Bari, 16 febbraio 2000

Aula VII – Facoltà di Giurisprudenza

Piazza Cesare Battisti, 1

"Il sud del mondo di fronte alla globalizzazione" è la terza conferenza proposta da tre realtà associative di Bari: l’associazione Un solo mondo, il Centro di Documentazione dei Missionari Comboniani e da Oasi – Organizzazione di aiuto allo sviluppo internazionale.

Precedentemente il prof. Antonio Nanni ha trattato il tema dell’educazione all’interculturalità nell’epoca della globalizzazione, mentre il teologo e filosofo Giulio Girardi si è soffermato su questo anno giubilare, chiedendoci di farlo diventare un’occasione di critica seria e profonda alla globalizzazione capitalistica.

Oggi siamo qui con il prof. Serge Latouche, professore di economia all’Università di Parigi 11. Serge Latouche è uno studioso del fenomeno della mondializazione o globalizzazione. Uno studioso che si interroga su che tipo di società ci sta preparando la globalizzazione: forse una società trasformata in un megamercato? Forse un mondo senza più pluralismo perché schiacciato dal pensiero unico economico? La globalizzazione garante di un nuovo ordine mondiale o di un nuovo disordine mondiale?

Serge Latouche è autore di numerosi saggi, tradotti anche in italiano, analizza la globalizzazione mettendola in relazione all’etica, alla politica, alla cultura, all’ambiente. Ricordiamo tra i suoi testi: L’occidentalizzazione del mondo, Il pianeta dei naufraghi, La megamacchina, L’altra Africa (Bollati Boringhieri); I profeti sconfessati (La Meridiana); L’economia svelata (Dedalo); Il pianeta uniforme (Paravia); Il mondo ridotto a mercato (Edizioni Lavoro).

Prima di dare la parola al professore, è bene domandarci: che cos’è la globalizzazione?

Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), organismo che discute e coordina le politiche economiche dei principali paesi industrializzati, la globalizzazione è un "processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più integrati tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi, e attraverso i movimenti di capitali e tecnologie". Definizione asettica.

L’Undp (il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, che dal 1989 pubblica rapporti sullo sviluppo) ribatte nel rapporto numero 10, dedicato appunto alla globalizzazione, che la mondializzazione è molto di più di un processo economico: coinvolge anche la cultura, la tecnologia e dunque anche gli individui. La globalizzazione mette in campo certo nuovi mercati (quelli dei cambi e dei capitali sono collegati globalmente e operano 24 ore su 24) e nuovi strumenti (telefoni cellulari, internet, network dei media), ma anche nuovi attori (l’organizzazione mondiale del commercio è dotata di autorità sui governi nazionali; le imprese multinazionali sono dotate di maggiore potere economico rispetto a molti stati; le stesse ong hanno reti di comunicazione globale) e di nuove regole (accordi multilaterali sul commercio, gli investimenti, i servizi sono assai vincolanti per gli stati e riducono la sfera d’azione della politica nazionale).

L’attuale globalizzazione, sostiene l’Undp, è guidata dall’espansione del mercato e si disinteressa delle ripercussioni del mercato sugli individui. E quando il mercato va troppo oltre nel sovrastare i risultati sociali e politici, le opportunità e le ricompense della globalizzazione si diffondono in maniera ineguale ed iniqua, concentrando il potere e la ricchezza nelle mani di un gruppo ben definito di individui, nazioni, imprese, tenendo al margine gli altri.

Secondo l’Undp, la sfida è non di fermare l’espansione dei mercati globali, ma di consolidare le istituzioni e le regole in modo da governare questo processo. In sostanza si suggerisce di far convivere concorrenza ma anche risorse umane, risorse di comunità, risorse ambientali. L’undp vede una globalizzazione "buona" che contribuisce a diminuire le violazioni dei diritti umani, la disparità tra le nazioni, l’instabilità sociale, il degrado ambientale, la povertà.

Sarà possibile? Lo spiegherà il professor Latouche. Intanto vale la pena di ricordare finora che il Sud del mondo è rimasto in gran parte fuori, è tra i perdenti della globalizzazione. I paesi che si possono considerare integrati sono pochi: in America Latina, Argentina, Brasile, Cile, Messico; in Asia, Hong Kong, Malesia, Corea, Singapore, Taiwan, Thailandia, Cina e in parte Indonesia; Africa a sud del Sahara, Asia centrale e meridionale sono fuori. C’è da sorprendersi? Per nulla. La logica del mercato globale esclude i paesi che non hanno potere d’acquisto e sono privi del capitale umano adatto alla competizione globale.

Dottor Raffaello Zordan

Giornalista della Redazione di Nigrizia

 

 

 

IL SUD DEL MONDO DI FRONTE ALLA GLOBALIZZAZIONE

Professor Serge Latouche

La mondializzazione o globalizzazione, come dicono gli anglosassoni, è un concetto alla moda, imposto dalle recenti evoluzioni. Fa parte dello spirito del tempo. In pochi anni, se non in pochi mesi, tutti i problemi sono divenuti globali: la finanza e gli scambi economici anzitutto, ma anche l’ambiente, la tecnica, la comunicazione, la pubblicità, la cultura e persino la politica. Soprattutto negli Stati Uniti, l’aggettivo globale è stato all’improvviso affibbiato a tutti questi settori.

