La
Resurrezione dei popoli
Lettera
di Pasqua
Amare
Cristo in Babilonia
“Pur
non vedendolo, voi amate
Cristo; e ora senza vederlo credete in lui; per questo
esultate di una gioia
inesprimibile e gloriosa… Su questa salvezza hanno indagato
accuratamente i profeti, che profetizzarono intorno alla grazia a voi destinata, cercando di scoprire a quale momento o quali
circostanze si riferisse lo Spirito di Cristo che era in loro…
Fu loro rivelato che non rendevano un servizio a se stessi, bensì
a voi, in tutto questo che ora vi è annunciato…: gli angeli
anelano vedere tutto questo. Perciò… fissate ogni speranza
in quella grazia che vi sarà
data quando Gesù Cristo si rivelerà”. (1Pt 1,8-13).
Queste
righe della prima lettera di Pietro sono particolarmente
importanti, perché questo è l’unico passaggio del Nuovo
Testamento dove si dice esplicitamente che i cristiani “amano
Cristo”. E chi ama Cristo sente una gioia
indicibile e gloriosa, anche nella prova: se non sentiamo
questa gioia, non è possibile nessuna evangelizzazione. Perché
non si tratta solo di preparare accurati piani pastorali e
intelligenti strategie missionarie; prima di tutto, dobbiamo amare
Cristo. In mezzo alle prove e agli ostacoli - che non mancano mai
- noi siamo allegri quando amiamo Cristo.
La “grazia a noi destinata”
– questa relazione d’amore con Gesù, l’Amato - fu il
desiderio di tutti i profeti, che cercarono di indagare e scoprire
quando ciò si sarebbe realizzato, e anche gli angeli anelano
sperimentare questa relazione d’amore. Ma questa “gioia
inesprimibile” è riservata solo a noi. Sembra incredibile:
la gioia più grande che si possa immaginare – entrare in una
relazione d’amore con Cristo – per i profeti fu solo un
desiderio e un oggetto di ricerca, per gli angeli è solo un
anelo, mentre per noi è una realtà, una possibilità concreta.
Per questo possiamo essere felici anche in mezzo alle difficoltà.
Quali siano le difficoltà che incontravano i cristiani cui è diretto
questo testo, Pietro ce lo rivela in vari punti della sua lettera,
che termina con queste parole: “Vi
saluta la comunità che dimora in Babilonia”
(1Pt 5,13). Pietro scrive questa lettera da Roma, la nuova
Babilonia, la capitale dell’Impero. Un cristiano che vive in
Babilonia, nel centro dell’Impero, deve scegliere fra queste due
opzioni: o conformarsi alla mentalità dominante per evitare
problemi, e tornare “alle
passioni del paganesimo” e al “culto
degli idoli” (1Pt 4,3), o restare unito a Gesù, al suo
messaggio di verità, pace e giustizia, accettando di “soffrire
come cristiano” (4,16). Perché “se
anche dovreste soffrire per la giustizia, beati voi!”
(3,14).
Ma solo se amiamo Cristo saremo disposti a soffrire come cristiani. Solo
l’amore ti dà la forza di soffrire per l’Amato, ti da il
coraggio di denunciare il peccato e di rinunciare a privilegi e
comodità.
Imparare
a fare il bene
A questo proposito, mi ha sempre
colpito questo passo ‘incandescente’ del profeta Isaia: “Smettete
di presentarmi offerte inutili, l’incenso è un abominio per
me… Cessate di fare il
male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia,
soccorrete l’oppresso” (Is 1,13-17).
Queste parole Dio non le rivolge a
atei pagani, ma ai responsabili del suo stesso popolo, ai
sacerdoti, ai fedeli che frequentano tutti i giorni il Tempio; e a
questi fedeli – che siamo anche noi – dice che dobbiamo
smettere di fare il male e dobbiamo imparare a fare il bene. ‘Ma
come?’, dirà qualcuno. ‘Ma se noi non stiamo facendo niente,
come può Dio lanciarci queste accuse?’.
Ma è proprio questo il punto: che
vivendo in Babilonia - nel cuore dell’Impero della menzogna e
dell’ingiustizia - non stiamo facendo niente, e ci stiamo
abituando a tutto senza battere ciglio. Tutti i giorni si calpesta
la verità, e noi rimaniamo in silenzio; ogni giorno l’Impero
porta avanti il suo progetto di dominio e di morte, e noi non
osiamo alzare la voce. Di fronte a tutto questo non basta non fare
niente: dobbiamo imparare a fare il bene! Perché la via della
Chiesa non é la neutralità, ma la profezia.
Mi giungono notizie che adesso in
Italia, in base alla nuova normativa sui reati societari, il falso
in bilancio e le false attestazioni non costituiscono più reato.
