Intervista a Jon Sobrino
Teologia della memoria       
di Vittoria Prisciandaro

 

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 Questa intervista è tratta dalla rivista Jesus del 3 marzo 2001

 

È passato più di un decennio dal massacro dei sei gesuiti dell’Uca, l’Università centroamericana del Salvador: un decennio di disillusioni e, soprattutto, di impunità per i colpevoli. Ciononostante, racconta il noto teologo scampato all’eccidio, la scelta dei poveri non è stata archiviata e la teologia della liberazione è sempre viva.

«Il terremoto ci ha dato la radiografia del Paese. Le baracche sono crollate subito. Le case "belle" hanno resistito meglio. Tutti hanno sofferto, ma la maggior parte delle vittime si è avuta tra la povera gente». Il gesuita Jon Sobrino è uno dei più conosciuti teologi della liberazione in America latina. È nato in Spagna nel maggio del 1938, ma vive in Salvador dal ’57. Conosce bene, quindi, la storia e le occasioni mancate di un Paese che «ogni quindici-venti anni deve fare i conti con la terra che trema, senza che la tragedia serva a prevenire quelle future».

Il terremoto del 13 gennaio ha risparmiato l’Università centroamericana (Uca) dove il religioso lavora. E non ha danneggiato "la stanza della memoria", dove ci si ritrova per studiare. La chiamano così dal 16 novembre 1989, quando i militari dell’esercito salvadoregno fecero irruzione, ammazzando a sangue freddo sei gesuiti, la cuoca e la figlia quindicenne. Cinque dei sei religiosi erano professori. «Nella nostra università, la teologia si studia materialmente nel luogo dove sono stati uccisi padre Ellacuría e gli altri. È la sala della memoria, per dire che la nostra teologia è radicata nei martiri, è ispirata dal Cristo morto e risuscitato».

Padre Sobrino era collega e confratello dei sei uccisi. Anche lui sulla lista nera dei militari, si è salvato dall’eccidio per caso: in quei giorni si trovava in Thailandia per un corso di cristologia. «Certo, finita la rivoluzione è più facile essere profeta», dice oggi Sobrino. «Ai tempi di monsignor Oscar Romero, la fedeltà alla verità e alla scelta dei poveri inaugurata dalla conferenza di Medellín portava al martirio. La memoria dei martiri è un dovere. All’inizio prevale l’orrore, ma una volta superato, si parla dei morti e si fa educazione».


In questi anni i gesuiti hanno chiesto giustizia in tutte le sedi, ma oggi la speranza sembra naufragata definitivamente. Gli esecutori della strage, condannati a 30 anni di carcere e poi liberati in seguito all’amnistia decretata alla fine della guerra civile, possono circolare senza problemi: il 12 dicembre, infatti, il reato è caduto in prescrizione, dal momento che sono trascorsi i dieci anni che la legge prevede per la punibilità degli imputati. È così andata in fumo la denuncia che il 27 marzo 2000 il rettore dell’Uca, padre José Maria Tojeira, aveva presentato «contro gli autori intellettuali dell’eccidio, sei ufficiali delle Forze armate oggi a riposo, e per favoreggiamento contro Alfredo Cristiani, ex capo dello Stato, attualmente presidente dell’Arena, il partito di estrema destra dell’attuale presidente del Salvador».

Ma, oltre alla tragedia del terremoto, qual è la situazione oggi in Salvador? Quale l’eredità dei martiri? Padre Sobrino risponde che «dopo gli accordi di pace del ’92 la situazione non è migliorata nelle cose importanti: la povertà, la violenza, i furti, la corruzione sono ancora un problema. C’è disillusione, ed è grave, perché quando un popolo perde la speranza perde la capacità di lavorare, di organizzarsi».

  • Quali sono stati gli eventi che in America latina hanno dato un nuovo volto alla Chiesa?

«In Salvador, come in altri Paesi dell’America latina, dopo la conferenza di Medellín è nata una Chiesa nuova: nasceva dal Concilio ed era ispirata dalla realtà salvadoregna, che è fondamentalmente una realtà di povertà. Sono stati i poveri a cambiare la Chiesa, perché la buona notizia del Vangelo era anche una denuncia molto forte per gli oppressori, per l’oligarchia e il Governo, per i militari e per gli Stati Uniti. È stata la consapevolezza del Vangelo che ha reso più presente il popolo di Dio, al quale si sono uniti religiosi e sacerdoti. Monsignor Romero diceva: "Il popolo è stato il mio profeta". La cosa fondamentale è stato l’aver compreso che Dio sta nella realtà e nei poveri di questo mondo. La Chiesa ha scelto di essere come Gesù di Nazareth, che ha sopportato il suo destino, simile a quello degli ultimi di tutto il mondo».

