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Jon Sobrino: REDENZIONE DELLA GLOBALIZZAZIONE. LE VITTIME

tratto da "Concilium"

REDENZIONE DELLA GLOBALIZZAZIONE.

 LE VITTIME
di Jon Sobrino
 

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Questo testo è tratto da Concilium  la rivista internazionale di teologia (numero di novembre-dicembre) che ha come tema:"La globalizzazione e le sue vittime" - edita dalla Queriniana

(via Ferri, 75 - 25123 Brescia, tel. 030/23069, e-mail: redazione@queriniana.it)

 

   
La globalizzazione, nella sua realtà concreta, sta introducendo nel nostro mondo gravi mali e pertanto ha bisogno di redenzione. Compiere questa redenzione è essenzialmente missione delle vittime. Questa tesi che - seguendo la lezione di Ellacuría - formuliamo a partire dalla fede cristiana, con un linguaggio volutamente provocatorio, profetico e utopico, è quanto vogliamo sviluppare in quest'articolo.
I - Una globalizzazione che abbisogna di redenzione
Il termine "globalizzazione" copre realtà ampie e diverse. Può far riferimento all'universalizzazione del mercato, all'intercomunicazione istantanea nel pianeta, alla omogeneizzazione di contesti culturali, alla speranza di una nuova oikuméne umana. Il termine è quindi complesso e ambiguo, e lo è ancor di più se si ricorda che la comprensione della realtà come globale viene da lontano. Il 1492 (America) "rese rotondo" per la prima volta il pianeta. Il 1945 (Hiroshima) ha globalizzato la responsabilità nei confronti di un pianeta che cominciava a essere in pericolo "interamente".
Pur essendo il termine ambiguo, i difensori della globalizzazione, soprattutto a livello economico, circondano questa con un'aureola univoca e splendida. La presentano come "salvezza", èu-anghélion, e nel suo "stadio definitivo" - questo significa - l'avvento del fine della storia". La metafora introduce elementi densi di speranza: l'inclusione, infatti nel mondo-globo c'è posto per tutti, e un centro dotato di potere per generare bontà. Suggerisce perfezione rinascimentale, la rotondità, e perfino equità: l'equidistanza tra tutti i punti della superficie del globo e il suo centro. Come nella liturgia dell'Avvento, si canta - in modo secolarizzato ma non meno efficace - "rallegrati, Gerusalemme, la tua salvezza è vicina".
I fatti tuttavia smentiscono questo ottimismo - anche se sono nate, senza dubbio, realtà utili e si intravede una tendenza alla mentalità globalizzante, prima inesistente, cosa che è positiva. Però continua a essere vero che, contro la sua "essenza ideale", ciò che è aumentato - e si è "globalizzato" - non sono gli "inclusi", ma gli "esclusi", non l'omogeneizzazione dell'umano, ma la proliferazione della volgarità, non l'abbraccio familiare planetario, ma l'abisso crudele fra i popoli. Da qui sorge la domanda fondamentale: Mondializzazione o conquista? (Cristianisme i justícia, Barcelona 1999), le manifestazioni antiglobalizzazione: "Un altro mondo è possibile", e la riflessione di J. Moltmann che rivisita - con ottica sapienziale - secoli del progresso dell'Occidente: "I campi di cadaveri della storia, che abbiamo visto, ci proibiscono [...] qualunque ideologia del progresso e qualunque piacere per la globalizzazione. [...] Se le conquiste della scienza e della tecnica possono essere impiegate per l'annichilimento dell'umanità (e se possono, un giorno lo saranno), risulta difficile entusiasmarsi con Internet o con la tecnologia genetica".