Praticamente la legge italiana ha stabilito che, in certi
contesti, rubare non è più un crimine; lo stesso dicasi per la
menzogna: mentire e dare una falsa testimonianza, in certi
contesti, non sarà più considerato un reato.
La legge ha deciso che il male non è più male, che rubare e
mentire è bene, o per lo meno tollerabile. Un bambino che
nasca e cresca in questa società, imparerà che non c’è nulla
di male nel dire bugie e nel derubare i propri fratelli, e poco a
poco perderà qualsiasi cognizione di bene e di male.
Come comunità cristiana, cosa
stiamo facendo di fronte a questo degrado morale? Niente, stiamo
in silenzio: non siamo disposti a soffrire come cristiani, a
sopportare le conseguenze di una doverosa denuncia contro il
potere. In altre cose, altrettanto importanti – e sto pensando
soprattutto all’aborto – abbiamo il coraggio di alzare la
voce, grazie a Dio; ma su questa cosa no: perché? Forse perché,
in questo caso, abbiamo paura di perdere certi appoggi politici?
Un famoso sassofonista
afrostatunitense, John Coltrane, denunciava la mistificazione che
opera la società quando pretende di controllare il soffio e il
flusso dello Spirito. Oggi, in Italia, la legge vuole convincerci
che il male è bene, e cerca di ridurre al silenzio lo Spirito
della giustizia e della verità. E la gente, narcotizzata, non
reagisce. Dobbiamo allora – se necessario, con un colpo di
sassofono – risvegliare
la gente e riavvicinarla a quella energia, a quella fonte
d’amore che le forze oscure vorrebbero seppellire. “Con
la mia musica”, diceva John Coltrane
“ voglio spingere la gente a elevarsi, a rafforzare la sua
capacità di pensare, di amare e di vivere una vita significativa,
perché la vita ha un senso. Non cadiamo nella trappola di coloro
che vogliono sviarci dalla ricerca della bellezza, della verità e
della giustizia!”.
E la verità ci obbliga, ad
esempio, ad assumere una posizione chiara di fronte al problema
dei cambiamenti climatici,
da cui dipende il futuro dell’umanità per cui Cristo ha dato la
vita. E come Chiesa – di fronte al freddo eccezionale
dell’ultimo inverno – non possiamo limitarci a chiedere che si
aumentino le riserve di combustibile e gas per riscaldamento:
dobbiamo parlare chiaramente della conversione che esige in tutti
noi questa situazione, dei cambiamenti necessari nel nostro stile
di vita, e denunciare apertamente chi si rifiuta – non dico di
risolvere – ma semplicemente di affrontare con sincerità e
onestà politica questo grande e decisivo problema.
Facciamo un esame di
coscienza: stiamo ricercando la giustizia, stiamo
soccorrendo l’oppresso? Se la risposta é negativa,
imploriamo Gesù che ci aiuti, che ci insegni a fare il bene.
Restare
svegli
Questa insensibilità, questo atteggiamento
di passività ‘narcotizzata’ di fronte alle ingiustizie che si
perpetrano tutti i giorni, san Paolo lo chiamava ‘sonno’, e
vedeva in questo sonno il principale pericolo e nemico delle
comunità cristiane:
“Quando si dirà: ‘Pace
e sicurezza’, allora d’improvviso li colpirà la rovina…
Non dormiamo dunque
come gli altri, ma restiamo
svegli”
(1Ts 5,3-6). Quest’avvertenza di san Paolo è più attuale che
mai: recentissimamente il presidente Bush ha ribadito la validità
della dottrina della guerra preventiva, dicendo che si sente
legittimato – in nome della pace – ad attaccare in qualsiasi
momento qualsiasi nazione (dall’Iran al Venezuela); e nello
stesso discorso ha negato che in Iraq – dove vengono uccise
mediamente 60 persone al giorno – sia in atto una guerra civile,
assicurando che tutto è sotto controllo. Ebbene, dice san Paolo,
quando vorranno presentarci come politica di pace la più
sfrontata ‘filosofia’ di guerra, e quando vorranno presentarci
come ‘sicurezza’ una situazione di panico e violenza
quotidiana, restiamo
svegli!, non lasciamoci narcotizzare.
Bisognosi
di resurrezione
In un interessante studio sui giovani nei
vangeli, padre Castillo afferma che il giovane – nella Palestina
del I secolo – era una persona cui non si riconosceva nessuna
dignità, sfruttata in diversi modi. Per questo i Vangeli ci
presentano numerosi casi di giovani ammalati o indemoniati.
Soprattutto nei tre vangeli sinottici, i giovani sembrano avvolti
da uno spirito di morte: sono deboli fisicamente e spiritualmente,
bisognosi di resurrezione.