Si parla di inquinamenti globali, della televisione globale, della globalizzazione dello spazio politico, della società civile globale, del governo globale, del tecnoglobalismo, ecc.

Non c’è dubbio che il fenomeno nascosto dietro tali parole non è così nuovo come si vuol far credere. Alcune voci profetiche, come quella di Marshall Mc Luhan, annunciavano già da diversi decenni l’avvento di un "villaggio planetario" (global village). Alcuni specialisti hanno parlato di occidentalizzazione, di uniformazione o di modernizzazione del mondo e gli storici ne hanno scoperto tutti i sintomi dentro evoluzioni di lunga durata. Ma che cosa di nuovo?

La mondializzazione, sotto l’apparenza di una constatazione neutra del fenomeno, è anche, invece, uno slogan che incita ed orienta ad agire in vista di una trasformazione considerata come auspicabile per tutti. Il termine, che non è affatto "innocente", lascia anzi intendere che ci si trova di fronte ad un processo anonimo e universale benefico per l’umanità e non invece che si è trascinati in una impresa, auspicata da certe persone, per i loro interessi, impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti, particolarmente per i popoli del Sud del mondo.

Come il capitale al quale è intimamente legata, la mondializzazione è in realtà un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento nella scala planetaria.

Dietro l’anonimato del processo, ci sono dei beneficiari e delle vittime, i padroni e gli schiavi.

I principali rappresentanti della megamacchina senza volto si chiamano G7, Club de Paris, complesso FMI/Banca Mondiale/OMC (WTO), l’OCSE, la Camera del Commercio Internazionale, forum di Davos, ma vi sono anche delle istituzioni meno note, dalle sigle esoteriche, ma di enorme influenza: il Comitato di Bali per la supervisione bancaria e l’IOSCO (International Organization of Securities Commissions), che è l’organizzazione internazionale delle Commissioni nazionali emettitrici di titoli obbligatori, l’ISMA (International Securities Market Association), che ha un noto equivalente per i titoli obbligazionari, l’ISO (Industial Standard Organization), che ha l’incarico di definire gli standard industriali.

Infine, non si possono trascurare le grandi imprese, i grandi uffici di consulenza, i grandi studi legali e le fondazioni private. Società come Price e Watherhouse, Peat Marwck, Ernest Yung o Arthur Andersen sono protagoniste essenziali della mondializzazione, anche se a prima vista il loro ruolo, come la certificazione della contabilità delle imprese, può apparire puramente tecnico.

È del tutto evidente che, lasciando credere che il fenomeno, buono o cattivo, sia incontrastabile, ci si rende complici del fatto che accada.

Una volta compreso quello che si nasconde dietro la sua manifestazione, non vi è alcun motivo di ritenere che il fenomeno sia irresistibile e inarginabile.

La mondializzazione non è positiva per tutto il mondo ed è pienamente possibile concepire un altro destino.

Bisogna dunque tentare di analizzare le conseguenze, la mercificazione, ed di vedere i pericoli del mercato mondiale specialmente per i paesi del Sud del Mondo e finalmente, come far fronte a questi pericoli.

 

 

I L’economicizzazione del mondo

Il fenomeno che è stato definito una " nuova mondializzazione" comprende, infatti, quattro fenomeni legati fra di loro:

L’insieme intercollegato della mondializzazione del commercio, della mondializzazione della finanza e della mondializzazione dell’industria provoca la formazione di piazze Offshore (deterritorializzate). Un sistema economico universale totalmente sdradicato, senza legami privilegiati con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già più o meno in atto.

La mondializzazione dell’economia, tuttavia, non si realizza pienamente se non con il raggiungimento del fenomeno speculare, l’economicizzazione del mondo, cioè la trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se non addirittura in mercanzie. Nella sua forma più significativa, essendo economica, la mondializzazione è di fatto tecnologica e culturale, e comprende pienamente la totalità della vita del pianeta. La politica in particolare, si trova completamente assorbita dall’economia. La globalizzazione, che la si consideri auspicabile o meno, è tutt’altra cosa dell’estensione a tutte le persone dei valori universali di emancipazione espressi dall’illuminismo, dai Lumieres (pensatori del secoli dei lumi).

Si considera invece, come già vinta la scommessa che la democrazia, i diritti dell’uomo, la fratellanza planetaria seguiranno la scia tracciata dal mercato mentre, un poco di più ogni giorno, l’esperienza ci dimostra il contrario.

L’universalizzazione del mercato non costituisce una novità se non per l’ampliamento del suo spazio. Si avanza così verso la commercializzazione integrale.

L’economicizzazione del mondo si manifesta nel cambiamento delle mentalità e negli effetti pratici. Nell’immaginario, è il trionfo del pensiero unico; nella vita quotidiana, è l’onnicomercializzazione o l’onnimercificazione.

Non esisteremo su questo trionfo nell’immaginario dell’ultra liberalismo. Questa vera contro rivoluzione culturale ha sorpreso solo i suoi avversari, in particolare una sinistra socialdemocratica e marxista europea, sopita dall’idea consolante che il capitalismo selvaggio è cosmopolita era stato messo nel ripostiglio degli accessori. Gli spiriti progressisti si sentono ormai tacciati di arcaismo, con l’astuzia e l’ironia della storia, dai giovani lupi di un liberalismo puro e duro, che ci riportano allegramente indietro cent’anni, ai bei vecchi tempi dello sfruttamento sanguinaria del XIX secolo, e tutto ciò, per di più, nel nome della marcia ineluttabile dell’umanità verso una maggiore libertà e una maggiore unità. Non vi è dubbio che la dilagante reazione non sarebbe stata possibile senza la crescita del potere dei "nuovi padroni del mondo", le società transnazionali, per le quali la concorrenza (e ancora di più il mito della concorrenza che la realtà) e il mercato mondiale costituiscono un modo abile per imporre la loro legge di monopolio.

