LA PACE E' NELLE 

NOSTRE MANI 

Thiene (VI),  6-8 dicembre 2002

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Convivenza G.I.M. Triveneto e Bologna
Thiene (VI), 6-8 dicembre 2002

L'appuntamento dei gruppi G.I.M. di Verona, Trento, Padova e Bologna è stata una tre giorni oltre ogni utopia, per sentire che la pace è nelle nostre mani, essa ci è stata consegnata da grandi testimoni come don Tonino Bello e don Primo Mazzolari.

Ti proponiamo nelle prossime righe le riflessioni di Leo e le parole dei profeti che ci hanno ispirato nelle nostre condivisioni!!!

Continuiamo a sperare e r…esistere contro la guerra e la rassegnazione! 

Creare primavera di pace

I giovani e la pace nelle nostre mani 

   

La pace non è più un’utopia

quando in tanti ci crediamo e ci giochiamo la vita!

La necessità dei corpi

 

Dicembre, venerdì 6, sabato 7, domenica 8 ho partecipato alla convivenza dei Gim di Bologna, Padova e Trento (un BigGim come li chiama qualcuno). La convivenza si è svolta a Thiene: una cittadina vicina a Vicenza nel ricco, opulento, laborioso Veneto (leggere quest´ultimo periodo con tutto il sarcasmo di cui è capace un irriverente, romagnolo gaudente). Il tema dei tre giorni passati assieme era un qualcosa che aveva a che fare con la pace. Qualcosa come "Creare primavera di pace" o "La pace nelle nostre mani": il rischio è che anche noi facciamo l´abitudine a certe idee e che poi diventino solo sterili slogan. Per fortuna non è stato così, spero non lo sia mai. Non è stato così perché qualcosa, meglio, qualcuno è venuto a darci una mano. Non fraintendetemi non sto tirando in ballo il trascendente: quando dico qualcuno dico don Primo Mazzolari, don Tonino Bello e, sopra tutti, dico noi stessi.

Sì, perché la pace è nelle nostre mani quando al costruiamo, e la costruiamo noi, e la costruiamo tutti i santi giorni, e la costruiamo passo dopo passo, passi veloci e passi lenti, passi sicuri e passi incerti, forti e traballanti, nostri, soprattutto passi nostri. Abbiamo vissuto la mattinata di sabato in piccoli gruppi (sei, otto persone) lasciandoci stimolare da scritti di Mazzolari e Tonino Bello: dovevamo riuscire a dire la nostra perché qualcosa potesse incominciare a fiorire. Uno dei comandamenti dei contadini del Movimento Sem Terra brasiliani è «abbellire gli accampamenti con fiori (...)» poiché anche la bellezza è un bene comune e non un privilegio di pochi. Ed a incominciare a fiorire sarà (era, è) quell´albero di cui noi siamo rametti piccoli e fragili ma che ha grandi radici saldamente piantate nel futuro. Don Primo e don Tonino, nostre radici di futuro. Nel mio gruppo di condivisione siamo arrivati ad intuire che la pace si costruisce nella ferialità. La pace festiva, quella fatta di marce, fiaccolate, adesione a campagne (momenti di festa, appunto) va santificata tutti i giorni con ogni nostra azione, con ogni nostro gesto. Quindi conoscerci, incontrarci, raccontarci, ascoltarci è stato il nostro atto di ferialità. Nel gruppo non ci conoscevamo ed il presentarci agli altri ci ha riempito buona parte del tempo concessoci: è stato il nostro modo di creare la pace, di sperimentare un modo nuovo di fare società. E poi è stato tutto un tripudio di pacche sulle spalle, strette di mano, abbracci, soprattutto abbracci. Nella celebrazione finale lo scambio del "segno di pace", inevitabilmente un abbraccio, sembrava non voler finire mai. C´era (c´è) bisogno dei corpi, necessità di andare oltre quelle convenzioni sociali che fanno dell'altro uno sconosciuto. Ci siamo abbracciati forte perché non ne possiamo più di vivere chiusi in noi stessi anche se, ci dicono, è meno rischioso che aprirsi all´altro. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo, perché siamo fermamente convinti che il primo pronome personale non sia io, ma noi.

Nelle condivisioni dei vari gruppi, più o meno esplicitamente, la necessità dei corpi è stata costante. Ci siamo guardati negli occhi, ci siamo sdraiati gli uni accanto agli altri, abbiamo tenuto le mani di altri nelle nostre, le abbiamo esaminate, ci abbiamo scritto sopra, abbiamo condiviso il pane da noi stessi spezzato. Speriamo di essere riusciti a tracciare una crepa in quella corazza di indifferenza che ci portiamo appresso tutti i giorni. Mi chiedo se ne è valsa la pena. Mi rispondo che per uno scopo simile ne vale sempre la pena.

Sabato pomeriggio, don Paolo

 

92 anni ed una talare, il sottanone dei preti di una volta, con almeno 41 bottoni. Don Paolo è un prete di una volta in quanto è nato una volta ed ha attraversato quasi tutto il novecento. Ci dice, modesto, che la sua storia merita di

essere tramandata poiché ha avuto la fortuna di affiancarla a quella di don Primo Mazzolari. E´ venuto per parlarci di quest´incontro ma non sembra intenzionato a farlo. Ci parla di ciò che ritiene più importante in questo momento. Ci parla di come va il mondo e di perché va così (geopolitica) e di come dovrebbe andare (speranza) e di come realizzarlo (profezia). Lo incalziamo a parlarci di lui e don Primo, dell´incontro che, per sua stessa ammissione, gli ha cambiato la vita. Lui ci parla della sua vita. Ci racconta le difficoltà di essere parroco con gli ultimi, di essere considerato un prete rosso, di andare controcorrente perché così impone il Vangelo. Dal comizio in piazza dopo le elezioni del ´48 alla casa di accoglienza per migranti aperta nella sua ultima parrocchia. Ha un modo di parlare forte e passionale che ci coinvolge e ci rapisce al racconto. Ad un tratto si accorge che è ora di andare. Gli regaliamo il libro "Perseguiteranno anche voi", «Oh bella! Cosa vuol dire `anche´», ed una bandiera della pace, «La appenderò alla mia finestra». Applauso scrosciante, un gimmino di vecchia data lo ricorda come il più sentito e spontaneo che ricordi. Mentre lo salutiamo qualcuno gli allunga una busta con un´offerta, la rifiuta. Sale poi in macchina e sparisce oltre il cancello. Dopo due minuti l´auto ritorna, ne scende don Paolo che restituisce la busta di prima che qualcuno gli aveva infilato in una tasca. Ci saluta e, `stavolta, se ne va davvero.

E don primo? Non ci ha detto nulla di lui. «La mia unica fortuna è stata incontrare don Primo Mazzolari» ci ha detto, poi ci ha raccontato la sua storia. Dai frutti si riconosce l´albero. Dai vostri frutti riconosceranno le radici del vostro albero. Don Primo Mazzolari radice di futuro.

 

Leo (il profe)

(...Curioso a questo punto? Cosa posso fare io per la Pace? E' davvero nelle mie mani?

Dai un'occhiatina ai nostri appelli:

-Guerra all'Iraq: «Immorale e illegale»;

-Bandiere della Pace o un pezzo di stoffa bianco con scritto "No alla guerra";

-L'Italia Fuori dalla Guerra.

ed ora ritorniamo a Thiene!!!)

 

 

 

Inseriamo a seguire due brevi schede sulla vita dei profeti che ci hanno accompagnato durante la convivenza. 

Inoltre, sono disponibili tutti i testi che abbiamo utilizzato per i laboratori di approfondimento, con i seguenti temi: 

Città, Orizzonti, Noi, Vita, Insieme, Volontariato, Interesse, Avvento, Lontani, Incarnazione, Tu, Arcobaleno. 

Il tutto, a formare la condizione basica per la pace: CONVIVIALITA'   

Segui il nostro itinerario attraverso la parola chiave della convivenza: 

C o n v i v i a l i t à 

Don Primo Mazzolari

Don Primo Mazzolari è nato al Boschetto, frazione di Cremona, il 13 gennaio 1890 da genitori legati alla terra da motivi di lavoro e di atavico attaccamento. Ben presto, nel 1899, la famiglia, che si componeva di due figli, Primo e Peppino, e di tre figlie, Colombina, Pierina e Giuseppina, si trasferì a Verolanuova.
Qui Primo Mazzolari rimase ben poco: a dieci anni, seguendo la vocazione sacerdotale, entrò nel seminario di Cremona dove proseguì gli studi fino all’ordinazione che gli venne data da monsignor Giacinto Gaggia il 24 agosto 1912. Dopo pochi mesi fu inviato come vicario a Spinadesco, e subito dopo, richiamato in seminario a Cremona come insegnante di Lettere. Scoppiata la Prima guerra mondiale, vi partecipa con il fervore dei giovani in quel momento. Congedato nel 1920 andò parroco a Bozzolo, provincia di Mantova, ma diocesi di Cremona,dove cominciò ad assumere posizioni di difesa dei diritti dei poveri. Nel 1922 venne nominato parroco di Cicognara, «il paese delle scope». Qui iniziò la sua opposizione al fascismo. Nel 1932 fu inviato nuovamente a Bozzolo e nel 1949 fondò e diresse il periodico «Adesso» la cui pubblicazione fu sospesa nel 1951. Nel 1957 predicò la Missione a Milano, chiamato dal cardinal Montini. Con l’elezione di Giovanni XXIII entrò nella chiesa una ventata nuova e le idee di don Primo ebbero piena cittadinanza.
Il 5 febbraio 1959 venne ricevuto in udienza privata da papa Roncalli: l’accoglienza che egli ebbe dal Pontefice, come disse al ritorno a Bozzolo ad amici e parenti, lo ripagava di ogni amarezza sofferta. Morì il 12 aprile 1959 nella casa di cura San Camillo di Cremona. Ma le sue idee camminano ancora.

Don Tonino Bello 

    Don Tonino Bello nacque ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935. Fu ordinato sacerdote nel 1957 e nel 1982 divenne Vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, condividendo la sua abitazione con alcune famiglie di sfrattati.Lui contagiava i giovani e chiunque incontrava, con il suo grande amore per la vita e per Cristo, con semplicità e umiltà, con coerenza ed allegria. Il Vescovo che amava la "Chiesa del grembiule", ovvero la Chiesa semplice, facile, povera, sperimentò ben presto la difficoltà di farsi capire su questa lunghezza d'onda evangelica, sulla quale una parte del clero, stentava a sintonizzarsi. Ma non fece difficoltà a comunicare con i giovani, che tanto amava, i quali capirono immediatamente quanto e come, questo piccolo uomo, stava cambiando le coscienze della gente. I poveri poi erano il fulcro dell'attenzione di don Tonino, tanto che li aveva messi sullo stemma all'ingresso del vescovado e ben presto furono al centro di un progetto pastorale che coinvolse tutta la sua diocesi. Ma non solo, la povertà che lui predicava alla sua Chiesa non era retorica, astratta. Era una povertà che lui 
stesso incarnava, nello stile di vita di ogni giorno e rappresentava la misura di ogni sua azione. Si pensi che non teneva per sé nemmeno la congrua di vescovo, che donava ai poveri, agli ultimi a chi aveva bisogno, e alle volte anche a certi strozzini che stavano rovinando le famiglie.
Per questo e per altre iniziative fu attaccato molto ferocemente da certe frange della Chiesa e del mondo laico, ma lui, impassibile, rimase là a disposizione di tutti, accanto agli operai delle Acciaierie Pugliesi che rischiavano il licenziamento, agli immigrati e alle persone colpite duramente dalla guerra, ai giovani, in perenne ricerca di sé stessi, ai quale parlava, parlava tanto. Don Tonino morì per un male incurabile, ma la sua morte non fu giorno di lutto e dolore ma di gioia, di festa per l'inizio di una vita nuova.   