Nel Vangelo di Marco ad annunciare la
Resurrezione è ”un
giovane vestito con una tunica bianca” (16,5). Si tratta di
un angelo, ma è significativo che l’evangelista ci descriva
questo angelo come giovane: quest’angelo rappresenta i giovani
‘ammalati’ che hanno sperimentato in se stessi la resurrezione
operata da Cristo e che adesso devono annunciarla ai fratelli e
alle sorelle. Il fatto che sia un giovane ad annunciare il Risorto
significa che i giovani hanno in sé la forza
di reagire alla cultura di morte che vorrebbe schiacciarli,
che i giovani possono re-incontrarsi con la forza dello Spirito
che il Potere vorrebbe manipolare e ridurre all’impotenza.
Un
sonno mortale
Con
i giovani afro abbiamo letto e commentato un episodio biblico che
ci presenta uno di questi ragazzi resuscitati della Chiesa
primitiva:“Il primo giorno
della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane e Paolo
dissertava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo,
prolungò l’incontro fino a mezzanotte. C’era un buon
numero di lampade nella stanza
al piano superiore, dove eravamo riuniti; un ragazzo chiamato
Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo
continuava a parlare e, sopraffatto
dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto
morto. Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: “Non vi
turbate; è ancora in vita!”. Poi risalì, spezzò il pane e
ne mangiò, e dopo aver conversato ancora molto fino all’alba,
partì. Intanto avevano ricondotto
il ragazzo vivo, e si sentirono molto consolati” (At
20,7-13).
Il
giovane Eutico sta seduto sulla finestra, in una posizione molto
pericolosa, ma sembra che nessuno – nella comunità – se ne
sia accorto. Di fatto, solo quando il giovane cade e muore la
comunità sembra rendersi conto della sua presenza. Qualcuno
potrebbe obiettare che non è la comunità che lo emargina, ma che
è il giovane che si è scelto questa posizione "comoda":
stare alla finestra, con metà corpo dentro e metà corpo fuori,
significa scegliere una posizione ambigua, stando presente però
senza volersi impegnare e partecipare attivamente alla vita della
comunità.
In
ogni caso, qualunque sia la nostra interpretazione, rimane il
fatto oggettivo che questo giovane è sopraffatto da un sonno mortale, e che nessuno
- all’interno della comunità – si
era reso conto della pericolosità di questo sonno.
Oggigiorno, credo che pochi di noi si rendano conto dell’effetto
mortale che può avere sui nostri giovani il fatto che – grazie
anche ad alcune leggi – poco a poco stiamo perdendo la
cognizione del bene e del male.
San
Paolo associa il sonno a uno stato di ubriachezza: “Restiamo
svegli e restiamo sobrii! Perché chi dorme, dorme di notte; e chi
si ubriaca, si ubriaca di notte” (1Ts 5,8). Dormire, dunque,
significa essere "ubriachi", essere "drogati",
perdere la coscienza di ciò che vale davvero nella vita. José,
giovane cantante rap, afroecuadoriano, recentemente mi ha detto: “Molti di noi giovani spendiamo quel poco che guadagnamo nella
discoteca e nella birra. Solo adesso mi rendo conto di tutto il
tempo che ho perduto. Ma chi l’ha detto che per essere felici
dobbiamo ubriacarci?”. Perché questa è la realtà: molti
giovani afroecuadoriani spendono le loro migliori energie
nell’alcol.
Eutico
è un nome greco che propriamente significa "fortunato",
e che – come i corrispondenti nomi latini ‘Felix’,
‘Fortunato’ e ‘Fausto’ – era molto comune fra i liberti,
cioè fra gli schiavi ‘fortunati’ che avevano ottenuto la
libertà. Eutico, dunque, molto probabilmente, era un ex-schiavo.
Però domandiamoci: che cosa aveva fatto con la sua libertà? e
che tipo di libertà godeva?
Adesso
Eutico era giuridicamente libero, sì, però… libero di dormire,
libero di “ammazzare il tempo”, libero di morire. La
manipolazione della volontà è la forma più sottile di schiavitù,
con la quale vogliono farci credere che l’ubriacarci e il vivere
eternamente narcotizzato sia il massimo di felicità cui possiamo
aspirare, mentre poco a poco ci conducono alla morte.
Ma
è possibile anche un’altra spiegazione: forse il giovane Eutico
faceva un lavoro molto duro e arrivava alla sera sfinito, senza
forze. E in questo caso è ammirevole che, nonostante la
stanchezza, abbia voluto partecipare all’incontro della comunità.
