Ci eravamo trovati tutti d’accordo sulla scelta del
tema, incontrandoci a Bologna il 9 novembre scorso, per la
periodica assemblea dei responsabili delle nostre riviste. Ed
è significativo!
Forse
troppo convinti d’essere assertori qualificati del valore
evangelico della pace, abbiamo avvertito come, dopo tanti
conflitti, causa di un numero sterminato di morti (marginali
al nostro mondo occidentale e perciò lontani dalla coscienza
comune), il bubbone scoppiato a New York quell’11 settembre
e le controrisposte al terrorismo, non meno violente, ci
costringevano ad affrontare radicalmente la “notte” della
coscienza che ottenebra, in certi momenti, i princìpi
evangelici e ci spinge come naufraghi ad appigliarci a
presunte tavole di salvezza: “la guerra giusta”, ad
esempio, per debellare il terrorismo.
«La
guerra, strumento di difesa, quando vi siano le ragioni
sufficienti per farla». Questo il criterio infiltratosi anche
in mezzo alle più sante convinzioni del mondo cristiano. «Convinti
che non eravamo spinti né da odio, né da paura, ma solo da
un infinito senso di giustizia, attraverso i nostri
rappresentanti politici abbiamo detto sì alla guerra e siamo
diventati ancora
una volta una nazione in guerra». Così Teresina Caffi,
missionaria saveriana, presenta ai convegnisti della FeSMI
l’atmosfera in cui si è rivelato necessario uno
“stacco” dello spirito in mezzo all’incalzare cieco
degli eventi cui ci si adeguava più o meno supinamente. «Ciò
che ci lasciava più pensosi era il fatto di una pluralità di
posizioni nella Chiesa nei confronti di questi eventi.
Pluralità che si
realizzava nei responsabili a vari livelli e nei semplici
fedeli. Si andava da chi la difendeva come legittima
autodifesa, a chi cercava di dire “sì e no” insieme, a
chi diceva decisamente, e in ogni caso, “no”. In
particolare lasciava pensosi il fatto che anche i cristiani
discutessero della cosa in termini di “convenienza” o
“non convenienza”, facendone dei ragionamenti politici e
accettando il principio machiavellico circa il fine e i mezzi.
Molti di noi non si sono resi conto che l’unica domanda
seria da farsi è: “Che cosa ne dice il Vangelo? Che
farebbe Gesù Cristo in questo momento?” A costo di
smarcarci».
Guardandoci “dentro” e fra
noi, ci siamo resi conto allora che di fronte a una scelta
come quella della guerra, che non ammette “sì e no”
insieme, o pavidi “ni”, mentre il mondo missionario in
genere, attraverso la Misna,
esprimeva il “no” alla guerra, per il cumulo di sofferenze
che infligge alle popolazioni inermi, le riviste missionarie
assumevano posizioni con sfumature diverse.
Era arrivato il momento di
chiarirci. Partendo dalla situazione presente, avremmo
studiato la nonviolenza nei suoi aspetti teologici e di
metodo,
-
come via alternativa alla guerra,
-
come sfida per la missione e
-
proposta da condividere (attaverso la stampa) con i nostri
lettori.
Partendo dal presupposto-sfida: no
all’azione bellica, con l’aiuto di esperti e
attraverso momenti di dibattito e di laboratorio, avremmo
cercato di approfondire motivazioni, indicare piste d’azione
e creare mentalità.
Un’esperienza shockante. Per la trentina di
convegnisti presenti è stata un’immersione profonda
nella grande marea della violenza che da secoli insanguina il
mondo (con il consenso e le giustificazioni più assurde
offerte dai partners più incredibili) e, al tempo stesso, è
stata un incontro chiaro e ragionato con l’ideale
perseguibile e le piste della nonviolenza, riscattata dal
rango di favoletta per sognatori in cui viene relegata dai
dominatori dell’opinione pubblica.
È stato soprattutto il Convegno
degli interrogativi inquietanti da cui dovrebbe partire
il risveglio della coscienza per troppo tempo succube delle
“ragioni belliche” o ciecamente consenziente, e la
“conversione” alla nonviolenza attiva da vivere e
comunicare.
Il crescendo di interrogativi va
dai perché di certi silenzi giornalistici, certe
difficoltà redazionali e di impatto sul pubblico, ad altri,
ben più tormentosi, sulle radici e le motivazioni della
violenza nella nostra storia cristiana e missionaria.
La relazione :“La guerra
vista da un giornalista”,‘di Massimo Alberizzi,
inviato del Corriere della Sera, apre un panorama di
“guerre dimenticate”, o piuttosto”volutamente
ignorate” e “messe a tacere” perché non facciano
opinione e non urtino gli sporchi interessi economico-politici
che governano il mondo.