II - Il principio di redenzione/salvezza: le vittime
Questa globalizzazione abbisogna di redenzione. Hans Küng propende per un'etica globale e Giovanni Paolo II chiede che la globalizzazione - realtà umana aperta - si lasci guidare dalla dottrina sociale della Chiesa, perché altrimenti può diventare una "nuova versione del colonialismo". Queste iniziative sono benvenute ma non sembrano bastare se non le si storicizza un minimo. È quanto vogliamo fare subito: offrire un "principio di redenzione/salvezza" che generi un dinamismo capace di superare i mali della globalizzazione (redenzione) e generare beni (salvezza). E insistiamo sul momento della "redenzione" per non accontentarci di riconoscere i "limiti" e le "ambiguità" della globalizzazione e ignorare che si tratta anche di un peccato che va sradicato. Cominciamo.
La tradizione biblico-cristiana è esperta sul tema della redenzione/salvezza e sui dinamismi che entrambe le cose generano. La salvezza comporta promessa e, correlativamente, speranza, ma la sua specificità è che nasce dalla fragilità e dalla piccolezza: un'anziana sterile, il piccolo popolo di Israele, la piccola Betlemme, un ebreo marginale... La fragilità e la piccolezza stanno al centro del dinamismo della salvezza. Essi ne sono i portatori, non solo i beneficiari. L'utopia è in consonanza con la loro speranza e non con quella dei potenti. E la loro piccolezza manifesta il momento essenziale di gratuità della salvezza, non della hybris.
Questa tradizione del piccolo come portatore di salvezza attraversa la Scrittura, ma c'è di più. Nell'Antico Testamento appare la misteriosa figura del servo sofferente di Jahweh che non è solo "povero", "piccolo", ma anche "vittima". Orbene, questo servo è l'eletto di Dio per togliere il peccato del mondo e portare salvezza. Allo scandalo del piccolo si aggiunge ora la follia della vittima. "Solo in un difficile atto di fede" - commentava Ellacuría - "il cantore del servo è capace di scoprire ciò che appare come tutto il contrario agli occhi della storia".
Vogliamo ora incentrare la nostra attenzione su questo servo. Diciamo subito che le vittime della globalizzazione possono essere, cristianamente e paradossalmente, il suo principio di redenzione, e se esse non riceveranno una fondamentale considerazione essa non diventerà mai una globalizzazione umana. Ciò costituisce, riteniamo, una novità teologica di profonda portata; infatti, il servo di Jahweh non è stato storicizzato come realtà attuale, collettiva e storica, e ancor meno è stata storicizzata la salvezza che oggi porta al mondo.
Questa duplice storicizzazione è invece avvenuta tra noi. Ellacuría insisteva sul fatto che, anche se non si può stabilire con totale precisione chi oggi rende presente il servo sofferente, "il Primo mondo non è su questa linea mentre lo è il Terzo mondo; non lo sono le classi ricche e vessatrici, mentre lo sono le classi oppresse". Nel nostro linguaggio, il servo sono oggi i "popoli crocifissi", che caricano sulle proprie spalle il peccato di questo mondo, oggi il peccato della globalizzazione. Mons. Romero, con un linguaggio pastorale, diceva alle contadine e ai contadini di Aguilares, popolo massacrato: "Voi siete il divino violato" (Omelia, 19 giugno 1977). Il servo è ad un tempo Cristo liberatore e il popolo sofferente (cfr. Omelia, 21 ottobre 1979).
Queste "vittime di oggi" portano salvezza, e anche salvezza storica. Il servo di Isaia è stato utilizzato nella soteriologia classica, ma la storicizzazione della salvezza del servo non è sorta nel mondo dell'abbondanza ma nel Terzo mondo - ecco perché "il luogo (la realtà storica concreta) fa che la fonte della rivelazione (la Scrittura) dia di sé una cosa o l'altra". Giovanni Paolo II ha avuto l'audacia di dire in Canada nel settembre del 1985 che nel giorno del giudizio i popoli poveri giudicheranno quelli che li opprimono, ma nel Terzo mondo andiamo oltre: ora i popoli crocifissi offrono loro salvezza.
Un esempio dell'Asia. I poveri, non perché siano santi ma perché sono coloro che non hanno potere, i negletti, sono scelti per una missione, "sono convocati per essere mediatori della salvezza dei ricchi e i deboli sono chiamati a liberare i forti" (A. Pieris). Un esempio dell'Africa (interecclesiale, ma che rivela la stessa intuizione): "La Chiesa dell'Africa, in quanto africana, ha una missione per la Chiesa universale. La Chiesa dell'Africa è il cuore violato di Cristo in questo corpo lacerato della Chiesa universale. [ ... ] Mediante la sua povertà e umiltà deve ricordare a tutte le Chiese sorelle l'essenziale delle beatitudini e annunciare la buona novella della liberazione a coloro che sono succubi della tentazione del potere, delle ricchezze e del dominio" (p. Mveng). La teologia non è solita parlare in questo modo, neppure quella progressista; essa, preoccupata da cose necessarie, per fornire risposte fa ricorso alla ragione cristiana "democratica", ma non so se del pari si lascia guidare dalla ragione cristiana "della croce storica"
Chi è Jon Sobrino
Sobrino è un teologo gesuita  sopravvissuto - perché si trovava in Thailandia - al massacro della Uca (Università centroamericana dei gesuiti a San Salvador), avvenuto il 16 novembre del 1989. Furono assassinati, quel giorno, il rettore Ignacio Ellacuría, spagnolo, uno dei più grandi teologi della liberazione, i suoi confratellii Segundo Montes, Ignacio Martín Baró, Amando López, Juan Ramón Moreno, spagnoli, e Joaquín López-López, salvadoregno. Insieme a loro morirono, perché non restassero testimoni, la cuoca Julia Elba Ramos e sua figlia Celina.
Per approfondire:
- Intervista a Sobrino tratta da Jesus
- Lettera di Sobrino ad Ellacurìa
 