Io conosco molti di questi giovani. Il mese scorso Edwin,
afroecuadoriano, mi ha detto: “Fratel
Alberto, io vorrei partecipare ai vostri incontri, ma lavoro tutti
i giorni, anche la domenica, undici o dodici ore al giorno. La
sera ho solo voglia di dormire”. Anche questa é una forma
di schiavitù: oggigiorno Edwin – e altri giovani afro – non
sono schiavi dal punto di vista giuridico, ma non hanno neanche il
diritto di avere un momento di ricreazione, di riflessione, di
condivisione comunitaria. Se non è schiavitù questa! Il sonno
dello sfinimento fisico non ci permette di vivere una vita libera,
una vita piena, perché non ci permette di partecipare – in modo
cosciente e attivo – allo sviluppo e alla trasformazione della
nostra comunità. Chiaramente, l’Impero ha tutto l’interesse a
diffondere questo sonno…
L’abbraccio
che dà vita
È
interessante vedere la reazione di Paolo davanti alla ‘morte’
di questo giovane: “Lo
abbracciò e disse: ‘Non turbatevi, è ancora in vita”.
Letteralmente, la frase greca dice: “Non
turbatevi, la sua anima è ancora con lui”. A volte noi ci
disperiamo, perché i nostri giovani
ci sembrano "morti", irrimediabilmente "narcotizzati",
ammazzando il tempo in maniera futile, e non crediamo che possano
resuscitare. La Parola, invece, ci invita ad avere un
atteggiamento di fiducia: l’anima, la forza vitale che Dio ha
messo in ognuno di noi, è ancora viva nei nostri giovani. Le
energie non sono scomparse, si tratta solo di rivitalizzarle: il
calore di un abbraccio può rivitalizzare queste energie. In altre
parole, i nostri giovani
– come ogni essere umano – sono
costituzionalmente predisposti alla resurrezione: la capacità di
resuscitare è scritta nel nostro DNA divino. Non è vero che
i nostri giovani sono caduti in uno stato di ‘incoscienza’
irrimediabile, e che non sia possibile svegliarli dal sonno che ha
loro iniettato il soporifero della ideologia imperiale. Paolo non
perde la fiducia in Dio e non perde la fiducia in Eutico: sa che
le articolazioni rotte di questo giovane si possono riconnettere,
e che il suo cuore – apparentemente fermo – può ricominciare
a pulsare.
E
così, grazie all’abbraccio di Paolo - e di tutta la comunità
che lo riconduce vivo - Eutico può tornare a vivere: adesso é un
giovane risorto, un giovane sveglio, che ha riconquistato la
capacità di pensare, di amare e di sognare, un giovane che
d’ora in poi può partecipare a pieno titolo nell’incontro che
si svolge nella “stanza del piano superiore”. La “stanza del piano superiore”
è lo spazio dove viviamo in comunione con Dio: se riusciamo a
portare tutto il giovane dentro questo spazio – ed evitare che
stia per metà dentro e per metà fuori – l’avremo salvato dal
sonno mortale. Perché chi vive davvero in questo spazio è libero
dalle manipolazioni del mondo e trova nel contatto permanente con
Dio la saggezza del discernere, la forza di continuare a lottare,
amare e sognare contro ogni tipo di soporifero che l’Impero
possa produrre.
Paesi
in libertà vigilata
In
un libretto pubblicato nel 1991 per pochi intimi - e rivelato al
grande pubblico solo pochi mesi fa - il generale Jean scriveva: "Attraverso strumenti affinati di geo-economia il mondo
industrializzato riesce ad avere i vantaggi delle ex-colonie senza
occuparne i territori: attraverso manovre economiche, finanziarie,
alimentari e influenzamenti politici dell'informazione".
Il
Trattato di Libero Commercio (TLC) che gli Stati Uniti vogliono
firmare con l’Equador ha precisamente questo scopo: avere tutti
i vantaggi che può ottenere l’Impero da una relazione di tipo
coloniale, senza assumere l’onere e i rischi – vedi il
caso Iraq – che implica l’occupazione militare di un
territorio. Praticamente l’Impero sta dicendo: “Io vi lascio
liberi, a condizione che adottiate la mia moneta (come è avvenuto
in Equador, con la dollarizzazione),
a condizione che vendiate a me tutte le vostre principali
materie prime a un prezzo irrisorio, a condizione che
permettiate alle mie banche di occupare finanziariamente il vostro
paese, etc. Se farete tutto quello che vi diciamo, vi lasceremo
liberi”.
Ma
molti ecuadoriani – soprattutto gli indigeni – non sanno che
farsene di una ‘libertà’ di questo tipo. E di fatto in questi
giorni stanno organizzando marce di protesta in vari punti del
paese, creando grossi ostacoli al traffico interno. Mentre scrivo,
il Governo ha già dichiarato lo stato d’emergenza in cinque
province, inviando l’Esercito: la situazione è molto critica.
