza
altrui.
Questa sensibilità per il dolore altrui
caratterizza il ‘nuovo modo di vivere’ di Gesù. Esso è, a mio
avviso, l’espressione più forte di quell’amore al quale alluse, quando –
del resto del tutto in linea con la sua eredità giudaica – parlò dellÂ’unitÃ
inscindibile dellÂ’amore di Dio e dellÂ’amore del prossimo. Ci sono parabole
di Gesù, con le quali Egli in modo speciale si è calato narrativamente nella
memoria dell’umanità . Di queste fa parte in primo luogo, la celebre parabola
del “Buon samaritano”, con la sua critica al sacerdote e al levita, i quali,
entrambi, nel loro viaggio tra
Gerico e Gerusalemme, a motivo di un “interesse più alto” che lo dispensi.
Chi dice “Dio” nel modo di sentire di Gesù, mette in conto di smantellare,
mediante l’altrui infelicità , idee religiose preconfezionate. Parlare del Dio
di Gesù, significa decisamente mettere a tema il dolore altrui e denunciare
responsabilità inevase, solidarietà negate. Nel modo plastico di esprimersi di
una arcaica società di provincia – e naturalmente senza tener conto dei
problemi strutturali delle società tardo moderne – la parabola attesta la
sensibilità al dolore del discorso su Dio.
5. Il
cristianesimo ebbe già molto presto grosse difficoltà con le elementari
esigenze di sensibilità al dolore,
contenute nel suo messaggio. La questione inquietante per le tradizioni
bibliche, riguardo alla giustizia per
coloro che soffrono ingiustamente, fu di fatto molto presto mutata e riformulata
nella questione concernente la redenzione dei colpevoli. Il problema della
teodicea fu attenuato o ridotto al silenzio dalla soteriologia dal messaggio
della morte espiratoria di Gesù.
La dottrina della salvezza cristiana ha troppo drammatizzato il problema del
peccato, mentre ha relativizzato il problema della sofferenza. Il cristianesimo
si trasformò da una religione con una primaria sensibilità al dolore in una
religione con una primaria sensibilità al peccato. Il primo sguardo non si
volgeva alla sofferenza della creatura, ma al suo peccato. Ciò portò, com’è
noto nel corso della modernità , a una reazione contraria – fatale fino ad
oggi, fino allÂ’attuale congiuntura di una piena separazione tra religione e
colpa, tra mistica e morale. Ma su ciò torneremo più avanti.
6. Nella
lingua tedesca non c’è una parola che esprima senza equivoci questa primaria
sensibilità al dolore e il fatto che Gesù volgeva il primo sguardo al dolore
altrui. Mitleid (compassione) suona troppo come accentuazione
sentimentale, è troppo “non-politico”. C’è il sospetto che le condizioni
sociali vengano depoliticizzate da un eccesso di moralizzazione e che le
ingiustizie dominanti vengano offuscate dalla tendenza al sentimento. Così
faccio il tentativo di adoperare l’insolita parola Compassion (‘compassione’)
come parola chiave per il progetto di mondo, tipico della religione biblica
nellÂ’era della globalizzazione. Questa compassione senza percezione
partecipativa al dolore altrui, come immedesimazione nell’altrui dolore è, a
mio parere, per l’Europa l’eredità comune della tradizione
biblica, così
come la curiosità teorica è l’eredità comune della tradizione greca e come la
teoria del diritto repubblicano è l’eredità comune della tradizione romana,
nelle nostre globalizzate condizioni di vita.
7. Per
quanto riguarda la compassione (Compassion) come progetto di mondo,
tipico del cristianesimo, nellÂ’epoca della globalizzazione, menziono qui tre
aspetti.
