«Il terremoto ci ha dato la
radiografia del Paese. Le baracche sono crollate subito. Le case "belle"
hanno resistito meglio. Tutti hanno sofferto, ma la maggior parte delle
vittime si è avuta tra la povera gente». Il gesuita Jon Sobrino è uno dei
più conosciuti teologi della liberazione in America latina. È nato in Spagna
nel maggio del 1938, ma vive in Salvador dal 57. Conosce bene, quindi, la
storia e le occasioni mancate di un Paese che «ogni quindici-venti anni deve
fare i conti con la terra che trema, senza che la tragedia serva a prevenire
quelle future».
Il terremoto del 13 gennaio ha risparmiato lUniversità
centroamericana (Uca) dove il religioso lavora. E non ha danneggiato "la
stanza della memoria", dove ci si ritrova per studiare. La chiamano così dal
16 novembre 1989, quando i militari dellesercito salvadoregno fecero
irruzione, ammazzando a sangue freddo sei gesuiti, la cuoca e la figlia
quindicenne. Cinque dei sei religiosi erano professori. «Nella nostra
università, la teologia si studia materialmente nel luogo dove sono stati
uccisi padre Ellacuría e gli altri. È la sala della memoria, per dire che la
nostra teologia è radicata nei martiri, è ispirata dal Cristo morto e
risuscitato».
Padre Sobrino era collega e confratello dei sei uccisi.
Anche lui sulla lista nera dei militari, si è salvato dalleccidio per caso:
in quei giorni si trovava in Thailandia per un corso di cristologia. «Certo,
finita la rivoluzione è più facile essere profeta», dice oggi Sobrino. «Ai
tempi di monsignor Oscar Romero, la fedeltà alla verità e alla scelta dei
poveri inaugurata dalla conferenza di Medellín portava al martirio. La
memoria dei martiri è un dovere. Allinizio prevale lorrore, ma una volta
superato, si parla dei morti e si fa educazione».
In questi anni i gesuiti hanno chiesto giustizia in tutte le
sedi, ma oggi la speranza sembra naufragata definitivamente. Gli esecutori
della strage, condannati a 30 anni di carcere e poi liberati in seguito
allamnistia decretata alla fine della guerra civile, possono circolare
senza problemi: il 12 dicembre, infatti, il reato è caduto in prescrizione,
dal momento che sono trascorsi i dieci anni che la legge prevede per la
punibilità degli imputati. È così andata in fumo la denuncia che il 27 marzo
2000 il rettore dellUca, padre José Maria Tojeira, aveva presentato «contro
gli autori intellettuali delleccidio, sei ufficiali delle Forze armate oggi
a riposo, e per favoreggiamento contro Alfredo Cristiani, ex capo dello
Stato, attualmente presidente dellArena, il partito di estrema
destra dellattuale presidente del Salvador».
Ma, oltre alla tragedia del terremoto, qual è la
situazione oggi in Salvador? Quale leredità dei martiri? Padre Sobrino
risponde che «dopo gli accordi di pace del 92 la situazione non è
migliorata nelle cose importanti: la povertà, la violenza, i furti, la
corruzione sono ancora un problema. Cè disillusione, ed è grave, perché
quando un popolo perde la speranza perde la capacità di lavorare, di
organizzarsi».
- Quali sono stati gli eventi che in America latina hanno
dato un nuovo volto alla Chiesa?
«In Salvador, come in altri Paesi dellAmerica latina,
dopo la conferenza di Medellín è nata una Chiesa nuova: nasceva dal Concilio
ed era ispirata dalla realtà salvadoregna, che è fondamentalmente una realtà
di povertà. Sono stati i poveri a cambiare la Chiesa, perché la buona
notizia del Vangelo era anche una denuncia molto forte per gli oppressori,
per loligarchia e il Governo, per i militari e per gli Stati Uniti. È stata
la consapevolezza del Vangelo che ha reso più presente il popolo di Dio, al
quale si sono uniti religiosi e sacerdoti. Monsignor Romero diceva: "Il
popolo è stato il mio profeta". La cosa fondamentale è stato laver compreso
che Dio sta nella realtà e nei poveri di questo mondo. La Chiesa ha scelto
di essere come Gesù di Nazareth, che ha sopportato il suo destino, simile a
quello degli ultimi di tutto il mondo».
- Cosa è cambiato in questi anni?