Altri link suggeriti:
Amo la chiesa che ama i poveri (intervista al teologo Gustavo Gutiérrez, tratta da Jesus)
La voce degli esclusi (intervista al teologo Clodovis Boff, tratta da Jesus)
  Teologia della liberazione, latino americana, nera (tratto da Nigrizia)
  Puebla: la scelta preferenziale per "gli altri" articolo di Segundo Galilea
  Testi di riflessione sulle CEBs, le comunità ecclesiali di base con riflessioni di Casaldaliga, Comblin, Balduino,
 
Informazioni sul Salvador:

Il Salvador è stato tormentato da guerre interne sin da quando ha ottenuto l’indipendenza dalla Spagna, nel 1821. Il Paese ha una superficie di 21.041 chilometri quadrati, con una popolazione di circa sei milioni di abitanti, per lo più cattolici. La minoranza creola mantiene un ruolo socio-economico dominante sulla maggioranza meticcia.

Il 31 dicembre 1991, per iniziativa dell’Onu, a Città del Messico vengono firmati gli accordi di pace tra la guerriglia e l’esercito. Dopo dodici anni termina la guerra civile che ha provocato 7 mila desaparecidos, un milione di profughi e 76 mila morti, tra i quali centinaia di donne e uomini di Chiesa, come padre Ellacuría (nella foto, mentre celebra messa), ucciso dai militari nel 1989.
Il terremoto che ha colpito il Salvador il 13 gennaio ha provocato 701 morti, 3.883 feriti e 54 mila senzatetto.

 

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 Oscar Romero vescovo del salvador ucciso nel 1980

 

III - Le vittime e la redenzione/salvezza della globalizzazione
La conclusione di quanto affermato è paradossale: secondo la tradizione biblica le vittime della globalizzazione possiedono un potenziale e un dinamismo opposti a quelli della globalizzazione, che le trasformano in principio di redenzione e di salvezza. Vediamo il contributo delle vittime alla globalizzazione - o a ciò che la globalizzazione idealmente pretenderebbe - in tre punti fondamentali: la verità, la solidarietà e la civilizzazione della povertà. Li esamineremo cercando di mostrare da quale peccato "redimono" la globalizzazione e cosa "salvano" delle sue intenzioni ideali.