La mondializzazione senza precedenti dei mercati non ha ancora realizzato il mercato integrale. Si designa così il grande meccanismo auto regolatore che prende a carico la totalità del legame sociale, dalla nascita alla morte, degli atomi individui.

Secondo gli economisti ultra liberisti: "Tutto ciò che è oggetto di desiderio umano è candidato allo scambio. In altre parole, la teoria economica, in quanto tale, non fissa alcun limite all’impero del mercato".

La mercantilizzazione deve quindi penetrare tutti gli angoli della vita e del pianeta. Il trionfo della libertà della libera intesa degli individui, obbedendo al loro calcolo di ottimizzazione, trasformando ogni individuo in imprenditore e in mercante, sta per diventare la legge, l’unica legge di un anarcocapitalismo (termine adottato da alcuni ideologici per designare il sogno di un’economia senza Stato) totale ed ideale.

"La senza economica – dichiara il premio Nobel dell’economia Garry BecKer - entra nella terza età. In un primo tempo si riteneva che l’economia si limitasse allo studio di meccanismi di produzione dei beni materiali e non andasse oltre (teoria tradizionale dei mercati). In un secondo momento, l’ambito dell’economia economica è stato esteso agli insiemi dei fenomeni mercantili, cioè che danno luogo a rapporti di scambio monetario. Oggi, il campo dell’analisi economica si estende all’insieme dei comportamenti umani e delle decisioni a esso associate. E’ ciò che si chiama l’economia generalizzata".

La fede nell’auto regolarizzazione del mercato porta logicamente a volere sostituire con il mercato qualsiasi altro meccanismo di regolazione, sia essa statale, famigliare, etica, religiosa o culturale. Lo scambio commerciale transnazionale diventa così l’unica base del legame sociale è l’Uruguay Round poi l’OMC\WTO (Seattle) assumono, quindi, tutt’altro significato. Si tratta , infatti, di una tappa importante nel processo di onnimercatilizzazione del mondo.

La globalizzazione designa anche questa inaudita avanzata nella onnimercatilizzazione del mondo.

Per esempio a Manhattan, nei bar rumorosi dove urlano i juke-box, il silenzio si può comprare con un dollaro per tre minuti, il tempo di un disco senza musica. A Tokyo si può affittare un gatto o un cane per il weekend. Perché non un bambino? Nelle crocevie più inquinate di Mexico city, si scambia dell’aria contro denaro, comprando una maschera con ossigeno. L’aquisto del silenzio, dell’affetto dell’aria, illustrano la trasformazione del nostro pianeta in un vastissimo supermercato.

I beni e i servizi, il lavoro, la terra (l’esigenza degli Stati Uniti per l’Alena della abrogazione dell’articolo 27 della Costituzione del Messico, sugli ejidos, quella paragonabile del Fondo Monetario in Africa) e, domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l’utero in prestito, i geni vegettali, animali, umani e gli organismi manipolati geneticamente entrano nel circuito commerciale. Già d’ora i servizi, la banca, la medicina, il turismo, i mezzi di comunicazione, l’insegnamento, la giustizia diventano transnazionali. Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani in tutto il mondo nella scia delle grandi manovre per il controllo del mercato delle autostrade dell’informazione, è stato ordinato di prestare manforte ai giganti dei multimedia, esigendo che i "prodotti", culturali vengano trattati come mercanzie, "alla stregua delle altre"mercanzie e le eccezioni culturali come fossero un banale e nocivo protezionismo, quando l’80% del mercato è già nelle mani delle ditte americane.

Il mercato mondiale attuale, a differenza delle vecchie "piazze mercato", luoghi concreti di città e di paesi, dove venivano scambiate le mercanzie tradizionali, realizza l’interdipendenza di diversi mercati. Esso mette in comunicazione più o meno stretta i mercati dei beni, i mercati dei servizi, i produttori e i mercati dei capitali. In altri termini questa mercantilizzazione del mondo distrugge lo Stato-nazione, svuota il politico della sua sostanza, accumula minacce enormi sull’ambiente, corrompe l’etica e distrugge le culture.

 

II Le conseguenze negative per il Sud

Sin dall’origine il funzionamento del mercato è sovranazionale se non addirittura mondiale. Il trionfo recente del mercato non è altro che il trionfo del tout marché(tutto è mercato). Si tratta dell’ultima metamorfosi di una lunghissima storia mondiale.

La prima mondializzazione porta la data della conquista dell’America, quando l’Occidente prese coscienza della rotondità della terra per scoprirla e imporre le proprie conquiste. Quando, secondo la formula di Paul Valery, "comincia il tempo del mondo finito". Questa prima mondializzazione è stata forse più determinante delle successive. Con la conquista europea delle Americhe, sono stati accellerati gli scambi di piante, di animali, ma anche di malattie.

L’introduzione nel continente di animali di allevamento,mucche, pecore, o del cavallo ha permesso:

Una seconda mondializzazione risalirebbe alla conferenza di Berlino e alla spartizione dell’Africa fra il 1885 ed il 1887.