AVVENTO

Il futuro non viene pensato da Dio come continuità rispetto al presente.

Non c'è fedeltà ai suoi progetti che non richieda strappi.

Non c'è fede che non postuli la disponibilità a mutare ra­dicalmente i piani dell'esistere.

Non c'è Chiesa che possa trincerarsi nell'esigenza di es­sere uguale a ieri per salvaguardare la propria identità.

C'è, nella storia, una continuità secondo ragione, che è il futurum. E' la continuità di ciò che si incastra armonicamen­te, secondo la logica del prima e del dopo. Secondo le cate­gorie di causa ed effetto. Secondo gli schemi dei bilanci, in cui, alle voci di uscita, si cercano i riscontri corrispondenti nelle voci di entrata: finché tutto non quadra.

E c'è una continuità secondo lo Spirito, che è l'adventus.

E' il totalmente nuovo, il futuro che viene come muta­mento imprevedibile, il sopraggiungere gaudioso e repentino di ciò che non si aveva neppure il coraggio di attendere.

In un canto che viene eseguito nelle nostre chiese e che è tratto dai salmi si dice: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: ha fatto germogliare i fiori tra le rocce!». Ecco, adventus è questo germogliare dei fiori carichi di rugiada tra le rocce del deserto battute dal sole meridiano.

Promuovere l'avvento, allora, è optare per l'inedito, acco­gliere la diversità come gemma di un fiore nuovo, come pri­mizia di un tempo nuovo. Cantare, accennandolo appena, il ritornello di una canzone che non è stata ancora scritta, ma che, si sa, rimarrà per sempre in testa all' hit parade della sto­ria.

Mettere al centro delle attenzioni pastorali il povero, è av­vento. E' avvento, per una madre, amare il figlio handicappa­to più di ogni altro. E' avvento, per una coppia felice e con fi­gli, mettere in forse la propria tranquillità avventurandosi in operazioni di "affidamento" con tutte le incertezze che tale ulteriore fecondità si porta dietro, anzi, si porta avanti.

E' avvento, per un giovane, affidare il futuro alla non-co-pertura di un impegno sociale in terre lontane, all'alea di un servizio umanitario che, se non è mai ricompensato sul piano economico, qualche volta non gratifica neppure su quello morale.

E' avvento, per una comunità, condividere l'esistenza del terzomondiale e sfidare l'opinione dei benpensanti che si chiude davanti al diverso, per non permettere infiltrazioni in­quinanti il proprio patrimonio culturale e religioso.

Per Antonella, mia amica, è avvento abbandonare le lu­singhe della camera sportiva e, dopo aver frequentato l'Isef, farsi suora di clausura. Per madre Teresa di Calcutta avvento è abbandonare la clausura e "farsi prossimo" sulle strade del mondo.

«Ecco come è avvenuta la nascita di Gesù» (Matteo 1,18): per promuovere l'avvento. Dio è partito dal futuro.

         (Don Tonino Bello, Ascolta la Parola)

 

 

Coincidenze

ovvero le gioie dei poveri

 

Quella notte ero salito su di un vagone di seconda classe. Con i pochi viaggiatori che imbarcava e con i tanti scompartimenti vuoti a disposizione, quel treno per Roma era molto comodo per me, soprattutto quando, non avendo avuto tempo per prepararmi di giorno, ero costretto a studiare di notte. Quella volta, poi, ero particolarmente preoccupato. La mattina seguente avrei dovuto tenere la relazione di fondo in un convegno importante, e contavo proprio su quelle otto ore di viaggio per organizzare il mio discorso. Mi ero già sistemato in uno scompartimento vuoto e avevo appena tirato le tendine, dopo aver sparpagliato sui sedili libri e riviste, quando sentii scorrere il portello, ed un signore sulla trentina mi chiese con un sorriso: "Scusi, lei non è il Vescovo di Molfetta?". Non feci in tempo ad accennargli di si, che replicò soddisfatto: "Che bella fortuna! Ora vengo qui da lei e cosi, chiacchierando, la notte passerà in un baleno". Pensavo che la freddezza con cui mostrai di accogliere la sua proposta lo avrebbe scoraggiato. Ma quello, nonostante il fastidio che mi si leggeva chiarissimo in faccia, dopo qualche minuto fece irruzione nel mio rifugio con due pesanti valigie, e io fui costretto a ritirare gli appunti sparsi qua e la sui sedili di velluto, in attesa, speravo, che il mio importuno interlocutore si potesse addormentare. Attacco subito il discorso, dopo essersi seduto difronte a me. Parlava a ruota libera e, benché, io gli replicassi con monosillabi amari, dilagava come un fiume in piena. Mi disse che era un marittimo, e che andava a raggiungere la sua nave ancorata a Livorno. Era scappato a casa per due giorni, poiché la più grande delle sue bambine aveva fatto la prima comunione. Mi fece vedere le foto di famiglia, mi spiava l'espressione del viso, e pretese il mio giudizio perfino sulla bellezza di sua moglie. Mi confidò che le voleva un bene da morire, che quando poteva le telefonava ogni sera, anche dall'Australia, e che, nonostante le mille seduzioni di tutte le città portuali del mondo, non l'aveva mai tradita. Chiusi i libri e mi misi ad ascoltarlo: cominciava ad interessarmi. Non aveva certo un'aria bigotta. Parlava con incredibile naturalezza di donne, di attrici, di moda, di calcio, di politica, di musica rock… passando da un argomento all'altro senza forzature con una straordinaria carica di simpatia. Crepitavano nelle sue parole sarmenti di antichi focolari. Mi disse che amava la vita. Che l'unico rimpianto era quello di aver scelto un mestiere cosi triste che lo teneva otto mesi su dodici lontano dalla famiglia. Ma che doveva ancora continuare per qualche anno, se il Signore gli dava salute, perché si era comprato un appartamento delle case popolari e doveva finire di pagarlo. Che anzi aveva intenzione di acquistare un campicello per camparsi la vita. Che lui non ci teneva ad arricchirsi dopo che aveva visto la miseria dell'Africa sui cui porti sbarcava spesso con la nave. E che la ricchezza più grande è la salute. E che non c'è nessuna cosa al mondo che possa darti tanta gioia quanto l'amore della tua donna, la buona riuscita dei figli, e una partita a carte in casa con gli amici nelle sere d'inverno. Il treno cadenzava i ritmi del mio interlocutore, e io mi andavo chiedendo se il soprassalto di tenerezza che provavo nell'ascoltarlo derivava dal ridestarsi di archetipi sepolti ormai nella mia coscienza, oppure dalla sorpresa di trovarmi difronte ad un rarissimo esemplare scampato al cataclisma dei consumi, oppure alla constatazione che nel mondo c'è ancora una economia sommersa di bontà più estesa di quel che pensi. Vibrava nelle sue espressioni la gioia di vivere. Ogni frase grondava di allusioni a ineffabili letizie di povera gente: l'attesa di sagre paesane straripanti d'incontri, l'incanto di vigilie natalizie popolate di parentele, la fitta trama di rapporti umani profumati di solidarietà. Parlando dei suoi sacrifici, faceva spesso dell'auto ironia scoppiando a ridere, e gli occhi gli brillavano, di commozione o di fierezza, quando raccontava della premura giornaliera con cui sua moglie assisteva una anziana vicina di casa. Ero letteralmente assorto nell'ascolto di quel compagno di viaggio, che mi aiutava a scoprire, nei sotterranei del mio essere, piccole gioie antiche che avevo rimosso da tempo: sapori verginali di intimità casalinghe, misteri di brividi nuziali che ti legano alle cose, freschezza di abbandoni all'ala fragile dell'amicizia. Mi andavo chiedendo quale fosse il segreto di quell'esistenza umanamente così armonica, quando, all'improvviso, mi rivelò: "Io leggo ogni giorno il Vangelo! Lo faccio sempre ogniqualvolta, durante la navigazione, ho un momento di libertà". Non dovetti mostrare di prendere sul serio la sua dichiarazione perché aggiunse: "Vedo che non crede molto a ciò che le ho detto". E si alzò a prendere una valigia che depose pesantemente sulla poltrona. La spalancò ed in cima alla biancheria, fermato dalla cinghietta, scorsi "Il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo". Me lo porse e io, invece che alla prima, lo sfogliai per caso all'ultima pagina, su cui, scritte in matita, lessi queste annotazioni: "Finito di leggere la prima volta il 3 Ottobre 1980 presso lo stretto di Gibilterra… finito di leggere la seconda volta nella baia di Sidney… finito di leggere la quinta volta…". Chi sa per quale suggestione, mi vennero in mente le parole della Gaudium et Spes: Le gioie degli uomini d'oggi…dei poveri soprattutto, e di coloro che soffrono… sono le gioie dei discepoli di Cristo. Il Vangelo mi rimase chiuso su quell'ultima pagina. Ma dovetti richiuderlo subito: ero giunto a Roma. Anzi, molto più in la di Roma. Ero giunto in quell'arcana stazione dello spirito, dove il treno delle gioie dei poveri e il treno delle gioie dei discepoli di Gesù facevano coincidenza. O meglio coincidevano. Formando lo stesso convoglio verso l'unica direzione del Regno.
P.S. la conferenza andò benissimo. Non mi ero mai preparato così!

 (don Tonino Bello, tratto da "Scrivo a voi… lettere di un Vescovo ai catechisti ", pagg 82-84)

 

VOLONTARIATO

 

Io non credo che il volontariato vada inteso come produt­tore ed erogatore di servizi soltanto.

Intanto è generatore di coscienza critica, è fattore di cam­biamento della realtà, più che titolare di un assistenzialismo inerte. L'interesse per la marginalità deve giungere alla stronca­tura serrata dei processi di emarginazione: lo stile della de­nuncia non deve essergli estraneo. D volontariato è chiamato a schierarsi. Non può rimanere neutrale. Non deve essere pa­cificato. Pacifico, sì, nonviolento. Deve saper cogliere il si­gnificato conflittuale della povertà. Non gli è consentito di starsene buono in un angolo mentre sa che in Italia ci sono 8 milioni e mezzo di poveri e che, nel Meridione, un terzo del­la popolazione non si trova garantita a nessun livello, né so­ciale, né economico, né culturale, eccettuato il livello della pura sussistenza.