1 - La verità. Le vittime convocano alla verità
Nella globalizzazione si dà per scontato che chi convoca - riunisce, "globalizza" - salvificamente è il Potere, soprattutto quello economico. A questo centro convocatore la Scrittura ne oppone un altro, molto diverso e contrario: convocano le vittime. Nella teologia di Giovanni è il crocifisso che attrae tutto (cfr. Gv 12,32; 19,37).
E la stessa cosa accade, a volte, nella storia. Anni addietro il Salvador non esisteva per il mondo. Si cominciò a conoscerlo nel 1977 quando un sacerdote, Rutilio Grande, venne assassinato. Il mondo occidentale, democratico e cristiano, rimase sorpreso e alcuni rimasero scossi. Ma ciò che è più importante è che questo assassinio portò alla conoscenza di una verità ignorata: anche contadini, operai, studenti, catechisti e delegati della parola, venivano perseguitati, torturati, assassinati in massa. E si giunse alla verità fondamentale: il Salvador è un popolo crocifisso. Il clamore della repressione e della croce ruppe il silenzio della povertà e dell'ingiustizia secolari. E gli occhi di molti si posarono sul Salvador.
Il servo sofferente quindi attrae anche oggi e si trasforma in "luce delle nazioni" (Is 42,6; 49,6). Dalle vittime di oggi - a causa della loro stessa realtà crocifissa - proviene una luce che denuncia e smaschera la menzogna della globalizzazione. In questo contesto va ricordato, come dice Luis de Sebastián, che "la globalizzazione è lo stato attuale dell'economia mondiale... [che] ha prodotto vincenti e perdenti, trionfatori e vittime". Circa le vittime è sufficiente menzionare un dato che è divenuto emblematico: due miliardi di esseri umani vivono con due dollari al giorno, e la metà di essi con meno di un dollaro - ciò che Casaldáliga chiama "la macroblasfemia del nostro tempo". Di fronte a ciò non c'è oscurità possibile, ecco perché la strategia della globalizzazione reale cerca di occultare, coprire, mimetizzare, e ciò può avvenire, certamente, usando mezzi di comunicazione "globalizzati".
Accettare questa verità, non opprimerla con l'ingiustizia - grave pericolo di ogni essere umano contro cui ci ammonisce Paolo (Rm 1,18) - è il primo passo. E allora le vittime possono muovere alla conversione. Il termine è insolito nel linguaggio delle analisi economiche, ma è insostituibile se si vuole una globalizzazione umana. Lo stesso Wolfenson, ex presidente della Banca Mondiale, dovette ammettere nella Repubblica ceca nel settembre del 2000: "Gli aiuti dell'Occi-dente al Terzo mondo non hanno fatto altro che diminuire e credo che questo sia un crimine". Se c'è un crimine ci deve essere anche pentimento e dolore. E questo dolore, quando è reale, è un primo passo, minimo ma necessario, per cogliere l'immenso oltraggio comparativo del nostro mondo, Epulone e Lazzaro (Lc 16,19ss.), e per sentire vergogna di fronte a un mondo impudico, violato nella sua più profonda dignità.