Segue
una raffica di interrogativi “perforanti”, scaturita
provocatoriamente dalla ricerca teologica delle radici della
violenza e della nonviolenza, avviata dal teologo cingalese p.
Tissa Balasuryia, (OMI). «Perché riflettere su una
teologia della nonviolenza quando la teologia si occupa di un
Dio che è amore e che in Gesù ci ha mostrato la strada della
nonviolenza?».
Necessaria e stimolante la sua
“riabilitazione” dei valori evangelici della nonviolenza e
dell’amore universale, così tristemente e ampiamente
traditi nei secoli, proprio da chi avrebbe dovuto esserne
assertore e testimone. La vastità del panorama storico
affrontato in breve tempo, e la posizione teologica assunta
dal relatore (con alcune affermazioni che non riusciamo a
condividere), ci sembra abbia reso la sua analisi un po’
unilaterale e riduttiva.
Al di là di questo, resta la
pressante istanza a un’attenzione più rispettosa dell’
“altro” e degli “altri”, per un dialogo umano,
cristiano ed ecumenico, e soprattutto l’invito al coraggio
di amare tutti a costo della propria vita.
Un intenso richiamo a far ritorno
alla purezza nonviolenta delle origini cristiane (i primi tre
secoli) ci viene dalla relazione serena, obiettiva e
documentata dello storico Prof. Emilio Butturini,
ordinario di Scienze della Formazione (Pedagogia)
all’università di Verona, e dalla proposta, chiara e
“programmata” dell’”antimilitarista” dehoniano, p.
Angelo Cavagna, del Movimento Obiettori di coscienza,
circa le ragioni di fede dell’impegno pacifista. Suo il
motto: “Le idee guidano la storia, i movimenti la
costruiscono”.
Ci
interpellano profondamente le testimonianze coraggiose,
luminose, serene, offerte
dall’esperienza
di Nevè Shalom Wahat as+Salam, scuola di convivenza
israelo+palestinese; quella di mons. Antonio Riboldi,
vescovo emerito di Acerra, esperto “di persona” di cosa
significhi essere cristiano e vescovo in terra di camorra e
n’drangheta; quella di p. Alex Zanotelli, comboniano,
reduce da dodici anni di baraccopoli a Korogocho, Kenya, che
prospetta strategie di resistenza nonviolenta che coinvolgano
in prima persona la popolazione locale. Molto illuminante la
chiarezza di indicazioni emerse dal laboratorio e dalla
conversazione, su nonviolenza e
pacifismo, animata da
Mao Valpiana, direttore della rivista “Azione
nonviolenta” (del
movimento fondato in Italia da Aldo Capitini nel 1961);
simpaticamente utili le strategie apprese da Daniele Novara
del Centro Psicopedagogico per la Pace, per gestire
in maniera positiva i conflitti, senza volerli soffocare o
reprimere.
La risposta verrà, nel tempo, da quello che fiorirà
nei solchi aperti, non senza fatica e sofferenza, nelle nostre
coscienze e da ciò che saremo capaci di seminare attorno a
noi, senza temere “il nemico” che “nella notte invade il
campo e vi sparge zizzania” con apparente successo.
Individuate
le ragioni e le piste della nonviolenza, si tratta ora di
calare nel nostro quotidiano personale (innanzitutto!) e
professionale, di comunicatori/trici missionari/ie, la
convinzione raggiunta, e approfondirla, liberandola da residui
consci o inconsci di mentalità “violenta”.
Confrontare
costantemente la nostra lettura della realtà non con i princi
pi “di comodo”, ma con l’inequivocabile “scomodità”
luminosa della Parola e della testimonianza di Gesù, con la
Sua Persona (per non ridurre il messaggio a ideologia). A
partire di lì, purificare il nostro linguaggio! La parola può
essere arma che ferisce più delle pallottole. Denunciare le
colpe commesse da qualunque parte e confessare un sincero “mea
culpa”, non trascurando di riconoscere e valorizzare il
cammino compiuto e la ricchezza di indicazioni e testimonianze
che, sia la Chiesa, sia la società civile, ci offrono. Non
rischiare anche noi, nell’ardore di sincerità e
autocritica, di valorizzare solo la “cronaca nera”
lasciando “nel cassetto” le notizie positive perché
“quelle buone non tirano”.
Il
cammino è aperto e nessuno di noi, tornando dal Convegno,
sente di essere semplicemente “come prima”
d’incontrarci.
Cominciando
da noi stessi, secondo la parabola rabbinica, accendiamo le
nostre piccole luci andando incontro al dilagare dell’aurora
e quando, guardando il volto di una persona o di un popolo
qualunque, vi riconosceremo - e aiuteremo a riconoscervi -,
fratelli e sorelle, scopriremo che, anche a nostra insaputa,
la notte si è fatta più corta e «il giorno è già avanzato».
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