Non gli è lecito mantenersi equidistante quando vede che il Sud d'Italia è il luogo paradigmatico dove si manifestano gli stessi meccanismi perversi che, certamente in modo più articolato, attanagliano tutti i Sud della terra. Questa nuova visione planetaria, che ci fa scorgere come i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno, deve spingere il volontariato a decidersi da che parte stare: se vuole che la sua posizione sia demolitrice delle strutture di peccato, o rimanga invece una semplice opera di contenimento e di controllo sociale, di utile ammortizzatore, tutto sommato funzionale al sistema che tali sperequazioni produce e coltiva.

 

(Don Tonino Bello, da “Chiesa di parte”)

 

 

 

Noi ci impegniamo, noi e non gli altri

Una poesia scritta da don Primo Mazzolari

che esprime bene l'atteggiamento di fondo di chi fa volontariato

 

Ci impegniamo noi, e non gli altri;

unicamente noi e non gli altri;

né chi sta in alto, né chi sta in basso;

né chi crede, né chi non crede.

 

Ci impegniamo,

senza pretendere che gli altri si impegnino,

con noi o per conto loro,

come noi o in altro modo.

 

Ci impegniamo

senza giudicare chi non s’impegna,

senza accusare chi non s’impegna,

senza condannare chi non s’impegna

senza disimpegnarci perché altri non s’impegnano.

 

Ci impegniamo

perché non potremmo non impegnarci.

 

C'è qualcuno o qualche cosa in noi,

un istinto, una ragione,

una vocazione, una grazia,

più forte di noi stessi.

 

Ci impegnamo per trovare un senso alla vita

a questa vita,

una ragione che non sia

una delle tante ragioni,

che ben conosciamo

e che non ci prendono il cuore.

 

Si vive una sola volta

e non vogliamo essere "giocati"

in nome di

nessun piccolo interesse.

 

Non ci interessa la carriera,

non ci interessa il denaro,

non ci interessa

la donna o l'uomo se presentati

come sesso soltanto,

non ci interessa il successo

nè di noi nè delle nostre idee,

non ci interessa passare alla storia.

 

Ci interessa di perderci

per qualche cosa o per qualcuno

che rimarrà anche dopo che noi

saremo passati

e che costituisce la ragione

del nostro ritrovarci.

 

Ci impegnamo a portare un destino

eterno nel tempo,

a sentirci responsabili

di tutto e di tutti,

ad avviarci,

sia pure attraverso un lungo errare,

verso l'amore.

 

Ci impegnamo non per riordinare il mondo,

non per rifarlo su misura,

ma per amarlo;

per amare anche quello 

che non possiamo accettare,

anche quello che non è amabile,

anche quello che pare rifiutarsi all'amore,

poichè dietro ogni volto e sotto ogni cuore c'è,

insieme a una grande sete d'amore,

il volto e il cuore dell'amore.

 

Il mondo si muove se noi ci muoviamo,

si muta se noi mutiamo,

si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura.

 

La primavera incomincia con il primo fiore,

la notte con la prima stella,

il fiume con la prima goccia d’acqua

l’amore col primo pegno.

 

Ci impegniamo

perché noi crediamo nell’amore,

la sola certezza che non teme confronti,

la sola che basta

a impegnarci perpetuamente.

 

(Don Primo Mazzolari)

 

CITTA' NUOVA

 

Mi sovviene l’espressione di un grande testimone del nostro tempo, Giorgio La Pira, il quale diceva che noi credenti siamo oggi chiamati a costruire una città nuova attorno alla fontana antica.

La fontana antica è Lui, il Signore Gesù, il Principe della pace. Dal suo capo fluente si diparte, in interminabili riga­gnoli, l'olio dello Spirito Santo verso i suoi consacrati me­diante l'Ordine Sacro. Da questi, verso tutto il popolo. E dal popolo, verso gli estremi confini della terra.

La città nuova dobbiamo essere noi, pietre viventi di que­sta costruzione, investiti come non mai della missione plane­taria di annunciare la pace al nostro mondo frantumato, e far­lo diventare "cosmo", cioè bellezza.

Dobbiamo essere noi questa "città nuova" posta sopra il monte, la cui planimetria, degradando dalla fontana verso il mare, si staglia tra due disegni stupendi del profeta Isaia.

Il primo l'abbiamo ascoltato poco fa, e ci indica il "fuo­co" di partenza di questa città, con i suoi punti di fuga, con le sue spinte architettoniche, col suo piano regolatore. D Signo­re ci ha mandati «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fa­sciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di misericordia del Signore».

Il secondo disegno di Isaia ci indica l'orizzonte d'arrivo, o, se vogliamo, il principio urbanistico ispiratore della nuova città costruita attorno alla fontana antica: «Forgeranno le lo­ro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non al­zerà più la spada contro un altro popolo, e non si esercite­ranno più nell'arte della guerra».

Ora, se è vero che la pace è l'insieme dei beni messianici, e noi oggi ci riconosciamo solennemente davanti all'altare come popolo di "messìa", e quindi titolari e amministratori di questi beni, dobbiamo fare della pace il nostro annuncio fondamentale. Non l'accessorio delle nostre esuberanze omi-letiche. Non la frangia marginale dei nostri discorsi. Non l'appendice del nostro impegno cristiano.

La pace non è tanto un problema morale, quanto un pro­blema di fede. Perché, più che il nostro agire, tocca il nostro essere di persone "conformate a Cristo" in profondità.

Oggi dobbiamo prendere coscienza che la pace non è il lago dei cigni dove precipitano i ruscelli delle nostre sdolci­nate esercitazioni mistiche; o gli immissari dei nostri gesti ro­mantici fatti di abbracci, di canzoni e fiaccolate; o gli affluen­ti delle nostre fantasiose simbologie con intrecci di colombe e ramoscelli d'ulivo.

Quello della pace è il discorso teologico più robusto e più serio che oggi si possa fare, perché affonda le sue radici nel cuore del mistero trinitario.

Se infatti pace è, come oggi si dice, "convivialità delle differenze", e se è vero che la Santissima Trinità è anche essa "convivialità delle differenze", dobbiamo concludere che "pace" è la definizione più vera del mistero principale della nostra fede, in cui contempliamo tre Persone uguali e distinte che siedono attorno al banchetto dell'unica natura divina.

Di qui, il nostro compito storico di saper stare insieme a tavola. Non basta mangiare: pace vuoi dire mangiare con gli altri.

Di qui, il nostro compito storico di far sedere all'unica ta­vola i differenti commensali, senza pianificarli, senza uniformizzarli, senza schedarli, senza omologarli. Noi, popolo messianico o crismale, dobbiamo essere i ministri di questo convito.

 

(Don Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)

 

 

Verso la Gerusalemme del cielo

 

"Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb. 13,14). La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace. C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo di pace! Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella. Perché è l'icona della speranza. Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non ancora". Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far maturare nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia, la libertà. E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la tenerezza... Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio con noi. "Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo 71). La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già" sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli nuovi e terra nuova".

 

(Don Tonino Bello, Testo base del discorso pronunciato

al Congresso nazionale di Pax Christi,

a Rocca di Papa, 1,8 dicembre 1986)

 

 

 

IL VOLTO FERIALE DELLA PACE

 

Carissimi,

dovremmo abituarci ad abbinare la Pace a parole più quotidiane.

Parliamo quasi sempre di festa della Pace, marce della Pace, veglie della Pace, tavole rotonde sulla Pace.

Ne deriva l'immagine distorta che la Pace riesca ad andare d'accordo solo con compagne fortunate. Che si mostri in pubbli­co solo con coloro che hanno sfondato. Che accetti di apparire in vetrina solo con realtà di rango superiore. O di passeggiare in tandem unicamente con seguaci blasonate.

Forse è arrivato il momento di capire che, oltre che di festa, dovremmo poter parlare di ferialità della pace.

Invece che coniugarla sempre con le marce, dovremmo ap­paiarla un po' più con i percorsi quotidianiche, in linea ordinaria, sono scanditi su ritmi scarsamente eroici.

Al di là delle veglie, cariche di vibrazioni emotive e risonanti di salutari utopie, dovremmo prendere atto che la Pace si costrui­sce anche nei sonnolenti meandri della storia e cresce anche nel­le pieghe sotterranee dell'esistenza. E non è blasfemo affermare che, al di là dei velluti delle tavole rotonde, la Pace si costruisce sul ruvido tavolo del falegna­me come sul desco del contadino. Sulla cattedra dell'insegnante còme sulla scrivania dell'impiegato. Sullo scanno dello scolaro come sulla mensola della casalinga. Sull'impalcatura del metalmeccanico come su ogni banco impoetico dove si consu­mano le più oscure fatiche giornaliere.

Riappropriamoci, come popolo di poveri, di una ricchezza che ci appartiene. Democratizziamo la Pace. Spogliamola di ogni livrea aristocratica che ce la fa sentire estranea e lontana. Preten­diamone la discesa dai pinnacoli di tutte le case bianche del mon­do fin nelle catapecchie dei miserabili; e dalle torri di ogni cremlino della terra fin nelle strade delle periferie, nel cui fango germoglia­no larve di giustizia ancora in attesa di liberazione.

Fabbrichiamo la «Pace fatta in casa», senza aspettarcela dalle «erogazioni di Stato». Prendiamo coscienza che i cuori disposti al perdono e alla comunione sono l'unica miniera da cui si estrae la materia prima della Pace, senza la quale anche le più autorevoli Cancellerie diplomatiche potranno offrirci solo ambigue sofistica­zioni e sterili surrogati.

Abbiniamo con più coraggio la Pace a quelle espressioni che solo la paura di apparire sognatori ci impedisce di adoperare:

amore globale della vita, sapore di Vangelo, bisogno profondo di felicità, tenerezza e stupore, amicizia e dialogo, poesia e umiltà, impegno e speranza...

Sono queste le armi della Pace, senza di che la Pace delle armi, nel migliore dei casi, sarà solo la Pace dei cimiteri.

Un caro saluto. Vostro

 

 

 

+ don TONINO, Vescovo

 28 settembre 1986

 

 

CHI VEDE IL FRATELLO VEDE IL PADRE

 

«Vi mando a tutti gli uomini», dice il Vangelo. «Chi ascolta voi ascolta me; a chi perdonerete sarà perdonato».

Qualcheduno di noi ha creduto che qui la generosità del Padre attraverso le parole del Cristo avesse toccato il colmo. No: non è il sacerdote che rappresenta il momento cul­minante di questa partecipazione, o di que­sta comunione del Padre. Siete voi, ognuno di voi.

Confrontate quelle parole che vi ho det­te con queste che incomincio a dirvi: «Io avevo fame e tu non m'hai dato da mangia­re; io avevo sete e tu non m'hai dato da be­re; io ero senza casa e tu non m'hai ospitato;

io ero ignudo e tu non m'hai vestito; io ero prigioniero e tu non sei venuto a trovarmi».

Chi vede il fratello vede il Padre: è una delle affermazioni che si trovano tra le frasi non scritte nell'Evangelo ma raccolte nei primi testi ecclesiali. Quando il Signore vuo­le che sia preparata la pasqua nel cenacolo dice: «Vengo a far la pasqua coi miei». Se uno rimane fuori, o miei cari fratelli, il Si­gnore rimane fuori.