Anzitutto questa compassione può valere come
ispirazione per una nuova politica di pace. In occasione di uno dei consueti
sondaggi sui cambiamenti del secolo, mi hanno chiesto quale evento degli ultimi
anni mi avesse particolarmente colpito. Io ho richiamato una scena dellÂ’anno
1993 quando a Washington – alla presenza del presidente degli Stati Uniti –
Rabin per Israele e Arafat per i Palestinesi si sono stretti per la prima volta
la mano e si sono assicurati a vicenda che nel futuro avrebbero voluto guardare
non solo alle proprie sofferenze, ma di essere pronti a guardare alle sofferenze
dellÂ’altro, di non dimenticare e di prendere in considerazione nella loro
politica le sofferenze di coloro che fino a quel momento si consideravano
nemici. Questo era per me lÂ’approccio di una politica di pace a partire dalla memoria
passionis, dal far proprio il dolore altrui. Che cosa sarebbe successo, per
esempio, nella ex Jugoslavia se i popoli di quella regione – tanto cristiani
quanti musulmani – avessero agito secondo questo
imperativo? Se nei loro
conflitti etnici non solo non si fossero ricordati delle proprie sofferenze, ma
anche delle sofferenze degli altri, delle sofferenze di che fino a quel momento
era considerato un nemico? Che cosa ne sarebbe delle guerre civili nelle altre
regioni dÂ’Europa se i cristiani non avessero di volta in volta tradito questa
compassione? E solo se anche tra noi – in questa nuova Unione Europea –
cresce una cultura politica ispirata da questa compassione, cresce la
prospettiva che l’Europa sarà uno scenario culturale che fiorisce e non uno
scenario che brucia, un territorio di pace e non un territorio che cova violenza
ovvero unÂ’area di crescente guerra civile.
In secondo luogo questa compassione può essere
considerata come fondamento per una nuova politica del riconoscimento. Nelle
condizioni politiche globali non si può solo trattare del rapporto degli uni
rispetto agli altri come partner del procedimento discorsivo, ma – in modo più
fondamentale – si tratta della relazione degli rispetto agli altri che sono
oppressi ed esclusi. Rapporti di riconoscimento strettamente simmetrici, come
sono insinuati nella concezione delle nostre progredite società basate su
procedimenti discorsivi, in definitiva, non vanno oltre una logica del rapporto
di concorrenza, del mercato, dello scambio. Solo rapporti asimmetrici di
riconoscimento, solo lÂ’attenzione degli uni nei riguardi degli altri,
emarginati e dimenticati, spezza la violenza della logica del mercato. In questa
sottolineatura dellÂ’asimmetria, non pochi sospetteranno un concetto di
politica troppo enfatico. In realtà esso reclama, invece, solo
l’irrinunciabile rapporto tra politica e morale. Senza questa “implicazione
morale” la politica, la politica mondiale, sarebbe soltanto ciò che già oggi
appare ampiamente essere, lÂ’ostaggio dellÂ’economia e della tecnica e della
loro cosiddetta “ineluttabilità ” nell’era della globalizzazione.
Infine, questa compassione può davvero portare al
rafforzamento della memoria umanizzata. Essa protesta contro un pragmatismo
della libertà moderna, che si è staccato dalla memoria del dolore e che sotto
il profilo morale si accenna in maniera sempre crescente. Essa è una protesta
contro la smemoratezza della libertà moderna. Cosa accadrebbe allora, se gli
uomini un giorno, potessero combattere con la sola arma dellÂ’oblio contro
l’infelicità nel mondo? Se potessero costruire la loro felicità solo sulle
basi di un oblio delle vittime, privo di compassione, ossia una cultura
dell’amnesia nella quale, tutt’al più, il tempo deve guarire ogni
ferita?
Di che cosa, allora, si dovrebbe nutrire la ribellione contro la mancanza di
senso della sofferenza nel mondo? Che cosa, dunque, dovrebbe ispirare ancora
l’attenzione per il dolore altrui e la visione di una nuova e più grande
giustizia?
8. Negli
attuali tentativi di formulare un ethos globale, il discorso cade di solito su
un universalismo etico che dovrebbe essere recuperato sulla base di un
cosiddetto consenso fondamentale o minimo tra le religioni e le culture. Eppure,
sotto il profilo strettamente teologico e non solo sotto quello della politica
delle religioni, va detto che un ethos globale non è un prodotto di consenso.
Chi vorrebbe ricondurre questo ethos globale alla approvazione di tutti,
dinamica che il consenso, l’approvazione di tutti può essere, invero, la
conseguenza ma non il fondamento e il criterio di una pretesa universale.
