Nasce
a Perugia il 23 dicembre 1899. La madre è sarta, il
padre impiegato e custode al comune.
Quindi sin da bambino percorre i sentieri della
campagna umbra, forse gli stessi del santo Francesco
di Assisi, del quale sente presto la nostalgia a
causa dell’istituzionalismo religioso che tradisce
il Vangelo
della Pace. Inizia gli studi tecnici e solo più
tardi, da autodidatta, può dedicarsi a quelli
letterali, che lo entusiasmano molto di più. Ama la
poesia e la letteratura; si avvicina a D’Annunzio e
Marinetti. Ma il suo spirito meditativo lo porta a
scoprire autori che sentono la crisi esistenziale del
tempo, come Ibsen e Boine.
A
scuola, dove si sente forte il nazionalismo
interventista, impara anche l’amore per la Patria.
Passa presto questo periodo e comincia a percepire
l’inutilità della guerra e della violenza che
l’accompagna.
“La
devozione alla Patria
deve
essere messa in rapporto e mediata
con
ideali più alti e universali”
(A.
Capitini, 1966, cit. p. 11).
Avviene
il completo distacco con la retorica patriottica e
rimprovera alla scuola il fatto di avergli messo sotto
una cattiva luce il socialismo; si apre ad accogliere
le iniziative umanitarie orientate alla costruzione
della Pace. Questa crisi che permette di capovolgere i
valori si intravede anche nella vita: non trova un
equilibrio, passando da
una conduzione disordinata, tra molte
esperienze e rapporti futili, al rigore degli studi
condotti nell’austerità e solitudine. Si impegna
nello studio della Bibbia, legge Leopardi, Manzoni e
riesce a trovare una certa stabilità e soprattutto la
solidità interiore. Passa anche attraverso
l’esperienza della malattia; questa esperienza di
dolore fisico, che attraversa il suo corpo, lo fa
riflettere sui limiti della natura umana. E’ un
momento fondamentale della sua vita, nel quale si
scopre creatura davanti al suo Creatore. Prima la
formazione e poi le condizioni di salute lo portano ad
arrivare tardi nel manifestare attivamente il suo
impegno politico e di questo si rammarica, ma forse
non era ancora il tempo:
“in quegli anni veramente
non ero ancora capace di dare qualche cosa
che doveva maturare per successivi momenti”
(A.
Capitini in R. Altieri, 1998, p.14).
Nel
1924 vince una borsa di studio alla Normale di Pisa
per la facoltà di Lettere e Filosofia. Segue gli
avvenimenti politici di quegli anni e sente un certo
distacco critico nei confronti del fascismo,
soprattutto dopo i crimini commessi: l’assassinio di
Matteotti, di Gobetti, l’arresto ed esilio di tanti
antifascisti, la soppressione della libertà di
stampa. Ma quello che lo fa scattare e lo provoca ad
un impegno concreto è la Conciliazione tra il Regime
e la Chiesa cattolica, nel febbraio del 1929.
Rifiuta
la tessera del PNF e viene allontanato dal posto di
segretario della Scuola Normale, la minaccia di essere
deportato in un lager lo costringe a fuggire in
campagna nel 1944.
“Persuasione”
è la parola che usa moltissimo negli scritti degli
anni trenta. E’ sempre molto pacato e parsimonioso
nell’attribuirsi aggettivi; per questo si dice “persuaso”
e non “credente”. Deriva questo pensiero sulla persuasione da
Michelstaedtner, che lo esorta a non
adattarsi alla sufficienza che gli è data. Capitini
la vede incarnata nell’esperienza redentrice del
Cristo:
“La
Croce è il tragico dal punto di vista del mondo,
la
presenza di Dio dal punto di vista dell’intimo”
(A.
Capitini, 1947, p. 32).
L’esigenza
di non collaborare con un potere criminale lo porta a
scegliere la nonviolenza, a contrapporre la verità
alla menzogna e all’inganno, sui quali si basa ogni
tipo di sistema oppressivo.