Ci sono le chiese piene, mi dicono. Vor­rei domandarvi - non abbiatevene a male -:

e quelli che sono fuori, li abbiamo dentro, o miei cari fratelli, nella nostra ospitalità cri­stiana? E facile credere in un Padre che non ha figliuoli, se non noi... l'unico figlio!

Non si può, o miei cari fratelli, entrare nella casa di tutti col nome del Padre e la­sciarne fuori uno.

Anche la Comunione. Tocco la balau­stra: è facile ricevere una Presenza eucaristi­ca dove il colloquio finisce per diventare il piccolo dialogo del nostro egoismo, sia pure spirituale. E facile guardare un'Ostia, anche con un occhio di fede. Ma che tremenda re­sponsabilità se, dopo aver aperto il nostro occhio su questa Presenza eucaristica, noi non sappiamo discernere il volto del fratello. C'è qualche cosa, o miei cari, che la paterni­tà del Padre stabilisce inequivocabilmente per me, per tutti.

 

(Don Primo Mazzolari, “Il Padre Nostro” p. 91-92)

 

 

INCARNARE

 

Viene citata spesso.

Ma viene ancora vissuta poco.

E' una espressione che San Paolo usa scrivendo ai cristia­ni della Galazia.

In quella regione c'erano alcuni nostalgici i quali preten­devano che tutti coloro che volessero farsi cristiani dovevano prima diventare ebrei. In altri termini, chi desiderava ricevere il battesimo era costretto a passare attraverso la lunga trafila delle prescrizioni giudaiche, in testa alle quali figurava la cir­concisione.

Era un autentico capovolgimento del Vangelo, il quale, invece, obbligava il credente a farsi ebreo con gli ebrei, greco con i greci, schiavo con gli schiavi... per guadagnare tutti a Cristo.

Nello stile del Vangelo, cioè, la conversione primordiale è quella di chi annunzia la fede, non quella di chi la riceve. E' chi la proclama che deve "Farsi prossimo", che deve smonta­re da cavallo, che deve diventare "indigeno", che deve entra­re nella "carne" dell'altro.

Come ha fatto il Signore, del resto, il quale col suo esem­pio ha stabilito una legge inflessibile: non si compie nessuna salvezza, se prima non ci si incarna.

Figurarsi come doveva reagire San Paolo contro coloro che distorcevano a tal punto questa legge da pretendere che fosse "l'altro" a entrare nei panni dell'evangelizzatore e non l'evangelizzatore a deporre il suo guardaroba!

Eccolo allora sbottare in quelle frasi che indicano tutta l'indignazione di chi non tollera che si possa usare, neppure a fin di bene, la benché minima violenza mentale verso le per­sone.

Tra queste frasi, proprio nella lettera ai Calati, giustamen­te definita "il manifesto della libertà del cristiano e dell'uni­versalità della Chiesa", ce n'è una che riassume il "credo" re­ligioso di San Paolo sulla fondamentale uguaglianza di tutti gli uomini tra loro, sulla dignità delle loro appartenenze cul­turali, sulla loro vocazione all'unità in Cristo Gesù: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (3,28).

Con questa frase Paolo rovescia sulla terra le esigenze ra­dicali del mistero trinitario che si contempla nel cielo.

Ed eccoci al punto.

Tutto il discorso che si fa oggi nella Chiesa sull'acco­glienza, sulla prossimità, sulla convivialità delle differenze, sullo scambio culturale deve partire da questo cardine trini­tario!

Non per nulla, insieme con la realtà dell'Incarnazione, quello della Santissima Trinità è il mistero principale della nostra fede.

Beninteso: della nostra fede e della nostra morale. D no­stro spessore etico, cioè, consiste nel tradurre con gesti feriali la contemplazione festiva del mistero trinitario, scoprendo in tutti gli esseri umani la dignità della persona, riconoscendo la loro fondamentale uguaglianza, rispettando i tratti caratteri­stici della loro distinzione.

 

(Don Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)

 

Il cristiano è un "uomo di pace"

non un "uomo in pace":

fare la pace è la sua vocazione

  

Pare a molti che invece di servirci della ragione per arrivare alla pace, la sospendiamo, per timore che la pace faccia saltare il mondo dei nostri interessi. 

Finora la pace ha trovato sulla sua strada più moderatori che cultori, più paura che fiducia: la paura di morire non di far morire. 

Molti, invece di considerarla un crimine, poiché facendo la guerra si uccide, la tengono come una disgrazia, per il fatto che in guerra si puo' essere uccisi. 

Quando si parla di pace bisogna parlarne come ne parlano i fanciulli, non pensando a nient'altro, non negando con le mani o col cuore ciò che le labbra dicono. 

La pace è un bene pieno: sulla pace non si ragiona né si distingue. E' una parola che non sopporta aggiunte: una parola cristiana. 

Da quando i cristiani si sono messi a "ragionare sulla pace, a porre delle condizioni "ragionevoli" alla pace, a mettere davanti a loro "giustizie", non ci siamo capiti, neanche in cristianità, ed è stata la guerra. 

Tutto il mondo ha "ragione" o crede di averla. La ragione va con tutti, e finirà di stare col lupo, non con la pecora, la sola che avrebbe veramente ragione, se non invidiasse il lupo e non cercasse di superarlo. 

La pace vuole un linguaggio semplice, senza riguardi di persone, senza retorica, senza crociate. 

"Pace a voi!" 

"Sia Pace a questa casa!" 

"Vi do la mia pace!" 

Rimanete nella mia pace!" 

E si mettevano sulla strada, a due a due, senza borsa, senza bastone, senza niente. 

La gente li scherniva, quasi fossero dei pazzi; qualcuno pero' li fermava, mormorando: e se avessero ragione? 

Ma dietro non avevano nessuno e niente. 

Non erano attaccati a nessuno, a niente: essi erano attaccati all'uomo, alla sua anima, alle sue tribolazioni, poiché l'uomo era entrato nel loro cuore assieme al Figlio dell'uomo, col nome di fratello. 

Così è cominciato il Vangelo di Pace 

  

(Don Primo Mazzolari,da “Tu non uccidere”)

 

INSIEME

Per noi Chiesa, quell'insieme" non è solo una condizio­ne ineludibile per "camminare", ma esprime un modo so­stanziale per "essere". Se è vero che la Chiesa è "popolo adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", come dice il Conci­lio; se è vero che invochiamo lo Spirito perché tutti "diven­tiamo un solo corpo e un solo spirito", come si esprime la li­turgia della messa; se è vero che la Chiesa è "propaggine del­la comunità divina", come scriveva Romano Guardini; se è vero che essa è "icona della Santa Trinità", come si espri­mono i teologi di oggi, nel senso che viene dalla Trinità, è strutturata a immagine della Trinità, e va verso il compimen­to trinitario della storia; se, dunque, la Trinità è la sorgente, l'immagine esemplare e la meta ultima della Chiesa; se è ve­ro che la Trinità è il "già" e il "non ancora" di essa; se è ve­ro tutto questo... dobbiamo concludere che, come nella SS. Trinità, anche nella Chiesa la comunione di persone entra nel suo costitutivo essenziale. Insieme, quindi, per "essere", e non solo per "camminare". Non vi sembrino inutili appesantimenti dottrinali questi riferimenti teologici. Se non comprendiamo che la Chiesa è "Oriens ex alto" (che nasce dall'alto), che ha, cioè, nella Tri­nità l'origine, il modello e la meta non solo della sua missio­ne, come più volte si esprime il recente documento "Comu­nione e comunità missionaria", ma anche del suo stesso es­sere, allora tutti i nostri richiami all'"insieme", all'"unità", al­la "comunione", sembreranno solo manifestazione dell'ansia di chi vuoi contare di più, incidere di più, produrre di più, ap­parire di più. Nella sottolineatura della "Ecclesìa de Trinitate" (Chiesa che nasce dalla Trinità) non si nasconde il calcolo del prover­bio che dice "l'unione fa la forza". C'è, invece, la esigenza di far capire che, se l'albero è la Trinità, mistero di comunione, la Chiesa, che su quest'albero matura, non può vivere la di­sgregazione delle persone, il molecolarismo dei progetti, la frantumazione degli sforzi. Se no, non è Chiesa. Sarà orga­nizzazione del sacro, consorteria di beneficenza, fabbriceria del rito, multinazionale della morale. Ma non Chiesa. 

Dai frutti li conoscerete, ha detto Gesù. Se dai frutti non ci è dato risalire al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, vuoi dire che non ci troviamo di fronte alla Chiesa. Se ho un tantino indugiato su questi richiami dottrinali è perché sento che è venuta l'ora di dare una seria fondazione teologica al nostro bisogno di comunione. Comunione, che, lo ripeto, non nasce dalla necessità di stringere le fila o dal­l'urgenza di serrare i ranghi per meglio far fronte al mondo che ci incalza. La comunione nasce da una ineluttabilità on­tologica, non da un calcolo aziendale. Sicché, nelle espressioni che spesso scegliamo come tito­lo dei nostri convegni: "Insieme per camminare, insieme per spezzare il pane, insieme per pregare, insieme per lottare...", nessuno sposti l'attenzione sul verbo dicendo: "Purché si cammini, purché si spezzi il pane, purché si preghi, purché si lotti...". La forza della frase poggia sull'avverbio "insieme".

Don Tonino Bello, da “Lessico di comunione”

 

In principio, la Trinità

 

Una delle cose più belle e più pratiche messe in luce dalla teologia in questi ultimi anni è che la SS. Trinità non è solo il mistero principale della nostra fede, ma è anche il principio architettonico supremo della nostra morale. Quella trinitaria, cioè, non è solo una dottrina da contemplare, ma un'etica da vivere. Non solo urta verità tesa ad alimentare il bisogno di trascendenza, ma una fonte normativa cui attingere per le nostre scelte quotidiane. Gesù, pertanto, ci ha rivelato questo segreto di casa sua non certo per accontentare le nostre curiosità intellettuali, quanto per coinvolgerci nella stessa logica di comunione che lega le tre persone divine.

Nel cielo tre persone uguali e distinte vivono così profondamente la comunione, che formano un solo Dio. Sulla terra più persone, uguali per dignità e distinte per estrazione, sono chiamate a vivere così intensamente la solidarietà, da formare un solo uomo, l'uomo nuovo: Cristo Gesù. Sicché l'essenza della nostra vita etica consiste nel tradurre con gesti feriali la contemplazione festiva del mistero trinitario, scoprendo in tutti gli essere umani la dignità della persona, riconoscendo la loro fondamentale uguaglianza, rispettando i tratti caratteristici della loro distinzione. C'è da aggiungere, poi, che nel cielo le ricchezze proprie di una persona divina sono così trasferibili dall'una all'altra (c'è, potremmo dire, un così intenso scambio culturale tra Padre, Figlio e Spirito), che la teologia per indicare questo fenomeno ha dovuto coniare un'espressione forse un po' difficile per i non addetti ai lavori, ma estremamente significativa: la comunicazione degli idiomi. Ebbene, l'imperativo etico che ne deriva per coloro che vivono sulla terra è che se tengono sotto sequestro le proprie risorse spirituali o materiali senza metterle a disposizione degli altri, non possono esimersi dall'accusa di appropriazione indebita.