Ma tutto quello che chiedono gli indios è un referendum, con cui
il popolo possa esprimere democraticamente la sua opinione a
proposito del TLC, evitando di lasciare una decisione così
importante per il futuro del paese unicamente nelle mani
dell’Esecutivo, che tra l’altro è un Esecutivo molto debole,
perché l’attuale presidente non è stato eletto dal popolo, ma
è arrivato a coprire questa carica in seguito alla destituzione
dell’anteriore presidente.
E
non è solo l’Equador: si vorrebbero mettere tutti i paesi dell’America del Sud in una
situazione di “libertà vigilata”. E se i paesi
latinoamericani rifiutano questa ‘libertà’ di schiavi, e se
rivendicano – come sta facendo il nuovo presidente della
Bolivia, Evo Morales - il diritto di riappropriarsi delle proprie
risorse naturali, l’Impero comincia a dire che è a rischio la
stabilità del continente e preconizza gravi rischi per la
democrazia. A me sembra chiaro che se davvero tutti i popoli
dell’America Latina vorranno riprendere le redini del loro
destino, ciò che traballerà non sarà la democrazia ma la prepotenza
dell’Impero.
L’abbraccio
multiculturale
L’abbraccio
è l’anelo umano – e l’anelo divino – più profondo. Tutti
noi desideriamo il calore di un abbraccio, anche Dio lo desidera:
per questo, quando vede arrivare da lontano il Figlio prodigo, “gli
corre incontro e l’abbraccia” (Lc 15,20). Dio ha preparato
una festa per celebrare quest’abbraccio con il figlio minore, ma
il figlio maggiore – geloso – “non vuole entrare” (Lc 15,28). Per una mamma e un papà non c’é
dolore più grande che quello di sentirsi rifiutati dal proprio
figlio. Il figlio maggiore rinuncia all’abbraccio universale al
quale lo invita il Padre, perché crede di avere maggiori diritti:
pensa che solo lui ha il diritto a ricevere l’abbraccio paterno.
Ma una mamma ama tutti i suoi figli; chiaramente, ama ogni figlio
in maniera differente e unica: non si tratta di amare di più o di
meno, ma di amare in una maniera diversa; ogni figlio richiede
un’attenzione speciale, corrispondente al suo proprio modo di
essere. L’abbraccio di una mamma è un abbraccio variegato e
multiforme nelle sue manifestazioni d’affetto, ricco di risorse
e possibilità inesauribili.
Così
è anche l’abbraccio di Dio. E in effetti, l’abbraccio fra
tutti i popoli è il destino che Dio ha previsto per l’umanità:
“Alla fine dei giorni il
monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti: ad
esso affluiranno tutte le
genti” (Is 2,2). E le genti si incontreranno per
programmare politiche di pace (“non si eserciteranno più nell’arte della guerra”) e per “danzare
insieme” (Sal 87,7). Danzare insieme significa che non c’è
un popolo che sta in una posizione più alta e detta agli altri il
passo da seguire, ma tutti insieme decidiamo e danziamo il passo.
Tutto
ciò non si è ancora realizzato, perché a molti popoli non é
viene riconosciuto lo status di "cultura". Commentava a
questo proposito il grande poeta africano Leopold Senghor: “Da molti anni i popoli del Terzo Mondo preconizzano un “Nuovo
Ordine Economico Internazionale”. Ma non ci sarà nessun nuovo
ordine economico internazionale se prima non si realizzerà un
“Nuovo Ordine Culturale Mondiale”. Tutte le conferenze
Nord-Sud hanno fallito. E la ragione profonda di questo fallimento
è che, animati da un disprezzo culturale difficile da
dissimulare, i popoli ‘sviluppati’ non si sentono interessati
a conoscere le culture dei paesi del Terzo Mondo: i neri, i gialli
e i loro meticci, cioè i latinoamericani. Questa gente, pensano,
non ha nessuna civiltà e nessuna cultura degna di questo nome”.
E
così, quando guardiamo all’afroamericano solo come persona
“necessitata di aiuto”, non stiamo rispettando la sua dignità,
perché implicitamente stiamo dicendo che questa persona non ha
nulla da dare e tutto da ricevere. Ma di fronte a questo
atteggiamento, Senghor replicava: “Noi neri vogliamo essere non solo consumatori ma anche produttori di
cultura, perché questa é l’unica maniera possibile di
essere”. Essere uomo libero significa, prima di tutto,
essere produttore di cultura. Non
sarà possibile nessun vero abbraccio fraterno fra le nazioni, e non
sarà possibile realizzare nessuna vera giustizia, se non si riconoscerà ad ogni popolo la sua dignità di “produttore
di cultura”.