Una terza sarebbe incominciata con la decolonizzazione e l’era degli "sviluppi".

La globalizzazione, proprio perché è anzitutto globalizzazione dei mercati, allarga il campo della competitività e la intensifica fino al parossismo. In conseguenza, costringe le imprese ad una flessibilità più forte.

Sotto l’egida delle istituzioni di Bretton Woods, il mercato mondiale sta distruggendo il pianeta. Si tratta di una banale constatazione, confermata in modo multiforme dallo spettacolo quotidiano: i comportamenti delle multinazionali, le delocalizzazioni massicce(di impieghi, attività ecc.), il genocidio degli indigeni dell’Amazzonia, la distruzione delle identità culturali e i conflitti etnici ricorrenti, la collusione tra i narcotrafficanti e i poteri pubblici in quasi tutti i paesi, l’eliminazione programmata dagli organismi nazionali ed internazionali(l’FMI, la Banca Mondiale o quella dei regolamenti internazionali) degli ultimi freni alla flessibilità dei salari, lo smantellamento dei sistemi di protezione sociale nei paesi del Nord, la scomparsa delle foreste, la desertificazione, l’agonia degli oceani e così via. Dietro tutti questi fenomeni, direttamente o indirettamente, si ritrova la mano invisibile del mercato mondiale.

Tuttavia, con la mondializzazione dell’economia, la concorrenza della miseria del Sud si ritorce contro il Nord e sta per distruggerlo. Parti consistenti del tessuto industriale sono già lacerate; certe economie, certe regioni sono veramente devastate, e non è ancora finita.

Mentre si continua a distruggere l’agricoltura alimentare e l’allevamento nei paesi africani, esportandovi a basso prezzo l’eccedenza dei nostri prodotti agricoli(peraltro sovvenzionati), i pescatori, o comunque le zone costiere di quegli stessi paesi, rovinano la nostra pesca, esportando a loro volta del pesce miserabile.

Di conseguenza vengono dilapidati i modi di vita e i patrimoni sociali che si sono costituiti attraverso l’accumulazione di saperi tradizionali e di relazioni , e si spezzano gli equilibri ecologici.

L’attuale mondializzazione sta completando l’opera di distruzione dell’Oikos planetario. Non fosse altro perché la concorrenza esacerbata spinge i paesi del Nord a manipolare la natura senza nessun controllo, e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In agricoltura l’uso intensivo di concimi chimici e pesticidi, nonché l’irrigazione sistematica e il ricorso a organismi geneticamenti modificati, hanno avuto come conseguenza la distruzione dei suoli, l’esaurimento o l’inquinamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche…

I misfatti del liberalismo economico sul Terzo Mondo non sono certo nuovi né sconosciuti. Risalgono all’epoca in cui gli occidentali si sono arrogati il diritto di aprire a cannonate la via del libero commercio. Dalle guerre dell’oppio all’ammiraglio Perry, passando per l’eliminazione dei tessitori indiani, l’analisi delle disastrose conseguenze per i paesi deboli della divisione del lavore non resta certo da fare. I processi attuali, stimolati dal FMI e dai piani di aggiustamento strutturale, i comportamenti della Banca mondiale e dell’OMC sono una nuova versione della medesima tendenza. L’importazione massiccia di riso dal Senegal, a scapito della risicoltura locale, e più in generale in Africa, i tentativi di smantellamento dell’uso collettivo della terra, pochè non consentono i prestiti ipotecari e la modernizzazione dell’agricoltura, fanno parte di questo schieramento di mezzi per garantire all’Africa una morte sicura.

Meriterebbe riflettere bene su due casi, quello del cacao e quello delle banane per comprendere gli effetti della globalizzazione nel Sud. Quando il prezzo mondiale del cacao era al suo minimo, negli anni ’80, e le economie del Ghana e della Costa d’Avorio erano perciò immerse in una crisi drammatica, gli esperti della Banca Mondiale non trovarono niente di meglio che incoraggiare e finanziare la piantagione di migliaia di ettari di alberi di cacao in Indonesia, Malaysia e Filippine. Se ne poteva ancora trarre profitto, speculando sulla miseria dei lavoratori di questi paesi, e a detrimento della natura.

Il caso delle banane è legato allo stabex, il meccanismo di garanzia di introiti da esportazione concesso dai paesi del mercato comune ai paesi A. C. P. (Africa, Caraibo, Pacifico).Quel sistema messo in piedi dalle convenzioni di Lomè (da 1 a 5)era stato salutato come l’inizio di un nuovo ordine economico internazionale. Il prezzo della banana acquistata in Guadalupa, in Martinica, nelle Canarie o nell’Africa nera, permette ai produttori locali di sopravvivere (in situazioni diversissime, ovviamente…). Senza essere nulli, i risultati sono stati modesti, con un certo numero di effetti perversi. Ad ogni modo era ancora troppo. Spinti dalle multinazionali nordamericane, come la Chiquita Brands (ex United Fruit) e la Castel e Cooke, che controllano la gran parte della produzione e della distribuzione delle Repubbliche delle banane e delle piantagioni della Colombia, i paesi dell’America Centrale hanno trascinato l’Europa davanti ai panels del GATT, poi del WTO, e denunciato le barriere e gli ostacoli al libero gioco del mercato. Vogliono ad ogni costo aumentare la loro quota di mercato grazie ai bassissimi salari dei contadini, centinaia dei quali sono morti in seguito al folle uso dei pesticidi(contro i nematodi).Il WTO ha dato loro ragione. "State conducendo la peggiore delle guerre economiche contro un popolo senza difesa. Importate le nostre banane e ci conducete nella miseria, nei conflitti e nella sofferenza", ha dichiarato il presidente dei piantatori di banane della piccola isola di Santa Lucia, commentando il verdetto e condannando la campagna politicamente scorretta dell’amministrazione Clinton. Evidentemente, i tedeschi, grandi consumatori, per nulla intenzionati a pagare le loro banane ad un prezzo un po’ più alto di quelle della Colombia, non sono stati degli alleati a prova di bomba in quest’affare. A Jacques Chirac che rimproverava quel tradimento all’amico Kohl, e denunciava le conseguenze della produzione "ancora peggiori della schiavitù" sulle piantagioni americane, il cancelliere tedesco ha risposto: "La morale è una cosa, gli affari un’altra".