L’ethos globale si radica per lo più nel riconoscimento incondizionato di
un’autorità che può essere invocata senz’altro, anche nelle grandi
religioni e culture dell’umanità : nel riconoscimento dell’autorità di
coloro che soffrono come qui, in estrema sintesi, vorrei indicare. Questa
autorità di coloro che soffrono (non della sofferenza!) – ammettiamolo
apertamente – secondo i moderni criteri del consenso e del discorso è
un’autorità “debole”. Essa non può essere assicurata né dal punto di
vista ermeneutica né dal punto di vista discorsivo. L’obbedienza di fronte a
questa autorità precede la comprensione e il discorso, e questo al prezzo di
qualsiasi moralità . “Guarda e conosci”, così una volta l’ha formulato il
filosofo Hans Jonas. Questa “autorità debole” di coloro che soffrono è
l’unica autorità che ci è rimasta nelle nostre condizioni di soggetti
illuminati e critici rispetto all’autorità . Indico brevemente le sue
dimensioni:
- A
questa autorità di coloro che soffrono è sottomessa la ragione umana a costo
della sua ragionevolezza, se non vuole finire in una ragione puramente
strumentale, puramente funzionale. “La necessità di far sì che il dolore
diventi eloquente è la condizione di ogni verità ”. Con ciò Theodor W.
Adorno formulò l’apriori del dolore di ogni metafisica oggi ancora tollerata
e concessa e della sua pretesa di verità .
- A
questa autorità di coloro che soffrono è sottomessa ogni etica, nella misura
in cui essa vuole basarsi su reciprocità ed intersoggettività , cioè nella
misura in cui essa non si occupa semplicemente di come ognuno deve regolarsi con
se stesso, ma di come noi dobbiamo trattarci gli uni gli altri. Qui lÂ’autoritÃ
di coloro che soffrono gioca un ruolo normativo. Essa impedisce lÂ’incalzante
erosione dellÂ’etica da parte della tecnica. Essa interrompe la dissoluzione
dell’uomo in un totale esperimento biotecnico, che, con la massima “ciò che
riesce è permesso”, rischia di operare una serie consecutiva di infrazioni
delle regole etiche. L’autorità di coloro che soffrono oppone resistenza nei
confronti di una biotecnica o di una antropotecnica nella quale l’ “uomo”
è completamente ridotto a oggetto e, in realtà , è considerato come l’ultimo
pezzo della natura, non ancora del tutto sperimentato.
- Anche
la chiesa è sottomessa a questa autorità di coloro che soffrono. Questa
autorità non può essere nemmeno racchiusa in uno schema ecclesiologico, poiché
essa, anche per la chiesa, non può essere raggirata. E così essa può anche
divenire critica rispetto alla concreta condotta ecclesiale. LÂ’annuncio di Dio
da parte della chiesa non ha forse troppo dimenticato che la teologia delle
tradizioni bibliche si articola nellÂ’immedesimazione del dolore altrui, che
cioè, la memoria veritativa di Dio non può essere scissa dalla memoria dl
dolore che grida fino al cielo? La “crisi di Dio” che sta sullo sfondo della
oggi tanto conclamata crisi della chiesa, non è anche provocata da una prassi
ecclesiale, nella quale è stato e viene ancora annunciato un Dio che sta di
spalle alla storia di dolore dellÂ’uomo? LÂ’annuncio della chiesa non opera
forse talvolta appunto per questo motivo in modo fondamentalistico, poiché in
essa l’autorità di Dio è staccata dall’autorità di coloro che soffrono,
sebbene Gesù stesso, nella famosa parabola del giudizio finale (Mt 25), abbia
posto l’intera storia dell’umanità proprio sotto l’autorità di coloro
che soffrono?
- A
questa autorità di coloro che soffrono sono sottomesse tutte le religioni e le
culture dell’umanità , poiché essa, rettamente considerata, non è
raggirabile neanche dal punto di vista religioso e culturale. Il riconoscimento
di tale autorità , a mio avviso, in modo ancor più convincente sottratto a ogni
relativismo culturale di quanto non lo sia il solito discorso sui diritti umani
e sulla dignità umana. Essa, perciò, si lascia formulare come quel criterio
che può orientare il discorso delle culture e delle religioni in condizioni
globalizzate di vita. Non si può forse pervenire a una ecumene della
compassione tra le religioni dell’umanità ?
9. “Il
mondo”, così ho letto in un articolo del direttore del Washington Councel
of Foreign Relation, “fa rotta inesorabilmente verso uno di quei momenti
talmente tragici, che farà chiedere agli storici del futuro perché non sia
stato fatto qualcosa al momento opportuno. I responsabili della politica e
dellÂ’economia non si sono accorti a quali profondi abiezioni portava il
cambiamento economico e etico? E che cosa li ha trattenuti dallÂ’intraprendere
i passi indispensabili per impedire una globale crisi sociale?”.