Il
pensiero “descolonial”
I
Missionari afroecuadoriani hanno recentemente affermato: “Ci
sono alcuni che pensano che per svilupparci economicamente
dobbiamo abbandonare la nostra cultura e adattarci ai criteri che
prevalgono in questa società postmoderna. In altre parole, per
‘liberarci’ a livello economico e sociale dovremmo smettere di
essere quello che siamo, smettere di essere neri. Come Missionari
Afroecuadoriani, affermiamo solennemente che non siamo interessati
in una “liberazione” di questo tipo, mentre siamo interessati
in una liberazione integrale che parta dal riconoscimento della
nostra dignità umana e culturale come persone e come popolo”.
E
su questo punto concordano molte altre persone di molti altri
paesi: non solo in Equador, ma anche in Bolivia, Venezuela,
Colombia, Perù e Brasile, si parla ormai apertamente di pensiero
“descolonial”: si
tratta di decolonizzare la
società e la cultura, recuperando la saggezza ancestrale dei popoli indigeni, meticci e afrodiscendenti,
e mettendola a disposizione di un processo
culturale, spirituale, politico ed economico di resurrezione.
Leonardo Boff dice che la maggioranza degli afroamericani non sono
consapevoli del grande potenziale della loro cultura: recuperare
la ricchezza di questo potenziale
è un servizio che si renderebbe a tutta l’umanità.
Un elemento fondamentale di questo potenziale è la
predisposizione degli afro all’abbraccio e alla comunione.
La
ragione-abbraccio
Diceva
Senghor che mentre gli europei ragionano con la ragione-occhio,
che vuole discernere e analizzare dettagliatamente cose e persone,
gli africani ragionano con la ragione-abbraccio:
in base a questo principio, io conosco un essere vivente quando lo
posso abbracciare per captarne l’essenza profonda. E di fatto,
nelle culture africane tradizionali, l’abbraccio era il
principio che orientava la vita in tutti i suoi ambiti: politico,
sociale e religioso. Ad esempio, commenta il grande poeta
africano, “nella vita
politica la spiritualità dell’abbraccio si manifestava
nella partecipazione responsabile e democratica che coinvolgeva
tutti i diversi gruppi professionali, anche quando si stava sotto
un regime monarchico”.
Fu
questa stessa
ragione-abbraccio che permise agli afroamericani di resistere a
tanti secoli di crudele schiavitù. A questo proposito,
Senghor affermava: “La
vera cultura implica un processo di radicamento e sradicamento; da
un lato deve radicarsi nel più profondo della terra natale, nella
sua propria eredità spirituale, ma dall’altro deve anche
sradicarsi: aprirsi alla pioggia, al sole, e ai contributi fecondi
delle altre civiltà”. Gli afroamericani conoscono molto
bene questo doppio processo di “radicamento e sradicamento”:
di fatto, se gli schiavi neri hanno potuto sopravvivere in America
in condizioni tanto difficili, è grazie alla loro capacità di
abbracciare nuove espressioni culturali senza dimenticarsi le
radici più profonde della propria eredità spirituale.
In
questo senso, si può dire che gli afroamericani hanno saputo
sviluppare una loro cultura peculiare grazie a un processo di
morte e resurrezione: morire
e risorgere in un abbraccio multiculturale è ciò che gli
afroamericani sanno fare meglio. La musica negro-americana,
nell’incredibile varietà delle sue manifestazioni - samba,
jazz, reggae, rap, salsa, etc. - è l’esempio più illuminante
di questa capacità di entrare in comunione con altre culture per
dare vita a una nuova sintesi. Oggi più che mai, l’umanità ha bisogno di tutta la ricchezza e la saggezza del
potenziale della cultura afro.
La
Resurrezione dei Popoli
“América
novia mía, tómame; entre tus brazos mulatos cíñeme”
(“America, fidanzata mia, prendimi; fra le tue braccia mulatte
stringimi”), dice il testo di una famosa canzone di Patricio
Manns.
Quello
cui stiamo assistendo in America Latina in questi ultimi decenni
è davvero un miracolo portentoso: popoli
oppressi che sembravano essere stati schiacciati definitivamente
e aver perduto tutte le proprie ricchezze,
adesso rialzano la testa e risorgono, aprendo nuove prospettive di
vita a tutta l’umanità.
Quest’abbraccio
multiculturale cui da sempre anela il popolo nero - e che Dio ci
presenta come meta ultima della storia dell’umanità - può
adesso realizzarsi in maniera unica e speciale nelle “braccia
mulatte” del continente americano, la cui vocazione specifica è
il meticciato, il dialogo e l’abbraccio fra diverse etnie e
differenti saperi ancestrali.