Con la deregulation in tutti i paesi del mondo, con lo smantellamento delle regolamentazioni nazionali, non vi è più alcun limite alla riduzione dei costi e al circolo vizioso suicida. E’ un vero e proprio gioco al massacro tra individui e tra i popoli, a spese della natura.

Infine, l’attuale mercificazione totale non risparmia l’Africa. Qui essa assume la forma particolare della "zairizzazione", vale a dire della mercificazione e la privatizzazione integrale della vita politica.. I rapporti sociali, il notabilato e l’accesso al potere sono inglobati ad ogni livello nella sfera mercantile. Il mercato colonizza lo Stato, molto di più di quanto non avvenga il contrario. L’esito di questo processo è ciò che Jean-François Bayard chiama "via somala allo sviluppo", fondata sul traffico di droga, criminalità dello Stato, stoccaggio di rifiuti tossici industriali, e così via.

III Far fronte: le lezioni dell’altra Africa (come laboratorio del doposviluppo)

L’economia mondiale, con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha escluso campagne di milioni e milioni di persone ha distrutto il loro modo di vita tradizionale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e ammucchiarli nelle bidonvillee nelle periferia del Terzo Mondo. Sono questi i "naufraghi dello sviluppo". Condannati, nella logica dominante, a scomparire, non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare, e certi lo fanno davvero, un "altro" sistema, un’"altra "vita.

Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo, vederlo positivamente, di per se stesso per quanto possibile, cioè in funzione delle sue proprie norme , e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Si tratta di vedere con occhio diverso il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi del mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si è in una economia, sia pure altra, si è in un’altra società. L’economico non vi è autonomitizzato in quanto tale. Esso è dissolto, incorporato(embedded) nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di società vernacolare è più appropriato per parlare di questa realtà, di quello di economia informale.

Tuttavia la società vernacolare non è sicuramente un paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere e l’insieme dei "piccoli mestieri"(garage all’aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, coxeurs o procacciatori di clienti per "pullman rapidi", bana-bana o piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o ancora sacchetti di latte in polvere o di Nescafè). Prima di tutto si tratta di come i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economica, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arangiarsi di ciascuno si iscrivono in delle reti. I "collegati" formano dei "grappoli". In fondo, queste strategie fondate su un gioco sottile di "cassetti" sociali ed economici sono paragonabili alle strategie famigliari che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma trasposte in una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.

Così la societa vernacolare (o l’oikonomia neo clanica come la chiamo nel libro) è ha prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluri attività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Ma gli artigiani della economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch’essi pluri attivi e molto dipendenti dalla loro rete sociale. Tutti sono nel dopo sviluppo.

Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravivenza reinventando il legame sociale e facendo funzionare tale legame sociale. Escusi dalle forme canoniche della modernità, dalla cittadinanza dello stato nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono, in effetti, grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.

Nelle reti neoclaniche, dove le attivita ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsi. Si ha a che fare con una assenza di professionalizzazione, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste per via della apartenenza a una casta o dell’inquisizione di un aprendistato specializzato la professione è più esibita come un alibi ed una facciata che rivelatrice dell’esercizio vero e proprio di un mestiere. A Grand Yoff, i falegnami sono molto poco falegnami, o almeno altretanto avilcoltori o mercanti di pomodori che falegnami. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto, o a migliori locali, ecc come l’affato l’ ONG ENDA-Tiers-Mond, era secondo il responsabile un errore. Un simile procedimento presupone che esista veramente un gruppo professionale "falegnami" saldato da interessi comuni. Ora, un tale gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa che approffitava di ordinazioni sotto banco per programmi di costruzione di alloggi, c’è una folla di piccoli falegnami di facciata. Quest’ultimi effettuano prestazioni occasionali ma passano la maggior parte del loro tempo a fare tutt’altro che lavore di falegnameria.

Per ironia della storia, la cooperativa sudetta ha trovato un uso inatteso (non previsto dall’ONG). Essa si dedica as attività immobiliari e bancarie, affttando i propri locali inutilizzati, lanciandosi nella costruzione di nuove officine, facendo lavorare i suo denaro e quello dei membri. E’ lo stessoper la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grande precarietà di reditto e di insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram…All’altro estremo i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, nelle inchieste sull’occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: dèbrouillards(scaltri ,che sanno cavarsela…).