Una globalizzazione senza verità, ancor peggio contro la verità, non umanizza e inoltre non può "globalizzare", ma "escludere". Mentire e celare negano la realtà stessa delle cose. E così "l'Africa non esiste": è stata esclusa dalla realtà dalla contro-globalizzazione del silenzio. Producono anche disgregazione e antagonismo, e così Cuba non può essere un popolo aperto ad altri: è bloccato dalla contro-globalizzazione della menzogna. La menzogna e il celare non favoriscono per nulla l'universalizzazione dell'umano.
Invece, porre al centro del "globo" la sofferenza delle vittime porta alla verità e alla universalizzazione. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la canonizzazione del sacrificio ma con la pretesa-invito a rispondere umanamente dinanzi alle vittime, con misericordia e giustizia. E ciò certamente possiede un dinamismo inglobante e includente di tutto e di tutti coloro per i quali l'umano si decide nel più profondo delle viscere, nella misericordia.
Concluderemo questa sezione con due brevi riflessioni. Parlando delle vittime abbiamo cominciato con la negatività, espressa dalla sofferenza, e lo abbiamo fatto perché è la realtà più reale (in un altro momento bisognerà analizzare se il cristianesimo, almeno il messaggio di Gesù, non vada indirizzato direttamente al "sofferente" prima che al "peccatore"). Questa sofferenza è massiccia, ingiusta e crudele, si nutre di gente innocente e indifesa ed è prodotto del mondo del potere (economico, militare, politico, dei mezzi di comunicazione, a volte delle Chiese e delle Università). È il mysterium iniquitatis.
Ma non si può nascondere la negatività espressa dalla perversità, a volte terrificante. Si ha nel mondo dell'abbondanza e dell'oppressore e si ha pure talora nel mondo delle vittime che assimilano i propri carnefici. Così lo spiega il vescovo Sikuli di Butembo, Congo: "Quando nel mondo non si ha nessuno, né padre, né madre, né sorella, e si è ancora un bambino, in un Paese rovinato e barbaro, in cui tutti si ammazzano, cosa si può fare? Si comincia a essere bambino soldato per mangiare e uccidere: questo è quanto ci rimane". Nessuna ingenuità quindi. Anche tra le vittime si fa presente il mysterium iniquitatis. Ma c'è qualcosa nel mistero di questi bambini-soldato che - come il servo, analogamente se si vuole - continua a rinviare, misteriosamente, a Cristo crocifisso, e continua a convocare.
E una seconda riflessione. Abbiamo detto che le vittime sono oggi il servo di Jahweh, ma altri trovano la sua presenza in posti molto diversi. Sono diventate classiche le seguenti parole di un teologo del capitalismo: "Per molti anni uno dei miei testi preferiti della Scrittura è stato Is 53,2-3: "Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia". Vorrei applicare queste parole alla business corporation, all'impresa di affari moderna, un'incarnazione della presenza di Dio in questo mondo enormemente disprezzata" (M. Novak).