Convivialità delle differenze

Possiamo concludere, allora, che il genere umano è chiamato a vivere sulla terra ciò che le tre persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze. Che significa? Nel cielo, più persone mettono così tutto in comunione sul tavolo della stessa divinità, che a loro rimane intrasferibile solo l'identikit personale di ciascuna, che è rispettivamente l'essere Padre, l'essere Figlio, l'essere Spirito Santo. Sulla terra, gli uomini sono chiamati a vivere secondo questo archetipo trinitario: a mettere, cioè, tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità, trattenendo per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit personale. Questa, in ultima analisi, è la pace: la convivialità delle differenze. Definizione più bella non possiamo dare. Perché siamo andati a cercarla proprio nel cuore della SS. Trinità. Le stesse parole che servono a definire il mistero principale della nostra fede, ci servono a definire l'anelito supremo del nostro impegno umano. Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma non è neppure l'equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra. Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli. Convivialità delle differenze, appunto.

La Trinità, tavola promessa 

Ma c'è di più: la vita trinitaria del cielo non è solo un modulo da rovesciare sulla terra perché gli uomini ne vivano le esigenze radicali con uno sforzo di imitazione fine a se stessa. La Trinità, cioè, non è solo un archetipo da riprodurre, ma è una tavola promessa alla quale un giorno avremo la sorte dì sederci, all'unica condizione che anche sulla terra ci si alleni a stare insieme con gli altri attorno alla stessa mensa della vita. Dopo che sulla terra ci saremo impegnati a essere una sola cosa nel Cristo, divenuti "Figli nel Figlio", prenderemo posto "per ipsum, cum ipso et in ipso" al tavolo della Santissima Trinità. Come è dato vedere, il Signore Gesù se ci ha rivelato questo mistero, non l'ha fatto certo per complicarci le idee. Ma l'ha fatto per offrirci un principio permanente di critica cui sottoporre tutta la nostra vita nelle sue espressioni perso-nali e comunitarie, e per indicarci, nel contempo, il porto al quale attraccheremo finalmente la nostra barca. Sicché la Trinità non è una specie di teorema celeste buono per le esercitazioni accademiche dei teologi. Ma è la sorgente da cui devono scaturire l'etica del contadino e il codice deontologico del medico, i doveri dei singoli e gli obblighi delle istituzioni, le leggi del mercato e le linee ispiratrici dell'economia, le ragioni che fondano l'impegno per la pace e gli orientamenti di fondo del diritto internazionale. La Trinità, dunque, è una storia che ci riguarda. Ed è a partire da essa che va pensata tutta l'esistenza cristiana. Bloch diceva che Dio è un padrone collocato così in alto, che l'uomo, il servo, di fronte a lui rimane a bocca asciutta. Nulla di più falso, almeno per il nostro Signore, il quale, se si è rivelato uno e trino, è perché vuol far sedere il servo alla tavola delle sue ricchezze.

 

(Tratto da: "La famiglia come laboratorio di pace", Prato 10 settembre 1988)

 

 

Interesse: OCCHI NUOVI

 

Nella preghiera eucaristica ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell'uso corrente, come ad esempio l'espressione “nuove povertà”.

La frase è questa: "Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli...”.

Essa ci suggerisce tre cose.

Anzitutto che, a fare problema, più che le “nuove povertà”, sono gli “occhi nuovi” che ci mancano. Molte povertà sono “provocate” proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall'egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che “rende” in termini di produttività. Sono così vittime di quel male oscuro dell'accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell'interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità di implorare “occhi nuovi”. Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all'improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d'attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre.

Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa.

Oltre alle miserie nuove “provocate” dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono “tollerate”. Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch'esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l'uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione.

E infine ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono “rimosse”. Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: “Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di “aggredirle”. Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l'olocausto dei valori ambientali, sull'altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari.

Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I popoli della fame uccisi dai detentori dell'opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell'essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi. Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott'acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema. Occorre chiedere “occhi nuovi”.

“Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia.

Donaci occhi nuovi, Signore”.

 

(don Tonino Bello)

 

PIETRE DI SCARTO

 

Carissimi sono un po' triste perché so che questa lettera forse non la leggerete. Quelli che non contano niente, di solito, giornali non ne comprano. Prima di tutto perché non hanno soldi da sprecare. E poi perché i giornali sono diventati difficili. Anche quelli di Chiesa. Si rivolgono quasi sempre a persone istruite. E trattano argomenti che non hanno nulla a che fare con i problemi che voi vivete, con le difficoltà in cui vi dibattete, con l'indifferenza che vi circonda. Voi non fate storia. Qualche volta fate cronaca: quasi sempre cronaca nera. Eppure, chi conosce la trama dei vostri giorni sfilacciati sa che avreste da raccontare tanta cronaca bianca, da far trasalire la città. Ma la cronaca bianca non fa notizia. Voi non fate storie.Perché non sapete parlare. E, anche quando vi sentite bruciare dentro le ingiustizie della terra, le parole vi muoiono in bocca. Anzi, vi capita spesso di pensare che, forse, ad av3er torto siete voi. Voi non fate peso. Eppure siete turba. Quelli che contano si ricordano di voi all'occasione del voto. Ma dopo quel momento, siete solo di peso. Voi appartenete al mondo sommerso della città. Quello che non cambia mai. Perché, i mutamenti riguardano quasi sempre la superficie. Come succede sul mare: oggi é scirocco e le onde vanno di qua, domani é tramontana e le onde sbattono di là. I fondali, però, rimangono inalterati. La politica vi passa sulla testa.Ogni tanto, di sopra, cambia lo "scenario", come dicono oggi. Ma voi rimanete sempre sotto la botola. Al massimo, bene che vi vada, raggiungete il livello di calpestio. Anche la religione vi passa sulla testa. É vero che qualche volta vi afferra il cuore, fino a farvi lacrimare. Ma più per quei crepacci di mistero che si aprono sul pavimento, che per quelle fessure di luce che si squarciano sul tetto. Di solito, voi rimanete estranei all'eloquenza del rito. Vi sfugge la profondità dei segni. Non capite il senso di certe parole. Ebbene, con la stessa sofferenza ma anche con la stessa speranza di Gesù che ebbe compassione delle folle, desidero rivolgermi proprio a voi. A voi che non contate nulla agli occhi degli uomini, ma che davanti agli occhi di Dio siete grandi. Appunto, questa é la cosa più urgente che voglio dirvi: davanti agli occhi di Dio voi siete grandi. Per lui, infatti, meriti personali a parte, Giovanni Paolo II é importante come Antonio, che fa il subacqueo di frodo per campare la sua famiglia. Gorbaciov vale quanto Pantaleo che, come un ebete, se ne va in giro tutto il giorno col cane. E Nelson Mandela, liberato nella gloria, ha le stesse quotazioni di Said, negro anche lui, ma che, braccato dal disinteresse generale, é rimasto prigioniero nelle sacche della miseria della nostra città. Coraggio! Dio non fa graduatorie. Non sempre si lascia incantare da chi sa parlare meglio. Non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della storia. Desidero rivolgermi a voi, perché sono convinto che il rinnovamento spirituale può partire solo da coloro che non contano niente. Riappropriatevi della città. Non sopportatela, ma vivetela. Vedrete: le cose cambieranno. Diversamente, non basterà il ristrutturarsi delle istituzioni democratiche. Non saranno sufficienti i buoni propositi dei partiti. Non approderà a nulla l'infittirsi delle cosiddette scuole di politica. Saranno inutili i più raffinati programmi pastorali. E non invertiranno la corsa del mondo neppure i proclami dei vescovi. L'avvenire ha i piedi scalzi, diceva uno scrittore francese. E voleva intendere che il futuro lo costruiscono i poveri. Sì, il processo di conversione a cui ci chiama costantemente il Vangelo deve cominciare da voi. Se voi riuscirete a liberarvi dalla rassegnazione, se riporrete maggiore fiducia nella solidarietà, se la romperete con lo stile pernicioso della delega, se non vi venderete la dignità per un piatto di lenticchie, se sarete così tenaci da esercitare un controllo costante su coloro che vi amministrano, se provocherete i credenti in Cristo a passare armi e bagagli dalla vostra parte, non tarderemo a vedere i segni gaudiosi della risurrezione. E anche per la Chiesa verranno tempi nuovi. E dal domicilio dei poveri, si sprigionerà un così forte potenziale evangelizzatore, che la città traboccherà di speranza.

Vostro don Tonino

 

(da Tonino Bello "Pietre di scarto", La Meridiana - Luce & Vita, 1993)

 

I LONTANI

  

Il titolo mi piace. Sa di nostalgia: di ponti, mantenuti  almeno da una parte: di desideri taciuti: d’incontri o di ritorni auspicati, cercati, preparati nella preghiera nella carità del cuore e dell’intelligenza. Sa di esilio. E poiché siamo un po’ tutti esuli, poiché ogni giorno ognuno è in tentazione di perdere o di far perdere la Casa del tempo, introduzione a quella dell’eternità: per tale accorato timore, per tale fraterna sollecitudine, siamo vicini ai lontani, così vicini che essi  sono un po’ noi, sono noi. Ci si salva salvando: si rimane nella chiesa se si ha il coraggio di uscirne per ricondurvi il prodigo; si è pastori a patto di ascoltare il lamento della pecora perduta e di lasciare le sicure per cercare, ritrovare, riportare, sulle spalle e sul cuore, proprio la perduta.  

Il problema dei lontani

Noto con piacere che ovunque si risveglia il problema dei lontani: che la sollecitudine di essi cresce dove è già desta, con tentativi di ricerca sulle maniere più convenienti per accostarli, interessarli, intrattenerli, ritrovarli. Non è giusto dire son pochi coloro che guardano oltre la staccionata – se si continua l’immagine evangelica - oltre gli spalti – se si pensa la chiesa come una città munita -. Mi sembra più giusto dire: è un po’ poco il far lamento, un po’ poco il deprecare: un po’ poco perfino la preghiera, se essa non è l’introduzione a quell’attività illuminata, che, aiutata dalla grazia, può colmare le distanze create, a volte, da un reciproco allontanarsi. Accade, purtroppo assai di frequente, che uno vada tanto lontano perché qualcun altro s’è spostato in senso opposto. Allora sembra anche più difficile attraversare questa terra di nessuno, la quale invece, è la terra più nostra, santificata dalle lacrime più ineffabili.   