N’daye Sokhna, madre di famiglia di Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nella periferia di Dakar e probabilmente quasi tutte vivono in modo del tutto comparabile. N’daye ha un marito ferraiolo per il cemento armato che non lavora da vari anni, sette figli la maggior parte dei quali vanno a scuola. Essa ha un chiosco, sorta di garitta di metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende tra mattina e sera da 25 a 35 chilogrammi di pane; occasionalmente vende roba usata, incenso che confeziona lei stessa. Prepara la zuppa, acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, vende mandarini che le spedisce il marito della sorella o anche l’altra sposa del marito rimasta nel villaggio, della quale dice: "Essa fa come me, anche lei si arrangia…". Fa merletti che piazza presso le sue "collegate" della rete. Alleva pulcini e pensa di contrarre un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza. Progetta di averne un centinaio. Di tanto in tanto, sostituisce un’amica per un mese o due come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari, e i locatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari perché mangiano in famiglia. Il denaro guadagnato è immediatamente investito. Essa partecipa a varie tontine, una a dieci franchi al giorno per acquistare tessuti e gioielli. Quella dei tessuti è organizzata da un’amica ed essa è responsabile di quella dei gioielli. E’ responsabile inoltre di un’altra tontina di venti persone a 1000 franchi al mese. Dà inoltre 100 franchi al giorno per un pezzo di tessuto ad un venditore ambulante toucouleur. Se un giorno non ha denaro, non dà niente. Un perizoma da 2000 franchi può, perciò, finire col costare 5000 franchi(è razionale?)! Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti. Questa vita di espedienti in cui si mescolano produzione di beni e servizi, commercio, scambio di doni, di denaro e soprattutto di parole, è quella della maggior parte di famiglie di Grand Yoff e, con qualunque piccola variante, della maggio parte dei naufraghi dell’Africa.

La mia inchiesta era stata fatta nel 1993; ritrovata nel ’95, poi nel ’96, N’daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. E’ diventata una donna d’affari. Grazie al credito della cooperativa delle donne e ai consigli della Enda-Graf, ha montato con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap(hibiscus o acetosella di Guinea, o carcadè), succo di tamarindo o succo di zenzero. La marca è depositata per il gruppo, la confezione e l'etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico per l’insieme. E funziona! Quanto al vecchio marito, felice di questa relativa prosperità familiare, assicura la vendita in assenza della padrona…

In queste condizioni, i programmi di appoggio al "settore informale", basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni, hanno effetti piuttosto negativi. L’essenziale della società vernacolare non entra nel quadro dell’intervento. Questo non tocca evidentemente i più bisognosi e favorirà coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini dell’informale.

Al di là della pluriattività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai "grappoli" di "collegati" della società vernacolare è l’importanza del tempo, della energia e della risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi, occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno o al gioco…"La festa, osserva Eric de Rosny, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione, tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi. I compiti esecutivi sono effettuati alla lettera in momenti perduti. Se c’è urgenza per finire una ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente all’interno della rete, si tratti di derrate o di denaro, sia perché è dovuto, sia perché si anticipa la necessità di dover prendere in prestito, sia anche, e in ogni caso, perché si vuole far profittare i parenti di quel che si è appena avuto e perché si cerca di far loro piacere. Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio non è mai perduto. L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai "collegati" piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno. Le persone di Grand Yoff parlano esse stesse di "cassetti" per designare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dai "collegati" sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno, e il bisogno è qui quasi endemico, si mobiliterà il "grappolo", si attingerà a diversi cassetti. Spesso, si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di creditore-debitore è comune a tutti. A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: "Noi seppelliamo una iena per disseppellire un’altra iena". Una conseguenza supplementare di questo tipo di funzionamento è che le operazioni d’investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo rifiuterà di restituirlo se giudica l’affare irragionevole.

"Se si investe il proprio denaro presso una persona – spiega un falegname – un giorno glielo si può richiedere. Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch’egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, devo disporre di più cassetti, per poterne utilizzare un secondo momento nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire i collegati in tempo e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando le mettete in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo, non ve lo si rifiuta. Quando fate investimenti presso dei parenti o dei partners, essi sono più o meno implicati nella gestione di questo denaro. Possono dire di "no", se giudicano che quel che ne farete non sarà bene per voi. Sono dei "parenti" mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spendete il vostro denaro. Non c’è ostacolo all’uso del denaro in banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro in banca".

Questo "filtro" sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.

"Questi franchi che abbiamo raccolto – dichiara solennemente un tontinier bamileke nel consegnare la somma al fortunato destinatario -, cioè questa miseria, ma che rappresenta tutto il nostro tesoro, noi te li diamo oggi, non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché noi auspichiamo che questo franco diventi dieci franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel tuo progetto".

Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa della logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui, come dovunque, il legame sociale funziona sulla base dello scambio: ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire così come lo analizza Marcel Mauss. La casa centrale e fondamentale in questa logica del dono è il fatto che il legame sostituisce il bene.

Risulta chiaramente, a questo punto, che dire che, nella società vernacolare, l’economia è reincorporata nel sociale, o dire che essa funziona secondo le logiche del dono significa dire esattamente la stessa cosa: le tue formulazioni sono del tutto equivalenti.