«Non si può vivere in una situazione eccezionale per tanto
tempo. È cambiata laria, ci sono stati alcuni interventi del Vaticano e le
nomine di nuovi vescovi che hanno portato la Chiesa a evitare il conflitto
con i Governi e a promuovere molti movimenti di tipo carismatico e
spiritualista. Si tratta di realtà ecclesiali che hanno successo soprattutto
tra i poveri, i quali cercano rifugio e sicurezze. Tutto ciò ha procurato
unenorme perdita allAmerica latina: qui cè sempre stata una Chiesa
popolare, fatta da poveri uniti nelle comunità di base. Oggi la grande
battaglia per la speranza rischia di essere disincarnata, perché questi
movimenti separano la realtà storica dalla vita eterna. Noi, invece,
crediamo in una speranza che parte dai nostri martiri: gente buona, che non
ha vinto né Oscar né Nobel, che non ha partecipato a trasmissioni televisive
o alla Coppa del mondo, ma ha opposto alla crudeltà lamore,
allindifferenza la compromissione, alla globalizzazione la parzialità...
Come Chiesa che si rifà al martirio di Gesù di Nazareth, è questo ciò che
vogliamo comunicare».
- Cosa significa mettere in comunicazione Vangelo e
Università?
«Il Salvador ha sopportato anni di repressione e guerra. I
responsabili delle violenze sono gli squadroni della morte, con lappoggio
del Governo e degli Usa, e in misura minore la guerriglia. Il lavoro di
Ellacuría è stato molto importante. Fu chiamato "comunista", sospettato
perché faceva teologia della liberazione, ma fu un uomo che lavorò per la
giustizia e per la pace in tempo di guerra. Per questo lo hanno ammazzato.
La strage dell89 è stata il culmine di anni di persecuzioni. Il 6 gennaio
del 1976 misero la prima bomba. LUca è una realtà significativa della
nazione, si è imposta con pubblicazioni e riconoscimenti, ma spesso sono
venuti da noi a cercare armi. Padre Ellacuría non voleva convertire
lUniversità in un partito politico, né in una Ong: il nostro compito,
diceva, è conoscere la realtà per cambiarla. Offriamo al Paese oggettività,
dati, abbiamo un istituto di diritti umani, uno di studi economici... La
linea resta la stessa: ripensare il problema dei poveri e dare un apporto
concreto per cambiarlo».
- Quale continuità per la teologia della liberazione?
«Parlo di teologia della liberazione solo quando sono
allestero. In Salvador parliamo di Dio, di Gesù Cristo, di poveri e
peccato, di grazia. Qual è la condizione della teologia della liberazione
oggi? In America latina cè stato un momento di splendore con Gutierrez,
Boff, padre Ellacuría. Oggi un gruppo così non cè più, ma ciò non significa
che non ci sia più la teologia della liberazione, perché questa ha
impregnato i modi di essere e di pensare la Chiesa. Il documento che hanno
scritto i vescovi americani sulleconomia e gli armamenti non sarebbe stato
così senza la teologia della liberazione, e lo stesso dicasi per alcuni
discorsi di Giovanni Paolo II. Dovunque si adotta la prospettiva della
vittima e del povero è presente la teologia della liberazione. È come una
ruota con diversi raggi: un raggio mira a che gli indigeni siano coscienti
della loro oppressione, ed è la cosiddetta teologia indigena; un altro
guarda al mondo africano, un altro alla donna... Sono tutte forme di
teologia della liberazione».
- Qual è oggi il contributo più importante dato dalla
teologia della liberazione?
«È il pensare la fede in Dio e in questo mondo di peccato
a partire da questa storia. Non può essere una fede intellettuale a cambiare
le cose, ma la comprensione di un amore, perché cè una parzialità in Dio.
Paolo dice che Dio perdona il peccatore per grazia: la teologia della
liberazione ama il povero per il fatto stesso che è un povero. Non è solo
una cosa etica o spirituale o di dottrina sociale, ma è un problema
teologale. Insomma, non si tratta di appoggiare Gutierrez, ma di pensare una
teologia per i poveri di questo mondo, per i marocchini e gli africani e gli
asiatici che vengono in Europa. I poveri di questo mondo chiedono ai teologi
di lavorare seriamente per loro. È la domanda di Dio».
Vittoria Prisciandaro