Chi, propriamente, pratica, in questo senso, una
coscienziosa politica mondiale? Dove sono le istituzioni che potrebbero
assumersi una responsabilità globale, reclamata dal punto di vista morale?
Forse le Nazioni Unite con i loro divergenti interessi in ciò che concerne le
questioni dei diritti umani? Forse alla fine sono le tanto rinomate
subisituzioni come Amnesty International (per il diritto alla libertÃ
nel mondo), come Terre des Hommes (per i poveri nel mondo) oppure come Green
Peace (per i problemi ecologici mondiali)? Ma, con tutto il rispetto, sono
esse sufficienti? Si può con esse rendere possibile e garantire una politica
mondiale nella quale – in considerazione dell’accelerata globalizzazione dei
mercati e dellÂ’eccedente amnesia culturale nei mondi virtuali della nostra
industria dell’informazione e della cultura – rimane assicurato il primato
della politica rispetto allÂ’economia e alla tecnica? Al riguardo la politica
non avrebbe bisogno del sostegno di una memoria più ampiamente e
fondamentalmente radicata? Non ha essa bisogno in modo nuovo della memoria di
dolore – da intendere nel senso della compassione, della percezione
partecipante del dolore altrui – accumulate nelle religioni dell’umanità ?
10. Affinché
la globalizzazione non porti a una volgarizzazione moralistica e a una cultura
del mondo del minimo denominatore comune, il nucleo religioso delle culture
dell’umanità non dovrebbe essere trascurato proprio oggi. Ora tutte le grandi
religioni dell’umanità sono concentrate intorno ad una mistica del dolore.
Essa potrebbe essere anche la base per una coalizione delle religioni per la
salvezza e lÂ’incremento della compassione sociale e politica del nostro mondo,
nella comune resistenza contro le cause del dolore ingiusto e innocente, ma
anche contro la fredda alternativa di una società mondiale, nella quale l’
“uomo” sempre più scompare nei sistemi vuoti di umanità dell’economia,
della tecnica e della sua industria dellÂ’informazione e della cultura. Questa
ecumene della compassione sarebbe non solo un evento religioso ma anche
politico. Ciò ovviamente non per portare acqua al mulino di una trasognata
politica astratta o di una fondamentalistica delle religioni, ma per rendere
possibile e sostenere una coscienziosa politica mondiale, nellÂ’era della
globalizzazione.
Al riguardo in futuro sarà soprattutto una questione di
significato decisivo e determinerà dappertutto il discorso delle religioni:
come si rapportano due forme classiche di questa mistica del dolore delle
religioni nei riguardi del dolore altrui? Ritratta, da una parte, delle
tradizioni bibliche monoteiste e dallÂ’altra, della mistica del dolore delle
tradizioni dellÂ’estremo oriente, in particolare di quelle buddiste, che, nel
frattempo guadagna sempre più adepti anche nel mondo postmoderno
dell’occidente, dopo la proclamata “morte di Dio”.
Mi si permetta infine di riformulare le difficoltà a
proposito dellÂ’incontro della mistica del mondo occidentale con la mistica
buddista dellÂ’estremo oriente, nella forma di una domanda. (Laddove una
ricezione occidentale del buddismo vanificasse questa domanda, essa porterebbe
in definitiva solo a forme triviali di una grande religione dell’umanità e
confermerebbe con ciò in modo indiretto solo quello scetticismo crescente che
il buddismo originario dellÂ’oriente nutre nei confronti di una sua disinvolta
assunzione in forme di vita occidentale). E cioè non c’è, forse, nella
mistica buddista del dolore un’idea di fondo che l’uomo occidentale può sì
comprendere, ma che difficilmente può accettare come propria forma di vita? La
mistica del dolore dellÂ’estremo oriente non porta forse al presupposto che
tutte le laceranti contrapposizioni tra io e mondo possano essere superate nel
fatto che l’io, alla fine si dissolve nella preesistente unitotalità e
armonia dell’universo? Allora qui l’io non è forse una palese illusione
mistica oppure, come già Friedrich Nietzsche aveva formulato, come qualcosa di
“messo a deposito”, per così dire, il primo vero e proprio antropomorfismo
che permea lÂ’intera storia religiosa e spirituale dellÂ’occidente?