Conclusione

La società vernacolare, ma anche in Europa le banche del tempo, i lets (local exchange trade system), i SEL (systèmes d’échange locaux) sono forme di dissenso dalla norma, questi ultimi più coscienti, ma anche più fragili della società vernacolare. Sono anche forme di resistenza alla mondializzazione dell’economia e all’economicizzazione del mondo. Sono tutti dei laboratori del futuro, laboratori del dopo sviluppo. Gli economisti che giudicano questa forma di scambio volontario, senza ufficialità e ai margini della legge, da noi, più liberista del mercato ufficiale, si impantanano.

(come gli economisti alla Hernando de soto ou Guy Sorman, che vedono nell’informale del terzo mondo un capitalismo popolare e un terreno di coltura di imprenditori straccioni).

Nel caso dei SEL, si tratta invece piuttosto di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del Sel dell’Ariege: "In qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale". Un Sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali esterni. Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai transporti. Senza chiasso e senza dichiarazioni, gli "informali" dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.

C’è una lezione dell’esperienza africana della società vernacolare che può servire anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative.

La nostra riflessione conduce alla realizzazione di una coerenza globale dell’insieme delle innovazioni alternative: cooperative autogestite, comunità neo-rurali, lets (Local Exchange Trade Systems) e SEL (Systèmes d’Echange Locaux), auto-orgaizzazione degli esclusi al Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto in quanto forme di resistenza e di dissidenza al processo di crescita e potenziamento dell’onnimercificazione del mondo. Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative alternative volontarie è, infatti, di rinchiudersi nella fortezza che ha permesso loro di nascere e svilupparsi invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di una nicchia. La "fortezza" è un concetto della strategia militare di conquista e di aggressione, legata alla razionalità economica dominante. Ciò che può fare vivere l’impresa alternativa è piuttosto la nicchia, un concetto ecologico molto più vicino all’antica prudenza (la phronesis di Aristotele) e a una concezione sociale dell’efficacia, estranea all’efficienza economica. L’impresa alternativa o sopravvive in un contesto che è e deve essere diverso dal mercato mondializzato. È questo contesto dissidente che occorre definire, proteggere, mantenere rinforzare e sviluppare per la resistenza. Invece di battersi disperatamente per conservare la propria fortezza all’interno del mercato mondiale, occorre militare per ingrandire e approfondire la nicchia al margine dell’economia globale. Il confronto violento e il conflitto accanito, caratteristici della razionalità occidentale, non sono l’universo nel quale si deve muovere l’organizzazione alternativa. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo-solidale o dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco dei prodotti "non equi" o "anti-biologici" non è un obiettivo in sé. Va inscritto più in una strategia di fortezza che nell’ottica del rafforzamento della nicchia. È più importante assicurarsi del carattere equo della totalità del processo, dal trasporto alla commercializzazione, cosa che esclude in prima battuta il supermercato e allarga il tessuto organizzativo. L’estensione e l’approfondimento della rete di complicità è il segreto della riuscita e deve essere la preoccupazione principale di queste imprese. I Consum-attori (consumatori e cittadini) non sono che un elemento di un insieme che deve essere articolato: SEL, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati su questa strada. È questa coerenza che rappresenta la vera alternativa al sistema. Si tratta di coordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, tramite tutte le iniziative per articolare la resistenza e la dissidenza e per sfociare, infine, in una società autonoma.

(Ou alors, reprendre la fin de la conférence de Rome avant la conclusion).

Dibattito

D. Lei ha detto che l’economizzazione del mondo si manifesta nel cambiamento della mentalità, le chiedo se può spiegarmi bene questo concetto.

D. Lei prima ha fatto un elenco di effetti negativi della globelizzazione, ha lasciato però uno spiraglio speranza in quanto la globalizzazione si ritorce contro se stessa, parlando delle crepe della industrializzazione nel nostro mondo. Vorrei capire come le multinazionali si piegheranno e come si concilia questo col commercio equo e solidale e con lo sviluppo sostenibile. Si può dire, inoltre, che il troppo benessere vuole sempre essere tutelato, e in questo mi sembra calzante l’esempio di Haider?

D. Nell’ultimo forum economico mondiale, i grandi responsabili delle multinazionali hanno ritenuto che nei prossimi 10 anni l’obiettivo prioritario non è quello di incrementare la crescita economica, bensì puntare esclusivamente sulla sensibilizzazione ambientale e sulla tutela ambientale. Le chiedo: il capitalismo sta cambiando, sta diventando improvvisamente buono, il capitalismo può anche essere sostenibile?

D. Lei ha parlato di monoculture, come quelle del cacao e delle banane, c’è il mercato ufficiale che esporta cacao e banane e poi c’è il commercio equo e solidale, allora le chiedo il commercio equo e solidale non rischia di diventare solo un mercato parallelo? Nel senso che i paesi poveri comunque continuano a produrre caffè per noi paesi ricchi, sottraendo terreno per l’autosufficienza alimentare. Il commercio equo e solidale va a minare questo sistema, o invece non dobbiamo iniziare noi a cambiare rotta e consumare meno.