Chi è “lontano” 

“Lontano” non è soltanto colui che, andandosene, ha sbatacchiato l’uscio di casa, e non s’è neppure voltato indietro, rotto i ponti e negato recisamente, audacemente. Di costoro ce n’erano di più qualche anno fa, anche nei paesi. L’aria favoriva le rotture brusche, drammatiche. Il “transfuga” s’accampava di fronte alla chiesa e le moveva guerra. La “città dell’uomo” contro la “città di Dio”. La “lontananza” a quei tempi una regione ben definita, “un paese”. Adesso quasi non esiste più nello spazio; è l’assenza di Qualcuno, uno stato d’animo. Uno stato d’animo non è definibile né numerabile. Da una varietà senza numero d’impressioni e sentimenti, ne vien fuori, non sempre logicamente avvertita ma spiritualmente sofferta, questa conclusione: non sono più sicuro della mia fede. Oggi, la crisi religiosa ha perduto le sue forme classiche. Una volta, il travaglio interiore, pro o contro, si risolveva in tempo relativamente breve. Di rado si faceva cronico. Adesso è il permanere di uno stato d’incertezza e d’indifferenza, la quale è come un senso di qualche cosa di superato. Vano quindi il crucciarsi, sia per ritrovare come per combattere.

L’irreligiosità contemporanea è di tipo affatto diverso da quella che caratterizza la fine dell’ottocento e il primo decennio del nostro secolo. Quella, era una negazione recisa, ragionata, battagliera. Scegliere era un dovere comandato dall’intelligenza e dalla coscienza. Il dilemma oggi non esiste. C’è invece la scettica inconsistenza di chi sente di non aver più la fede di ieri, che sa di non avere ancora trovato, che dubita di trovare. Donde un certo rispetto per il passato che ha una scia di bontà, d’arte, di poesia. I “senza Dio” sono i continuatori di ieri. Ma quello – a mio avviso – nonostante l’organizzazione e la virulenza dei mezzi, è un movimento senza domani. L’animo dei nostri contemporanei ha una diversa inclinazione. Su di essa conviene porre l’occhio, la mente, il cuore.

Non cataloghiamo i lontani

 C’è la tendenza di catalogare anche le crisi religiose e di fissarne il tipo, a seconda del prevalere di questo o di quell’elemento. Si hanno così degli allontanamenti, ove l’elemento affettivo o morale sovrabbonda: altri, ove appare dominante il raziocinio: in altri i motivi colturali, scientifici o sociali. Talora è l’esempio di qualche personalità, il clima storico. In qualcuno, l’allontanarsi è un fatto di piena e sofferta consapevolezza: per molti, di passività e di stanchezza. Ogni epoca poi, dà un colore suo proprio alla crisi religiosa, la quale, pur rimanendo individuale, assume delle caratteristiche generali, che incorniciano il singolo dramma e gli danno uno sfondo comune. Molti studiosi si fermano a quest’ultimo, come bersaglio, meno imbarazzante e di più facile rilievo; poiché il generalizzare è un comodo mezzo per scordare la patetica suggestione che dà una sofferenza spirituale se guardata fuori dall’astratto. Le dissertazioni sui mali di un’epoca non fecero progredire la medicina, mentre le esperienze personali, pur impedendo al momento di far scienza, aiutarono assai la cura e la redenzione degli spiriti malati.

Dell’animo di colui che va lontano

 Un conto son le cause della lontananza, un conto l’animo di colui che va lontano. Le cause vi son legate, ma non fanno l’animo, cioè quella particolare disposizione interiore che è il vero movente. Uno si muove dal di dentro, sia che torni, sia che si allontani. Io credo che ben pochi sanno d’andar lontano. Come c’è un’anima di verità in ogni essere, così c’è un’anima di buona fede in ogni errante. Ci si sbaglia o nei riguardi dell’oggetto o nei modi di raggiungerlo: ma l’intenzione può anche essere retta. Ognuno crede di avere meglio e di più. Nessuno si avvia fuori di casa con la certezza di fare una perdita. “Mercator pessimus” , come Giuda, ma con l’illusione e il desiderio di fare un guadagno. Il peccato originale, come insegna la chiesa, non ci guasta del tutto: c’è un punto immacolato in ognuno, anche se difeso dall’ignoranza. – Padre perdona loro perché non sanno … Se uno fa, sapendo proprio quello che si fa, pecca contro la luce. Ma i più sono degli erranti, cioè gente che va fuori strada credendo di non sbagliare. – Ma l’abbiamo avvertito, fatto ragionare … - Sta bene. Ma proprio quello che per noi è motivo di persuasione, in lui non ha presa. Forse le mie stesse ragioni gli creano maggiori dubbi. Quale mistero!

Duplice lavoro: duplice metodo

Come vi sono due compiti distinti nel nostro apostolato moderno, così vi sono due metodi distinti: il metodo di perseveranza e quello di penetrazione o di ricristianizzazione. Il primo si compie nell’ambito della vita parrocchiale e si serve, nella sua molteplice attività, dei sussidi ormai tradizionali: uffici divini, pratica sacramentale, catechismi, ritiri, predicazione, oratori, congregazioni, pie associazioni, collegi, scuole, librerie, stampa cattolica, buon teatro, buon cinema, ecc. E’ un apostolato eminentemente conservatore, non però abbandonato alla routine, poiché anche per conservare bisogna adattarsi di continuo alla vita, che muta vertiginosamente e crea condizioni nuove agli stessi credenti. Il metodo di penetrazione o di riconquista deve avere qualche cosa di diverso: una sua anima, più slanciata, e un’andatura più indipendente , più agile, più audace. Sarebbe un errore il credere che il metodo di conservazione possa, con lievi ritocchi, supplire il metodo di riconquista. La prova è nell’insuccesso continuo dei nostri sforzi. Vi sono anime e ambienti che le nostre tradizionali di attività cattolica non scalfiscono neppure. La maggior parte dei nostri giornali, riviste, libri, predicazioni non arrivano fuori della clientela specificatamente cattolica, né riescono influenzare il movimento generale delle idee,  né interessano il pubblico lontano. Il mondo – non importa se cammina male – ha imparato a camminare senza di noi e, quel che è peggio, ci ha tagliato o ci sta tagliando fuori dalla sua orbita e quasi accantonando., secondo l’acerba e veristica frase di Peter Wust, in un “ghetto cattolico”. Quasi nessuno s’accorge di noi come cristiani. Pochi sanno che al mondo c’è una maniera cristiana di guardare la vita, l’uomo, il lavoro, il denaro, le patrie. Parecchi dei nostri, o finiscono per accettare i metodi se non gli schemi ideali degli altri, oppure si esauriscono nel riprovare e condannare. “L’avventura del mondo diventa tragica perché mancano anime cristianamente avventurose. All’avanguardia non ci sono più i segni del Cristo: almeno non si scorgono. Pare che sia stato sciolto il corpo dei pionieri, mentre una santa arditezza, dovrebbe formare lo sfondo dell’apostolato moderno”. C’è una terra di missione, che incomincia appena fuori delle nostre chiese, divenute talvolta brevi isole sperdute nella piena inondante di una civiltà non più segnata in fronte dal nome di Cristo. La nuova cristianità non potrà sorgere senza la perdita di qualche posizione tranquilla o creduta tale. Lo stesso sforzo di difesa è destinato all’insuccesso se non è sorretto dallo sforzo di penetrazione. L’incredulità scavalca ogni riparo e ci porterà via coloro stessi che non avremo lanciato alla conquista del mondo moderno. Ci si difende assalendo. La missione, più che il segno della vita, è la vita stessa della religione: e l’ite della messa fa eco all’”andate e predicate a tutti” del Cristo.

“La victoire n’appartiendra qu’a un commandement avide d’avventures audaces et de responsabilités” (Foch).

Mi permetto di aggiungere che, così intesa, la fedeltà alla verità è già una devozione a qualcuno, dato che il ritorno è sempre un innamoramento. Tanto più che il ritorno non è segnato da un traguardo unico. La parabola dei talenti porta dei guadagni quantitativamente diversi ma egualmente lodevoli e rimunerativi. Non ritorna soltanto colui che entra in casa e vi si asside alla maniera dei figlioli che non ne sono mai usciti. Mi pare si possa credere all’inesauribile maniera di convertirsi. V’è chi entra come s. Paolo e s. Agostino: v’è chi rimane sulla soglia come Péguy e Rivière, gente du parvis …, prospiciens a longe, come dice l’inarrivabile motivo dell’avvento.

Anche il profugo, che non osa o non può varcare la soglia di casa, ma che vi sospira col cuore lungo i sentieri dell’esilio, è uno che torna. Chi, per una sola volta, ha raccolto sul cuore del fratello lontano l’intraducibile pianto dello sforzo che non riesce a sopprimere le distanze, e che cammina senza giungere la dove è, segnato dall’uomo, il punto dell’incontro festoso, quegli sa che Qualcuno ha camminato davanti, consacrando sul cuore crocifisso l’alleluia del Regno dei Cieli. 

 

(Don Primo Mazzolari)

 

LONTANI

 

Nel desiderio di far arrivare la parola di Dio, le nostre Chiese devono studiarsi di raggiungere coloro che attualmente risiedono “fuori le mura”.

I lontani per comportamenti devianti.

Gesù Cristo raggiungeva i peccatori, le prostitute, i ladri, la gente malfamata. C'è da chiedersi se noi seguiamo, in que­st'ansia, le orme del Maestro.

I lontani per scelte teoriche, per convincimenti interiori o per motivi ideologici.

C'è tutto un mondo culturale che ormai si rapporta a Cri­sto e alla sua Chiesa in termini di indifferenza, di superficia­lità e di distacco, se non proprio di lotta. A noi incombe il do­vere di offrire a questa gente continue possibilità di ripensa­mento, di verifica, di rispettoso confronto, fa modo tale che si pongano almeno le basi di quella "pre-evangelizzazione" che facilita a Cristo, con risultati migliori di quelli ottenuti da San Paolo, l'ingresso nell'areopago della cultura.

E allora occorre chiedersi:

La nostra è una Chiesa ancora troppo ripiegata su se stessa o si curva con più slancio sul mondo, accettando da lui l'ordi­ne del giorno per il suo impegno e per le sue discussioni?

Lo slogan "parrocchia missionaria nel quartiere", da tem­po in giro nel nostro frasario pastorale, è rimasto solo un "spot" pubblicitario o sta provocando rovesciamenti di men­talità? La parrocchia, cioè, è una Chiesa "vicino alle case" o rischia di rimanere solo "ubicata" tra le abitazioni, senza la capacità di assumerne i bisogni, le ansie, le speranze, le sof­ferenze, i problemi?

 

  (Don Tonino Bello, da “Stola e grembiule”)

 

 

 

(...) Diciamocelo con franchezza: noi, qui, tutto sommato, siamo degli aristocratici. Anche se così numerosi, costituia­mo pur sempre una "élite": vescovo, presbiteri, diaconi, mi­nistri, religiose, catechisti, cresimandi... gente comunque im­pegnata ecclesialmente, che adopera con disinvoltura il voca­bolario biblico, che sperimenta la gioia e il privilegio di co­municare con fratelli di fede, che si nutre della Parola e trova il conforto dei segni sacramentali.

Ma la maggior parte del popolo di Dio sta fuori della tenda.

I più non sanno neppure che stiamo celebrando questa li­turgia crismale. Molti non sospettano neanche lontanamente che questo luogo sta per diventare il cratere da cui si diparto­no, come una colata lavica compressa in piccoli vasi, i riga­gnoli dell'olio che simbolizzano la pace, la forza, la santità dello Spirito.