“Tanto
dilagheranno violenza e materialismo,
che
ne verrà stanchezza e disgusto;
e
dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della
decapitazione
salirà
l’ansia di sottrarre l’anima
ad
ogni collaborazione con quell’errore,
e
di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo
(che
è il primo progresso),
un
nuovo modo di sentire la vita:
il
sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve
stare senza amore,
senza
un’apertura infinita dell’uno verso l’altro,
senza
una unione di sopra a tante differenze e tanto
soffrire.
Questo
è il varco attuale della storia.”
(A.
Capitini, 1947, p.7)
Scopre
Gandhi
verso gli anni trenta e intravede nella
non-collaborazione la via della resistenza nonviolenta
alla guerra, la sola forza capace di sconfiggere
l’oppressione.
Si
rende conto che se la non-collaborazione serve per
opporsi al
male, per non garantire il perpetuarsi
dell’ingiustizia, occorre una buona dose di amore
per la persona che compie il male:
“I vecchi strumenti avevano però un difetto molto grave,
che per guarire il male uccidevano spesso il malato,
e allora il male risorgeva in noi”
(A.
Capitini, 1964, in R. Altieri, 1998, p.65).
Riprende
quindi da Gandhi il discorso sui mezzi e fini,
pensando soprattutto al “modo” di portare avanti
la lotta ammonendo che “se
seminiamo morte ed inesattezze non nasce vita”
(A. Capitini, 1964, in R. Altieri, 1998, p.65) .
Ammira
molto Danilo
Dolci, che considera il Gandhi italiano.
Di lui apprezza l’”assoluta nonviolenza” e la
“partecipazione con il basso”.
Nel
giugno del ’44 a Perugia
viene istituito il primo COS, un nuovo
“spazio nonviolento”, “aperto”, per la
discussione di problemi amministrativi e sociali visti
da punti di vista diversi, accomunati dalla voglia di
dare il proprio contributo.
Non
vuole perdere il legame con il quotidiano, separando
la vita religiosa da quella pubblica,
ma sente anche che non può perdersi
nell’attivismo. Scopre che attraverso la spiritualità
nonviolenta può mettere insieme le due cose; è
quella che lui definisce la religione della prassi che ha trovato in Gandhi.
“Questo richiamo al primato della pratica diretta (...)
assume un valore particolare per il metodo nonviolento,
a causa della coincidenza che in esso c’è tra mezzi e fini”
(A.
Capitini, in R.Altieri, 1998, p.83).
Capitini,
come gli altri nonviolenti, vede nell’obiezione di
coscienza un modo per trasformare la società, “con
una lotta che può anche porsi contro le leggi
ingiuste, ma pubblicamente e non rifiutando la pena”
(A. Capitini, in R. Altieri, 1998 p,92).
Contro
la guerra è necessaria la:
“obiezione
di coscienza contro il servizio dell’uccisione
militare
e
l’educazione dei popoli alla resistenza
nonviolenta”
(A.
Capitini, 1964, in Altieri, 1998 p.97).
Il
24 settembre del 1961 Aldo Capitini organizza la prima
Perugia-Assisi,
la marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli.
Dice di aver proposto la marcia perché è un
“accomunamento dal basso” , è “un’estrinsecazione
fisica disciplinando il corpo ad una idea che si serve
pensando a tutti” e permette di ristabilire un
contatto con la terra.
“L’espressione
«dal basso» vuol
dire esattamente di muovere dai singoli esseri, nella
loro esistenza e molteplicità”. Altra parola
usata moltissimo da Capitini è la “compresenza”,
come apertura estrema all’altro, al suo punto di
vista. Fino ad arrivare ad affermare nel saggio Il
potere di tutti
che solo l’omnicrazia può fare in modo che
le persone vivano la solidarietà.
E’
stato spesso solo in questa sua lotta, non ha
sperimentato la nonviolenza nella dimensione
comunitaria e questo dice quanto sia stato forte nel
portare avanti questa rivoluzione dal basso.
filosofo
goriziano morto suicida all’età di 23 anni
|