  • Cosa è cambiato in questi anni?

«Non si può vivere in una situazione eccezionale per tanto tempo. È cambiata l’aria, ci sono stati alcuni interventi del Vaticano e le nomine di nuovi vescovi che hanno portato la Chiesa a evitare il conflitto con i Governi e a promuovere molti movimenti di tipo carismatico e spiritualista. Si tratta di realtà ecclesiali che hanno successo soprattutto tra i poveri, i quali cercano rifugio e sicurezze. Tutto ciò ha procurato un’enorme perdita all’America latina: qui c’è sempre stata una Chiesa popolare, fatta da poveri uniti nelle comunità di base. Oggi la grande battaglia per la speranza rischia di essere disincarnata, perché questi movimenti separano la realtà storica dalla vita eterna. Noi, invece, crediamo in una speranza che parte dai nostri martiri: gente buona, che non ha vinto né Oscar né Nobel, che non ha partecipato a trasmissioni televisive o alla Coppa del mondo, ma ha opposto alla crudeltà l’amore, all’indifferenza la compromissione, alla globalizzazione la parzialità... Come Chiesa che si rifà al martirio di Gesù di Nazareth, è questo ciò che vogliamo comunicare».

  • Cosa significa mettere in comunicazione Vangelo e Università?

«Il Salvador ha sopportato anni di repressione e guerra. I responsabili delle violenze sono gli squadroni della morte, con l’appoggio del Governo e degli Usa, e in misura minore la guerriglia. Il lavoro di Ellacuría è stato molto importante. Fu chiamato "comunista", sospettato perché faceva teologia della liberazione, ma fu un uomo che lavorò per la giustizia e per la pace in tempo di guerra. Per questo lo hanno ammazzato. La strage dell’89 è stata il culmine di anni di persecuzioni. Il 6 gennaio del 1976 misero la prima bomba. L’Uca è una realtà significativa della nazione, si è imposta con pubblicazioni e riconoscimenti, ma spesso sono venuti da noi a cercare armi. Padre Ellacuría non voleva convertire l’Università in un partito politico, né in una Ong: il nostro compito, diceva, è conoscere la realtà per cambiarla. Offriamo al Paese oggettività, dati, abbiamo un istituto di diritti umani, uno di studi economici... La linea resta la stessa: ripensare il problema dei poveri e dare un apporto concreto per cambiarlo».

 

  • Quale continuità per la teologia della liberazione?

«Parlo di teologia della liberazione solo quando sono all’estero. In Salvador parliamo di Dio, di Gesù Cristo, di poveri e peccato, di grazia. Qual è la condizione della teologia della liberazione oggi? In America latina c’è stato un momento di splendore con Gutierrez, Boff, padre Ellacuría. Oggi un gruppo così non c’è più, ma ciò non significa che non ci sia più la teologia della liberazione, perché questa ha impregnato i modi di essere e di pensare la Chiesa. Il documento che hanno scritto i vescovi americani sull’economia e gli armamenti non sarebbe stato così senza la teologia della liberazione, e lo stesso dicasi per alcuni discorsi di Giovanni Paolo II. Dovunque si adotta la prospettiva della vittima e del povero è presente la teologia della liberazione. È come una ruota con diversi raggi: un raggio mira a che gli indigeni siano coscienti della loro oppressione, ed è la cosiddetta teologia indigena; un altro guarda al mondo africano, un altro alla donna... Sono tutte forme di teologia della liberazione».

  • Qual è oggi il contributo più importante dato dalla teologia della liberazione?

«È il pensare la fede in Dio e in questo mondo di peccato a partire da questa storia. Non può essere una fede intellettuale a cambiare le cose, ma la comprensione di un amore, perché c’è una parzialità in Dio. Paolo dice che Dio perdona il peccatore per grazia: la teologia della liberazione ama il povero per il fatto stesso che è un povero. Non è solo una cosa etica o spirituale o di dottrina sociale, ma è un problema teologale. Insomma, non si tratta di appoggiare Gutierrez, ma di pensare una teologia per i poveri di questo mondo, per i marocchini e gli africani e gli asiatici che vengono in Europa. I poveri di questo mondo chiedono ai teologi di lavorare seriamente per loro. È la domanda di Dio».

Vittoria Prisciandaro