Che ne sanno dell'olio misto a balsamo i pescivendoli della nostra città di Molfetta o le studentesse che in queste prime ore delle vacanze pasquali affollano il corso?

Che se ne importano dell'olio dei catecumeni i fiorai di Terlizzi impegnati a concludere lucrosi Gommerei primaverili?

Che volete che si interessino delle nostre misture aroma-tiche i coltivatori diretti o gli impiegati delle cantine sociali di Ruvo?

Quale attenzione possono nutrire per l'olio degli infermi gli artigiani di Giovinazzo o i cassintegrati delle acciaierie?

Eppure, con quest'olio consacrato hanno avuto tutti a che fare, se non altro perché battezzati. Ma le loro scorte si sono presto esaurite.

Allora è anche per essi che noi oggi stiamo qui.

E guai se, mentre come i Nazaretani nella sinagoga tenia­mo gli occhi fissi su Gesù, almeno un orecchio non lo por­gessimo all'implorazione di coloro che ci chiedono dell'olio perché le loro lampade si spengono.

Vi ho detto queste cose per invitarvi a cogliere il frutto più carnoso della Messa Crismale, che è quello di sentirci profondamente solidali con tutto il popolo, del quale, in gra­dazioni varie, siamo ministri e al quale, una volta fatto il pie­no dell'Olio dello Spirito, siamo inviati come missionari.

Dobbiamo realizzare, insomma, in ciascuno di noi quello che le letture bibliche attribuiscono al Messia: ci ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio.

Senza questa solidarietà col mondo, che si fa poi simpatia per gli ultimi, compassione con i sofferenti, schieramento con gli oppressi, attenzione ai problemi planetari, compagnie con i lontani, preghiera per tutti, questo rito che stiamo celebrando si ridurrebbe a una specie di “cocktail-party” per pochi intimi, del quale io sarei l’anfitrione misterioso.

 

(Don Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)

 

NOI

 

Noi siamo Chiesa scelta e amata da Dio, il quale, per giunta, non misura il suo amore sulla base del nostro rendi­mento in generosità.

Egli continua a investire su di noi a fondo perduto.

Sicché noi siamo la sua piccola, povera, dolcissima Chiesa, con gli abiti lisi senz'altro, forse col volto macchiato e con le membra un po' rotte, ma dagli occhi vivaci che hanno ferito il suo cuore.

 

(Don Tonino Bello, da “Frammenti”)

 

Basilica Maggiore

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Povero Giuseppe! Viveva allo sbando, come un cane randagio. Aveva 36 anni e metà dell’esistenza l’aveva consumata nel carcere. La mala sorte un po’ se l’era voluta da solo, per quella dissennata anarchia che gli covava nell’anima e lo rendeva irriducibile ai nostri canoni di persone perbene. Ma una buona porzione di sventura gliela procuravano a rate tutti quanti. A partire da me che, avendolo accolto in casa, gli facevo pagare l’ospitalità con le mie prediche... per finire ai giovanotti del bar vicino alla stazione che gli pagavano la bottiglia di whisky per godersi lo spettacolo di vederlo ubriaco... Quell’anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta, dedicato alla Madonna dei Martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato alla dignità di Basilica Minore. La città era in festa, e per il singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di preghiera che si tenne nel Santuario. Poi, prima di andare a dormire tutti, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa. Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica Minore. Gli risposi dicendo che “basilica” è una parola che deriva dal greco e significa “casa del re”, e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l’altro disse che aveva studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re era per lui scontatissimo. E insistette testardamente: «Lo so cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica Minore?». Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatta una cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma, e Basiliche Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un’assemblea che mi interpellava, e davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull’argomento. Mi venne però un lampo improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica Minore è quella fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne. L’uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica Maggiore è questo bambino, è questa vecchietta, è il Signor Cardinale. Casa del Re!». Il Cardinale annuiva benevolmente col capo Forse mi assolveva per quel guizzo di genio. La veglia finì che era passata mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il Santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada commentavamo insieme la serata, mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi. Ma ecco che, giunti davanti al portone dell’episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c’era lui, Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me, mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, Basilica Maggiore o Basilica Minore?». «Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire.

 

(don Tonino Bello tratto da "Scrivo a voi...", Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, pp. 25-27)

 

Il mondo ha bisogno di voi

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Il mondo ha bisogno di voi per cambiare, per ribaltare la logica corrente che è logica di violenza, di guerra, di dominio, di sopraffazione. Il mondo ha bisogno di giovani critici. Vedete! Gesù Cristo ha disarmato per sempre gli eserciti quando ha detto: "Rimetti la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce, di spada perisce". Ma noi cristiani non siamo stati capaci di fare entrare nelle coscienze questo insegnamento di Gesù. Diventate voi la coscienza critica del mondo. Diventate sovversivi. Non fidatevi dei cristiani "autentici" che non incidono la crosta della civiltà. Fidatevi dei cristiani "autentici sovversivi" come San Francesco d'Assisi che ai soldati schierati per le crociate sconsigliava di partire. Il cristiano autentico è sempre un sovversivo; uno che va controcorrente non per posa ma perché sa che il vangelo non è omologabile alla mentalità corrente. E verranno i tempi in cui non ci saranno più né spade e né lance, né Tornado e né aviogetti, né missili e né antimissili. Verranno quei tempi. E non saremo più allucinati da questi spettacoli di morte! Non so se li ricordate, se li avete letti in qualche vostra antologia quei versi di Neruda in cui egli si chiede cosa sia la vita. Tunnel oscuro - dice - tra due vaghe chiarità o nastro d'argento su due abissi d'oscurità? …Perché la vita non può essere un nastro d'argento tra due vaghe chiarità, tra due splendori? Non potrebbe essere così la vostra vita? Vi auguro davvero che voi la vita possiate interpretarla in questo modo bellissimo.

 

(don Tonino Bello, tratto da "Senza misura")

 

ORIZZONTI

 

Bisogna contemplare la vita dalle postazioni prospettiche del Regno di Dio.

Assumere la logica del Signore nel giudicare le vicende della storia.

Allargare gli orizzonti fino agli estremi confini della terra.

Non lasciarsi sedurre dall'effimero, o intristire dalla bana­lità del quotidiano.

Introdurre nei propri criteri di valutazione la misura dei tempi lunghi.

Non comprimersi l'esistenza nelle strettoie del tornacon­to, nei vicoli ciechi dell'interesse, nei labirinti delle piccole ritorsioni.

Non deprimersi per i sussurri del pettegolezzo da cortile, o per le grida dello scandalo farisaico, o per l'avvilimento improvviso di un'immagine puntigliosamente curata.

Superare la freddezza di un diritto senza carità, di un sil­logismo senza fantasia, di un calcolo senza passione, di un "logos" senza "sophìa".

Non lasciarsi sedurre dalle programmazioni elaborate allo spasimo, e saper sorridere della nostra inettitudine costituzio­nale delirante di efficienza.

 

(Don Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)

 

AUGURI SCOMODI

 

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo.

Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.

Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.

Tanti auguri scomodi, allora , miei cari fratelli!

Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.

Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.

Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.

I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.

Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.

I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.

E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.

Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.

 

(Don Tonino Bello)

 

 

TU E DIO:

Ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno

 

Eccoci, Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato. Ma se ci sentiamo sfiniti ,non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. È perché, purtroppo, molti passi, li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue: seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell’abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo crepuscolo dell’anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: “Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla”.

Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.

Grazie, perché obbligandoci a prendere atto Dei nostri bilanci deficitarii, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore, come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento. Ma bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma assolutamente sterili sul piano spirituale. Grazie, Signore, perché, se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere con dolore l tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni corrose dal tarlo dell’efficientismo, raffreni i nostri desideri di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia: anzi, di fronte alla cronaca. Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell’anno, esigono il nostro rendimento di grazie. Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie, perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi. Perché ci infondi il coraggio di celebrare i santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna. Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori, la fiducia dei poveri. Grazie, perché continui a custodirci gelosamente, anzi, a nasconderci , come fa la madre con i figli più discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato così sedurre dall’amore che ci porti, che non ti regge l’animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, continuiamo a essere reverendi . Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c’è bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi, ci metti nell’anima un così vivo desiderio di ricupero, che già vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio per sanare i nostri dissesti.  Spogliaci, Signore, d’ogni ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza Donaci un futuro gravido di grazia e di luce E di incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto quello che abbiamo e che siamo. E la Vergine tua madre ci intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.

 

(Don Tonino Bello)

 

"VIVERE DA INNAMORATI..."

 

Innamorarsi di Gesù Cristo, come fa chi ama perdutamente una persona e imposta tutto il suo impegno umano e professionale su di lei, attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i difetti, modifica il suo carattere, sempre in funzione della sintonia con lei. Cosa non fa ad esempio un uomo per la sua donna, perché ha impostato la sua vita su di lei? Osservando la vita di tanti nostri amici, dei nostri compagni di studi, ci accorgiamo come l'amore totalizzante investe non soltanto l'aspetto della loro affettività, ma trascina nel suo vortice i giorni, le notte, il riposo, il lavoro, la gioia, il dolore, le delusioni, le speranze. E'un investimento totale. Quando parlo di innamoramento di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della nostra vita. Per noi il Signore non e' una fascia, una frangia, un merletto, sia pure notevole, che si aggiunge al panneggio della nostra esistenza. L'amore per Cristo, se non ha il marchio della totalità, e' ambiguo. Il Part-time, il servizio a ore, magari col compenso maggiorato per lo straordinario, con Cristo non e' ammissibile; un servizio a ore saprebbe di mercificazione. Innamorarsi di Gesù cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze più radicali del Vangelo. Vuol dire ricentrare davvero la vita intorno al Signore Gesù, perché la nostra esistenza, come diceva Dietrich Bonhoeffer, diventi "una esistenza teologica".

 

(tratto da "Cirenei della Gioia - esercizi spirituali predicati a Lourdes"

di don Tonino Bello Ed. San Paolo, pag.81)

 

CARO GESU’

 

Ho faticato non poco a trovarti.

Ero persuaso che tu stessi laggiù, 

dove il Giordano rallenta la sua corsa

tra i canneti e i ciottoli, 

scintillando sotto il velo tremante dell'acqua,

rendendo più agevole il guado.

C'è tanta folla in questi giorni che si accalca lì, 

sulla ghiaia del greto, per ascoltare Giovanni,

il profeta di fuoco che non si lascia spegnere neppure nel fiume.

Immerso fino ai fianchi dove il letto sprofonda 

e la corrente crea mulinelli di schiuma,

invita tutti a entrare nell'acqua,

per rivivere i brividi di un esodo antico e

mantenere vive le promesse, gonfie di salvezza.

In un primo momento, 

conoscendo la tua ansia di convivere con la gente,

e sapendo che la tua delizia è stare

con i figli dell'uomo,

pensavo di trovarti in quell'alveare 

di umanità brulicante sugli argini.