Ora è pur vero che in questo modo di vedere c’è qualcosa
di assolutamente seducente per soggetti europei stressati e moralmente
strapazzati. Eppure laddove il soggetto autonomo viene messo in questione
proprio a partire da una prospettiva mistica, non accade forse che in tale
mistica anche tutti gli altri soggetti svaniscono in una sorta di illusorietà ?
Dove sarebbe in ciò ancora una non eludibile obbligazione alla compassione,
alla sensibilità per e alla cura del dolore degli altri, dei “più piccoli
tra i fratelli”? La mistica del dolore dell’estremo oriente non allenta
forse il rapporto tra mistica e morale a un prezzo troppo alto? Tutto questo non
può, anzi non deve essere fatto oggetto di domanda, anche e proprio quando ci
si rende conto del pericolosi un eccesso di moralizzazione nella nostra mistica
occidentale del dolore?
La mistiche del dolore delle tradizioni bibliche
monoteistiche è, in ogni caso nella sua essenza, una mistica politica, una
mistica sociale e politica della compassione. Essa è una mistica del volto, non
una mistica della natura senza volto o una mistica cosmica unitotale. Il suo
imperativo categorico suona: svegliarsi, tenere gli occhi aperti! Gesù non
insegnò – con tutto il rispetto per Buddha e la spiritualità dell’estremo
oriente – una mistica degli occhi tappati, ma una mistica degli occhi
spalancati, una mistica del dovere incondizionato di percepire il dolore altrui.
Al riguardo egli fece i conti nelle sue parabole con le creaturali difficoltÃ
di comprensione degli uomini, con il loro innato narcisismo, definendoli uomini
che guardano eppure non vedono. Esiste probabilmente una fondamentale paura del
vedere, del guardare esattamente in profondità , di quel vedere profondo che ci
involve in quanto abbiamo visto e che non ci consente di passare accanto, come
se non avessimo colpa? “Guarda e conosci!”. Qui è ancorata quella
responsabilità ineludibile dell’io che, dal punto di vista cristiano, si
chiama “coscienza”; e ciò che chiamiamo “voce” di questa coscienza è
la nostra reazione allÂ’irruzione del volto estraneo di coloro che soffrono.
11. Si può
parlare giustamente di provocazioni primarie e di provocazioni secondarie del
messaggio di Gesù. La compassione fin qui tratteggiata sarebbe allora la
primaria provocazione del suo messaggio. Noi cristiani, nel corso del tempo
abbiamo fatto confusione in qualche cosa, a tale riguardo? Può darsi che molti
considerino questo cristianesimo della compassione un vago romanticismo
pastorale. E certamente, questa compassione è una radicale provocazione, come
appunto anche il cristianesimo, come anche la sequela, come anche Dio. Nel
linguaggio di una religione borghese inaridita, che nullÂ’altro tanto teme
quanto il proprio fallimento e che, perciò, preferisce sempre il passero nella
mano alla colomba sul tetto, tutto ciò difficilmente può essere tematizzato.
Ci sono, dunque, per un cristianesimo della compassione, della crescente
sensibilità per il dolore degli altri, orecchie davvero aperte? Io posso, in
definitiva, rispondere solo con una controdomanda: chi dovrebbe essere ritenuto
all’altezza di questa primaria provocazione del messaggio di Gesù e di ciò
che in esso c’è di radicale? Chi si dovrebbe ritenere capace dell’idea
avventurosa di essere disponibile per gli altri, prima che si ottenga qualcosa
da loro? A chi si potrebbe inculcare questo “modo diverso di vivere”, anche
oggi, proprio oggi?A chi, se non ai giovani?
Ma non poniamo la questione troppo in alto! Facciamo attenzione alle
tracce, ai segnali di una durevole empatia, di una intrepida disponibilità a
non scansare il dolore degli altri; facciamo attenzione agli intrecci e ai
basilari progetti di compassione, che si sottraggono allÂ’attuale corrente di
una perbenistica indifferenza e di una curata apatia e che si rifiutano di
vivere felicità e amore come teatralizzazione narcisistica di se stessi. Forse
ciò che Friedrich Nietzsche così intensamente disprezzava nel cristianesimo,
è proprio ciò che i cristiani oggi – in considerazione del nostro mondo
pluralistico – avrebbero da testimoniare per prima cosa: compassione, passione
per chi soffre come espressione della loro passione per Dio.
(trad.
di Francesco Muscato)
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