“La libertad ha salido a navegar. Es hora de
combatir y caminar”;
cosí conclude la canzone di Patricio Manns: “La
libertà
ha preso il largo. È ora di combattere e camminare”.
Tutti i popoli americani sono chiamati a recuperare e
rivitalizzare le loro forze che sembravano sopite; tutti
i popoli della Terra sono chiamati a svegliarsi dal sonno in
cui voleva gettarli e incatenarli per sempre l’Impero. In altre
parole, la Resurrezione non è solo un fatto individuale ma ha
anche una valenza sociale e comunitaria;
la Resurrezione è il destino che Dio ha previsto per tutte le
genti e tutte le culture: siamo chiamati a risorgere in un
abbraccio multiculturale che sará fonte di vita per tutti i
figli di Dio, e che ci
trasformerà tutti. Come dice san Paolo, “Ecco, io vi annunzio un mistero:… saremo trasformati tutti”
(1Co 15,51). Tutti:
anche coloro che vivono nel cuore di Babilonia.
In
effetti, la sfida dell’incontro tra diverse razze e culture è
ormai una sfida indilazionabile anche per chi vive in Europa o
negli Stai Uniti. L’esperienza latinoamericana dell’abbraccio
multiculturale potrà aiutare anche gli europei ad affrontare in
maniera costruttiva questa ora decisiva e delicata della nostra
storia.
Dal
muro all’abbraccio
Purtroppo
avviene spesso che – trovandoci in contatto con altre culture
– invece di accettare l’abbraccio rispondiamo costruendo muri,
come ha fatto il governo degli Stati Uniti, che hanno costruito
una muraglia lungo tutta la loro frontiera con il Messico. Ma i
poveri non si disperano: se i potenti costruiscono muri, loro
trovano sempre il modo di passarvi sopra o sotto. Come mi ha detto
recentemente un indigena, “Noi poveri siamo maestri in
saltare muri”.
Dobbiamo
dunque uscire dalla logica perdente del muro ed entrare nella
logica arricchente dell’abbraccio. Dal muro
all’abbraccio: è questo il processo di conversione cui
siamo chiamati in questo periodo di Quaresima soprattutto noi,
cittadini del Nord del Mondo. Non è un processo facile, lo
sappiamo, ma è un processo affascinante, che richiede pazienza,
creatività e disponibilità a ‘risorgere’; ed é il processo
che Dio ha previsto per il futuro dell’umanità.
Una
Risurrezione planetaria
Per
molti coloni europei il continente americano fu la Terra Promessa
tanto agognata, la terra dove speravano ottenere quella libertà e
quelle possibilità di sviluppo che non riuscivano a trovare in
Europa. Pensiamo, ad esempio, ai puritani inglesi che –
perseguitati in patria – poterono crescere liberamente qui in
America; o pensiamo ai nostri emigrati italiani che qui trovarono
un lavoro e un futuro che la madre patria non era in grado di
garantirgli.
Purtroppo,
ciò che per alcuni fu terra di libertà e nuove possibilità, per
altri – ad esempio, per i neri – fu terra di schiavitù e di
indicibili sofferenze. Ma non solo questo: come dice Juan Carlos,
un Misionero Afro di Guayaquil, “l’America
è anche la terra dove i nostri antenati hanno imparato a lottare
per la libertà e dove hanno costruito un orizzonte nuovo e
originale. Adesso noi, discendenti di quegli schiavi resistenti e
creativi, siamo chiamati a portare a termine il loro sogno, che è
anche il sogno di Dio: fare
della nostra America la Terra Promessa - la terra della Libertà -
per tutti i suoi popoli, e non solo per alcuni”.
Di
fatto è qui in America – terra da molti secoli abituata alla
convivenza di diverse razze e culture – che il progetto
multiculturale dello Spirito trova il terreno più fertile. Ma poi
sappiamo che questo stesso progetto Dio lo vuole realizzare anche
in Europa, Africa, Asia e Australia.
L’antica
Terra di Canaàn – schiava degli idoli - fu chiamata a rinascere
e a risorgere come Terra di Israele, fu chiamata a riconfigurarsi
in una maniera nuova, come terra dove si sarebbero realizzate le
promesse di Dio al suo popolo schiavo in Egitto. Allo stesso modo,
all’inizio del Terzo Millennio, l’intero
Pianeta Terra è chiamato a risorgere e a riconfigurarsi come una
grande Terra Promessa per tutti i popoli oppressi: terra di
giustizia, amore, pace e fraternità per tutte le genti. Perché
Dio disse al suo Servo Sofferente, schiavo in Babilonia: “È
troppo poco che tu sia mio servo per ricondurre i superstiti di
Israele. Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia
salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49,6).