Qualcuno, però, che pure ti ha visto uscire

dal Giordano, 

grondante di acqua e di Spirito,

e mescolarti tra la turba di pubblicani e peccatori, 

di leviti e farisei, di soldati e prostitute, 

mi ha detto che da qualche giorno

eri scomparso dalla zona.

Ora, finalmente, ti ho trovato. 

Ed eccomi qui, accanto a te,

non so bene se condotto anch'io dallo Spirito,

in questo misterioso deserto di Giuda, 

tana di fiere e landa di ululati solitari.

 

(Don Tonino Bello)

 

VITA

Al fratello che lavora in una fabbrica di armi

 

Caro operaio,

non si direbbe. Ma scrivere a tè, che con altri ottantamila compagni di lavoro strappi la vita in una delle trecento fabbriche di morte disseminate in Italia, è più difficile che scrivere al Sotto­segretario della Difesa.

Sì, perché a protestare sulla produzione delle armi con i fun-zionari delle cancellerie diplomatiche, male che vada, ti tiri ad­dosso solo un po' di compatimento e qualche sorriso divertito sulla tua ingenuità.

Ti diranno, ammiccando, di apprezzare molto i tuoi vaporosi aneliti di pace, ma che poi bisogna saper stare con i piedi per terra.

Ti faranno intendere con eleganza che a un vescovo si addi­ce meglio tracciare benedizioni solenni, piuttosto che impicciarsi di fabbriche di armi e dei relativi traffici clandestini.

Al massimo, con le manovre della più scoperta sufficienza, ti esprimeranno il fastidio di dover discutere di certe cose con chi sa solo citare il profeta Amos o S. Tommaso o, all'occorrenza, qual­che teologo della liberazione, ma poi non sa nulla di Keynes o di Gaibraith o di tutte le diavolerie della scienza economica.

Tutto sommato, però, se si sa sostenere il peso dell'ironia, ti verranno sottomano tali argomentazioni da «scacco matto», che si possono mettere in crisi anche i ragionamenti più sofisticati. Scrivere a tè, invece, riesce quasi impossibile. Perché non regge a nessuno l'animo di dirti che, sia pure incolpevolmente, tu collabori a seminare la morte sulla terra.

E neanch'io tè lo voglio dire.

Hai già tanti problemi sulle spalle, che non mi sento di gra­varti la coscienza di un ulteriore fardello.

Sei così preoccupato, come tutti i lavoratori, dagli spettri del­la fame, che non mi va di intossicarti anche quei quattro soldi che ti danno.

Hai così viva la percezione di essere vittima di una squallida catena di sfruttamento, che sarebbe crudeltà dirti senza mezzi termini che, oltre che oppresso, sei anche oppressore.

Mi sembrerebbe di ucciderti moralmente, prima ancora che le armi confezionate dalle tue mani potessero fare strage di altri innocenti. Povero fratello operaio. Sei veramente «chiuso in una spira 2 mortale» direbbe Ungaretti che non era un economista neppure lui, e neanche un alto funzionario dei ministeri romani. Ma era un uomo. Quell'uomo che ti auguro di riscoprire in tè, e che ti fa vomi­tare di disturbo di fronte all'ipocrisia di chi con un occhio piange di commozione sulla fame del Terzo Mondo, e con l'altro fa cenni d'intesa con i generali.

Quell'uomo che si ribella in tè quando scorge che, dopo mezzo secolo, c'è ancora chi in alto loco è sensibile al fascino di antichi ritornelli imperiali, trascritti purtroppo sullo stesso pentagramma di profitto: «colonnello, non voglio pane; voglio piombo pel mio moschetto!».

Quell'uomo nascosto in tè, che impallidisce di orrore quando si accorge che il desiderio segreto (se non l'istigazione palese) degli industriali della morte è quello che le armi da loro prodotte vengano usate, dal momento che il consumo, secondo le più elementari leggi di mercato conosciute anche da chi non sa nulla di Keynes o di Gaibraith, è l'asse portante di ogni rapporto commerciale.

Quell'uomo che nelle profondità del tuo spirito freme di sde­gno quando si accorge che la gente, più che lo smantellamento delle fabbriche maledette, chiede solo la abolizione del segreto che copre il traffico delle armi. O quando il governo decide di non vendere strumenti di morte solo ai pazzi più esagitati del manicomio internazionale. Come se, dirottando in zone più tran­quille gli strumenti di. guerra, non rimanesse sempre in piedi la stessa logica distruttiva.

Quell'uomo interiore che rimane mortificato quando sa che la stessa cifra stanziata dall'Italia per armamenti, destinata invece per programmi civili, creerebbe trentamila posti di lavoro in più.

Quell'uomo pulito che dorme dentro di tè, e che la sera, quando torni a casa, ti spinge ad accarezzare senza titubanze il volto dolcissimo della tua donna; e ti fa porre le mani sul capo incontaminato dei tuoi figli, senza paura che un giorno si ritorcano su di loro, come un tragico boomerang, le armi che quelle stesse mani hanno costruito. Certo, se io fossi coraggioso come Giovanni Paolo II, dovrei ripeterti le sue parole accorate: «Siano disertati i laboratori e le officine della morte per i laboratori della vita!».

Ma, a parte il debito di audacia, debbo riconoscere che il Papa si rivolgeva agli scienziati. I quali di solito, almeno economi­camente, hanno più di una ruota di scorta. Tu invece ne sei privo. E anche le ruote necessario, se non sono proprio forate, hanno le gomme troppo lisce perché tu possa permetterti manovre perico­lose.

Non ti esorto perciò, almeno per ora, a quella forte testimo­nianza profetica di pagare, con la perdita del posto di lavoro, il rifiuto di collaborare alla costruzione di strumenti di morte.

Ma ti incoraggio a batterti perché si attui al più presto, e in termini perentori, la conversione dell'industria bellica in impianti civili, produttori di beni, atti a migliorare la qualità della vita.

È un progetto che va portato avanti. Da tè. Dai sindacati. Da tutti. Con urgenza. Con forza. Chiedendo solidarietà. Invocando consensi.

Forse l'ultima alternativa di pace per il mondo sei proprio tu, povero operaio, che vivi all'epicentro di questo apocalittico vorti­ce di morte.

Non scoraggiarti. Tu sei la nostra superstite speranza. Se tutti gli ottantamila tuoi compagni di lavoro si mobiliteranno, il sogno di Isaia diventerà presto realtà.

Anzi, ci pare già di vedere, quasi in una miracolosa dissolvenza cinematografica, le spade che si trasformano in vomeri tra le tue mani, e le lance che si incurvano in falci al sole della primavera. Mentre la scritta «the end» si sovrappone non a commentare immagini di catastrofi planetarie. Ma a concludere per sempre l’era lunghissima della nostra preistoria.

Ti abbraccio.

 

2 febbraio 1986

 

+ don TONINO, Vescovo

 

ARCOBALENO

 

Spesse volte facciamo soltanto i misuratori dei cubiti d'acqua che lambiscono le fiancate dell'arca, come faceva Noè. Abbiamo in mano gli scandagli per dire che ormai sia­mo arrivati al livello di guardia. Insomma, siamo un po' troppo misuratori del diluvio.

Certo, questo dobbiamo farlo: dobbiamo prendere atto del livello dell'acqua che sale. Ma dobbiamo anche stare sul­la tolda per scorgere l'arcobaleno, cioè i segni di speranza, e intuire l'arrivo della colomba che porta l'ulivo.

Se facciamo talvolta la radiografia impietosa dell'esisten­te, non è certo per scomunicare il mondo ma per amarlo di più e starali vicino.

  (Don Tonino Bello, da “Chiesa di parte”)

 

(...) Anch'io sono testimone del diluvio: quello dell'intol­leranza, della prevaricazione, del razzismo contro gli immi­grati, della violenza quotidiana contro i minori, le donne, gli zingari, i meridionali, gli irriducibili alla nostra norma di per­sone perbene. Come lettore attento di quanto sta accadendo in varie città d'Italia, sono testimone anch'io del pregiudizio nei confronti degli altri, quasi che i poveri, i tossici, gli zingari, i terzomondiali non possono darci mai nulla di buono, e a dare possiamo essere solo noi figli di una civiltà più raffinata.

Ma sono testimone anche dell'arcobaleno.

Soprattutto, l'arcobaleno del volontariato. C'è un'incredi­bile economia sommersa di generosità e di dono. C'è un'i­narrestabile volontà di pace che si esprime perfino con la protesta nei confronti dei moduli correnti della logica della guerra. Circola una diffusa richiesta di senso, che interpreta il tempo speso per gli altri come l'unico investimento produtti­vo nella borsa valori della vita.

Vi parlo come testimone. Vi metto a parte della mia fede martiriale.

 

(Don Tonino Bello, da “Frammenti”)

 

 

Portare ovunque l'acqua della pace

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Chi sono gli operatori della pace? Sono i tecnici delle condutture; gli impiantisti delle reti idrauliche; gli esperti delle rubinetterie. Sono coloro che, servendosi di tecniche diversificate, si studiano di portare l'acqua della pace nella fitta trama dello spazio e del tempo, in tutte le case degli uomini, nel tessuto sociale della città, nei luoghi dove la gente si aggrega e fioriscono le convivenze. Qui è bene sottolineare una cosa. L'acqua è una : quella della pace. Le tecniche di conduzione, invece, cioè le mediazioni politiche, sono diverse. E diverse sono anche le ditte appaltatrici delle condutture, ed è giusto che sia così. L'importante è che queste tecniche siano serie, intendano servire l'uomo e facciano giungere l'acqua agli utenti. Senza inquinarla. Se lungo il percorso si introduce del veleno, non si serve la causa della pace. Senza manipolarla. Se nell'acqua si inseriscono additivi chimici, magari a fin di bene, ma derivanti dalle proprie impostazioni ideologiche, non si serve la causa della pace. Senza disperderla. Se lungo le tubature si aprano falle, per imperizia o per superficialità o per mancanza di studio o per difetti tecnici di fondo, non si serve la causa della pace. Senza trattenerla. Se nei tecnici prevale il calcolo, e si costruiscono le condutture in modo tale che vengano favoriti interessi di parte, e l'acqua, invece che diventare beni di tutti, viene fatta ristagnare per l'irrigazione dei propri appezzamenti, non si serve la causa della pace. Senza accaparrarsela. Se gli esperti della condutture si ritengono loro i padroni dell'acqua e non i ministri, i depositari incensurabili di questo bene di cui essi devono sentirsi solo i canalizzatori, non si serve la causa della pace. Senza farsela pagare. Se i titolari della rete idrica si servono delle loro strumentazioni per razionare astutamente le dosi e schiavizzare la gente prendendola per sete, non si serve la causa della pace. Si serve la causa della pace quando l'impegno appassionato dei politici sarà rivolto a che le città vengano allagate di giustizia, le case siano sommerse sai fiumi di rettitudine e le strade cedano sotto una alluvione di solidarietà, secondo quello splendido versetto del profeta Amos :" Fate in modo che il diritto scorra come acqua di sorgente, e la giustizia come un torrente sempre in piena " (Am 5,24).

 

(don Tonino Bello tratto da "Vegliare nella notte", pagg 14-15)

 

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