2 - La solidarietà. Le vittime inducono a "sostenersi vicendevolmente"
Nella tradizione cristiana il simbolo di una globalizzazione "di qualità" è la mensa condivisa tra tutti e con i diversi, come quella di Gesù. Questa era l'utopia di Rutilio Grande: "Un'unica mensa grande, con larghe tovaglie per tutti". È la mensa che rende uguali gli ineguali, quella che costruisce la famiglia umana.
Negli ultimi quarant'anni il mondo non è andato in questa direzione, ma in quella opposta. Secondo le relazioni del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo il rapporto tra ricchi e poveri era di 1 a 30 nel 1960, di 1 a 60 nel 1990, di 1 a 74 nel 1997. Questo significa che la "specie" potrà vivere o vivere male, ma significa soprattutto che il pianeta non sta pensando all'esistenza della "famiglia umana". Neppure la globalizzazione pensa in questi termini. Come diventare un'unica "famiglia" umana, in un pianeta in cui alcune piccole minoranze danno la vita per scontata mentre le grandi maggioranze ciò che non danno per scontata è la vita, è l'interrogativo fondamentale a cui la globalizzazione deve dare risposta. La risposta è la "solidarietà" - e qui compaiono ancora una volta le vittime.
Con la parola solidarietà si esprime normalmente appoggio, vicinanza, difesa del debole, e tutto questo - sempre più - nella sua dimensione di massa e popolare. "La solidarietà è la tenerezza dei popoli", afferma con una bella espressione Casaldáliga. Ma per comprenderla in relazione alla globalizzazione sarà bene esaminarla anche concettualmente. Analizziamo la sua specificità con un esempio che si è ripetuto varie volte tra noi.
Abbiamo detto che gli occhi di molti si sono posati sul Salvador crocifisso e ciò ha dato la stura a un nuovo e potente dinamismo: conoscere, lasciarsi coinvolgere, aiutare, impegnarsi. Si cominciò a pensare l'aiuto in modo diverso: non si trattava più solo di dare aiuto materiale ma della dedizione della persona; e non solo di dedizione temporanea ma duratura. E allora accadde la novità fondamentale in termini di globalizzazione: non si trattava solo di dare dal di fuori, ma pure di ricevere. Si trattava di "sostenersi vicendevolmente" tra i diseguali. Era nata la solidarietà.
Rispetto alla globalizzazione questa solidarietà è, innanzitutto, la sua critica. Per quanto non sia poco - ammesso che la globalizzazione vi riesca - non si tratta semplicemente che "tutti entrino" nel globo, ma di "sostenersi vicendevolmente" tra i diseguali, ognuno dando e ricevendo il meglio che ha, a tutti i livelli: economici, culturali, di conoscenze, e fede... Allora il "globo" non è più una metafora adeguata, perché puramente spaziale e materiale. Mentre lo è la "famiglia" - che "il mondo diventi una casa per tutti" - affermava E. Bloch - dove c'è vicinanza invece che distanza (sebbene dal punto di vista del mercato questa può essere utilizzabile dall'industria del turismo), stima (invece del disprezzo che si suole mantenere verso coloro che sono entrati senza essere chiamati), gioia (invece della paura che coloro che entrano invadano tutto).
Cos'è che genera il dinamismo di questa solidarietà, di questo modo d'essere e stare nella vita, così diverso e opposto rispetto a quello proposto dalla globalizzazione? Le vittime, entrare in rapporto con esse, cercare di aiutarle e scoprirsi aiutati da esse. Le vittime possono trasformare "un globo" in "una famiglia", "un gigantesco supermercato" in "una casa".
E possono introdurre qualcosa che praticamente è assente nell'attuale cultura con gravissimi danni per l'essere umano: la grazia. Se il lettore si domanda perché menzionare la grazia in questi momenti, temo assai che non ha capito né Gesù di Nazaret, né l'essere umano, che tale diventa non solo costruendosi da sé ma pure lasciandosi costruire dagli altri. È la realtà e l'esperienza del dono.
È esperienza ripetuta che volontari e volontarie, venuti dal di fuori ad aiutare in ricoveri e villaggi, confessano con gratitudine che, quando meno se lo attendevano, senza, per così dire, meritarlo, hanno ricevuto più di quanto hanno dato e hanno ricevuto qualcosa di un ordine superiore a quello di cui erano inizialmente portatori. Hanno ricevuto accoglienza, affetto, speranza, fede, realtà di cui si costituisce il tessuto umano e con le quali si può costruire una famiglia. Globalizzare umanamente non significa solo che possano "entrare tutti" - che non sarebbe poca cosa - ma pure "essere tutti", ognuno quello che è, con la gioia di sostenersi vicendevolmente.