R. In verità la mondializzazione non ha effettuato un cambiamento di mentalità, ha si sviluppato una mentalità che era già presente e che era una mentalità economicista, e quindi la ha ancorata ancora di più. E questa mentalitàdi cui la forma unica è il pensiero unico, ma il pensiero unico era già presente nell’opera di Adam Smith nel 1776, questa mentalità è una cosa strana, è la mentalità tipicamente occidentale ed è ancorate con una forza terribile, ed è chiaro che per me nessuna alternativa può svilupparsi in modo significativo senza un cambiamento di mentalità. E’ quindi evidente che un tale cambiamento non si decreta, è impossibile dire "oggi cambiamo mentalità", ho l’abitudine di usare un vecchio proverbio francese che dice che "quando uno ha un martello nella testa vede tutti i problemi sotto forma di chiodi", e allora noi uomini moderni abbiamo nella testa un martello che si chiama "economia", e allora vediamo tutti i problemi sotto forma economica. Ad esempio quando il tempo è bello pensiamo che i raccolti saranno così e il turismo "cosà", se il tempo è cattivo allora pensiamo che sarà una catastrofe per questi settori produttivi. È’ una cosa recente, nel medioevo il martelli nella testa di tutti gli uomini era la religione, per questo hanno bruciato Giordano Bruno e altri, e tutte le ragioni per fare questo avevano forma religiosa. I greci e i romani avevano il martello della forma politica e filosofica. Gli africani vedono i problemi sotto la forma dei rituali, ecc. Penso che sia quindi necessario vedere tutti i problemi sotto un’altra forma, allora possiamo cambiare le abitudini, esigere il rispetto dell’ambiente, ma fondamentalmente questo cambiamento si fa ogni giorno a poco a poco. Ad esempio una cosa recente è che in Europa vi è un cambiamento di abitudine per l’alimentazione, oggi la gente europea non vuole alimentarsi con cibi transgenici. Questo perché il sistema crea delle catastrofi e così l’uomo spesso progredisce attraverso le catastrofi. Una recente catastrofe è quella riguardante la mucca pazza.

Un’altra questione era sull’ autodistruzione del sistema, penso che una sfida enorme del nostro sistema è la capacità di creare delle catastrofi, penso che queste poco a poco possono trasformare il modo di vedere le cose, la mentalità e l’immaginario, ma è un lavoro che richiede molto tempo.

Un altro effetto orribile del sistema che è la conseguenza dell’uniformizzazione planetaria è lo sradicamento delle società e della cultura, delle tendenze e di tutti i reperti delle popolazioni. Questo genera l’etnicismo e il ripiegamento su una identità falsa o vera, una identità "bricolata", immaginate quella della Padania, con la conseguenza terribile dei conflitti etnici. Un’altra forma di ripiegamento è quello di tipo religiosa che porta all’integralismo e all’esistenza delle sette. Sono delle forme di contraddizione che mostrano che la via reale della mondializzazione non esiste.

La questione della sostenibilità ha portato i leaders mondiali a fare qualcosa di più per l’ambiente, in Francia la questione dell’Erica ha avuto una ripercussione enorme, leggevo proprio oggi che nel mondo diplomatico questo ha avuto delle ripercussioni da parte dei capi di imprese transnazionali. Nei paesi del Nord dove le istituzioni sono ancora abbastanza forti, queste accettano di fare delle concessioni, ma nel funzionamento del WTO non vogliono sentire parlare di regolamentazioni ambientaliste, vogliono la libertà del commercio e questo significa la libertà di sfruttare l’ambiente e la gente, e trovano degli alleati nei governi dei paesi del Sud, che pensano che il loro vantaggio al commercio internazionale significhi poter sfruttare il loro ambiente e le loro forza lavorative, la loro popolazione.

Riguardo il commercio equo e solidale ho sempre pensato che il commercio equo e solidale ha senso solo se è collegato ad altre iniziative, che non si iscriva nella strategia della nicchia e non si contrapponga come fine a se sesso, perché un commercio equo e solidale non ha senso in un mondo non equo e non solidale, non può funzionare a lungo termine, naturalmente c’è una contraddizione centrale nel fatto che le ONG solidali devono lavorare per rendere gli agricoltori dei paesi del Sud autosufficienti e il fatto che questo commercio porta comunque prodotti di esportazione speculativi come il caffè o il cacao, che non sono consumati dai popoli che li coltivano.

  1. L’immigrazione è un risvolto negativo della Globalizzazione?

R. Gli economisti, i padroni del pianeta, richiamano la libera circolazione della mercanzia, ma sono contrari alla libera circolazione degli uomini.

D. Muhammad Yunus, il banchiere dei poveri, sta prestando denaro a due milioni e mezzo di poveri, sta investendo in questa direzione perché è convinto che per questa strada ci sia una via d’uscita; ma gli è stato chiesto se crede ad una alternativa a questo sistema economico; lui sostiene che questo è l’unica economia possibile, in sostanza prefigura una sorta del capitalismo dal volto umano; lei come risponde?

R. Si tratta di una impostura, perché non ha senso fare microcredito se è per ricominciare il gioco che ha generato i perduti senza cambiare le regole, questo dibattito è presente da più di un secolo in ciò che riguarda l’economia sociale. Se sono state questo tipo di regole a generare la povertà non si può prescindere da cambiarle, inoltre nel caso di Yunus egli ha recuperato una creazione popolare già presenta nella civiltà africana. Ma questo microcredito serve a fare cosa? In Bangladesh questo credito è dato alle donne perché loro rimborsano oltre il 95%, quidi non è una buona azione ma un buon affare. Di conseguenza il microcredito può essere una alternativa interessante solo nel caso in cui può creare una nicchia alternativa al sistema di commercio internazionale, se non credessi che sia possibile creare un’alternativa non sarei qui!

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