Questo Servo Sofferente – che i cristiani hanno sempre
identificato con Gesù Crocifisso – è dunque chiamato a
risorgere e a promuovere una resurrezione planetaria, fino
all’estremità della terra. In altre parole, il Corpo di
Cristo chiamato oggigiorno a risorgere in una nuova Terra Promessa
è l’intero Pianeta: Dio sogna una grande resurrezione planetaria.
E
per risorgere, il Pianeta deve liberarsi dalle paure e dalle politiche di morte che
alimentano quelle paure. Perciò, prendiamo sul serio il problema
dei cambiamenti climatici! Ma non per lasciarci schiacciare dal
panico, bensì per cercare insieme a tutti gli altri popoli quali
cambiamenti è necessario introdurre nella nostra vita e nel
nostro sistema economico per garantire il rispetto dell’ambiente
e assicurare un futuro sereno a noi e ai nostri figli.
Prendiamo
sul serio il problema del terrorismo! Ma non per lasciarci
coinvolgere in una spirale di violenza che vede nello scontro,
nella vendetta e nel massacro apocalittico il destino inevitabile
dell’umanità, bensì per riscoprire l’anelito alla pace
presente in tutti i popoli, e per cercare insieme come stabilire
relazioni di giustizia e fratellanza che taglino alla radice la
possibilità che poveri disperati appoggino ideologie fanatiche e
omicide.
Prendiamo
sul serio il problema della fame di tanti
popoli! Ma non per
offrire semplicemente alcuni palliativi che si limiterebbero a
tappare qualche buco, bensì per ripensare e riconfigurare
completamente una economia di comunione a livello planetario.
Tutto
questo per noi cristiani non dovrebbe essere un sogno facoltativo
– o il ‘pallino’ di qualche frate eccentrico – ma una passione
e una missione obbligatoria: se non ci crediamo noi nel progetto
di Resurrezione di Dio, chi dovrebbe crederci?
Progetto
Resurrezione
Mai
come prima d’ora l’umanità si è trovata di fronte ad un
bivio e ad una scelta epocale: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene da un lato, e la morte e il male dall’altro” (Dt 30,15). Generalmente, si è
sempre data un’interpretazione individualista e intimista ai due
cammini che il Signore ci pone davanti, nel senso che ogni persona
è chiamata a decidere se indirizzare la propria vita personale in
un cammino di vita o in un cammino di morte.
Ma
adesso è l’umanità nel suo insieme che é chiamata a compiere questa scelta.
Sappiamo che ci sono forze e poteri economici che danno già per
scontato che il Pianeta Terra è destinato a morire, e che non è
possibile farlo risorgere; per cui, pensano, tanto vale sfruttare
le ultime cose che ancora si possono sfruttare, senza pensare alle
conseguenze.
A
questo Progetto-Morte
dobbiamo contrapporre un Progetto-Resurrezione,
che si basa sulla fede che Dio non abbandonerà questo mondo e
questa umanità per cui ha dato la vita: il nostro Pianeta –
creato da Dio – è constitutivamente predisposto alla
resurrezione. Come dice san Paolo, tutta “la
creazione… nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitù
della corruzione” (Rm 8,19-21). Tutta
la creazione, e dunque anche tutto il nostro Pianeta, anela a
realizzare il suo destino: risorgere.
Il
diritto di giocare
Il
Salmo 87 ci informa che il destino finale che Dio ha previsto per
tutti i popoli è la danza e il canto: “Il
Signore scriverà nel libro di tutti i popoli: “Ognuno di voi è
mio figlio”. E danzando
i popoli canteranno:
‘Sono in Te, Dio, tutte le mie sorgenti’ ”.
Danzare
e cantare con il Signore: perché? Per giocare e divertirci un
po’ con Lui.
Nella
religiosità degli indios quechua, come mi ha spiegato Tata
Mariano, è molto importante l’elemento ludico; ed è per questo
che festeggiano il Carnevale in un modo tutto speciale: “Per
noi indios il Carnevale ha un significato anche religioso: é il
tempo della festa, della gioia dello spirito. E così in questo
periodo, quasi ogni giorno, andiamo a raccogliere fiori e poi
entriamo in Chiesa per buttarli addosso ai santi, per giocare un
po’ insieme a loro liberamente, al di fuori degli schemi del
rito. Sì, perché anche i santi hanno il diritto di giocare e
divertirsi”.
E
anche i popoli dell’America, anche i popoli oppressi di tutto il
nostro Pianeta hanno il diritto di giocare, di poter far festa e
vivere liberamente, al di fuori della logica di schiavitù e di
morte che l’Impero vorrebbe imporre alla Terra. Il nostro
augurio e la nostra
preghiera è che si possa celebrare presto questa danza di
resurrezione e questo abbraccio fra tutti i popoli.
Fratel Alberto Degan
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