3 - La civilizzazione della povertà. Le vittime capovolgono il presupposto fondamentale
Se quanto detto è vero, è allora necessario nella globalizzazione un cambiamento radicale e non solo un "più" quantitativo. Così affermava Casaldáliga in una "preghiera a san Francesco in forma di sfogo":

Compare Francesco,
il mondo è così vecchio,
che bisognerà farne un altro
per vederlo nuovo.

E Ellacuría lo ha teorizzato. Con realismo e pragmatismo, da una parte, con profetismo e utopia dall'altra, ha insistito sul fatto che ciò che c'era da fare era "capovolgere la storia"; nei termini di quest'articolo, "capovolgere il dinamismo dell'attuale globalizzazione". Per questo parlava della necessità di qualcosa di radicalmente nuovo: una "civilizzazione del lavoro" e, ancora più innovativamente, una "civilizzazione della povertà". Su questa affermava programmaticamente:

"Una civilizzazione [...] in cui la povertà non sarebbe più la privazione del necessario e del fondamentale dovuta all'azione storica di gruppi o classi sociali e di nazioni o insieme di nazioni, ma uno stato universale di cose, in cui è garantito il soddisfacimento dei bisogni fondamentali, la libertà delle scelte personali e un ambito di creatività personale e comunitaria che consenta la comparsa di nuove forme di vita e cultura, nuove relazioni con la natura, con gli altri, con se stessi e con Dio".

Questa descrizione è utopistica, ma fondata. 1) La civilizzazione della povertà va intesa in primo luogo in contrapposizione alla civilizzazione della ricchezza, non come impoverimento universale come ideale di vita. 2) La cultura della povertà è inoltre una necessità storica a causa della correlazione universale, risorse-popolazione. 3) D'altronde, la civilizzazione della ricchezza ha fallito come modo di garantire la vita alle maggioranze, infatti il suo ideale di vita non è universalizzabile. E anche se fosse possibile, non è augurabile, infatti ha fallito pure come modo di umanizzare persone e popoli. 4) La conclusione è che in un mondo configurato peccaminosamente dal dinamismo capitale-ricchezza è necessario suscitare un dinamismo diverso che vada salvificamente oltre. Questo dinamismo proviene dal mondo della povertà. E questa povertà è quella che veramente "incivilisce", dà spazio allo spirito

"che non si vedrà più soffocato dall'ansia di avere più dell'altro, dall'ansia concupiscente di avere ogni tipo di cose superflue, mentre alla maggior parte dell'umanità manca il necessario. Potrà allora fiorire lo spirito, l'immensa ricchezza spirituale e umana dei poveri e dei popoli del Terzo mondo, oggi soffocata dalla miseria e dall'imposizione di modelli culturali più sviluppati in alcuni aspetti, ma non per questo più pienamente umani".

Ellacuría argomenta partendo da aspetti diversi: dalla riflessione sulla storia, le sue possibilità, le sue esigenze, e dai piccoli segni di questa civilizzazione della povertà che vedeva nel Terzo mondo. Ma il suo pensiero distintivo è che, per trovare una "nuova" civilizzazione, egli si rifà - e centralmente - a una tradizione biblico-cristiana fondamentale: i poveri, le vittime, il popolo crocifisso.
Da questa tradizione di poveri e povertà - insieme al meglio di altre, naturalmente - si può dare origine a un sapere proveniente dalle vittime e che non cela la realtà; una prassi per deporle dalla croce; un condividere la loro speranza, un sostenersi vicendevolmente e un celebrare - con esse - la vita. Così pensava Ellacuría che si sarebbe potuto " capovolgere la storia". Così, diciamo noi, si può "redimere la globalizzazione".
Quanto è stato scritto in quest'articolo, e soprattutto in quest'ultima sezione, va capito bene. Per "redimere" bisogna cercare alternative storiche, obiettive e, ovviamente, possibili; e già si sta cercando di teorizzare alcune vie di una globalizzazione umana. La nostra inquietudine è diversa: per orientare queste alternative bisogna tenere conto di princìpi che realmente principino una realtà adeguata. Qui ne abbiamo evidenziati tre: la verità che convoca i molti, la solidarietà di sostenersi vicendevolmente tra diseguali, la civilizzazione della povertà che porta con sé umanizzazione; e abbiamo insistito sul fatto che questi princìpi hanno il loro luogo naturale nelle vittime di questo mondo. Tra esse sorgono e da esse ricevono la direzione in cui debbono storicizzarsi e la mistica e la forza per farlo. Le vittime, riteniamo, sono un principio inedito - e utopico - nella storia, ma dal metterlo in moto dipenderà il futuro. Ci sono già piccoli segni che sarà così, e certamente questa è la nostra speranza.
 
 
 
 
   

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