Non era un indigente...
di fratel Alberto dalla Colombia
LETTERA AGLI AMICItorna alla pagina lettere dalla missione Ho seguito con attenzione e con gioia il Giubileo
degli Oppressi che avete organizzato in Italia. Ti
scrivo questa lettera circolare rispondendo alla sollecitazione di alcuni amici,
che mi hanno chiesto di condividere con loro un po’ della mia vita quotidiana
qui in Bogotà. Si tratta di una lettera un po’ disordinata, nella quale
mescolo un po’ di tutto (realtà colombiana, apostolato, studi, riflessioni,
vita comunitaria, etc.), ma spero così di condividere quello che sto vivendo. “Non era un indigente”“Non era un indigente, mio figlio
aveva una casa, viveva con me”.
Con queste parole la mamma di Jairo ha protestato con la polizia, che le ha
ucciso il figlio di 15 anni. La polizia l’aveva visto per strada, e credeva
che fosse un indigente, un “desechable”. Il termine “ desechable”
originariamente indicava qualsiasi oggetto usa e getta. Purtroppo, in questi
ultimi anni, qui in Colombia il termine “desechable” si usa anche per
indicare le persone che non hanno casa e dormono in strada, costretti a vivere
di espedienti: sono considerati rifiuti umani, da gettare. Purtroppo, la gente
si è abituata all’idea che la polizia e i gruppi di “limpieza social”
uccidano i “desechables” che dormono per strada. Per questo quella povera
mamma, protestando con la polizia, ha detto: “Mio figlio non era un desechable”. E la polizia non sapeva più cosa dire, non
poteva più giustificarsi. La cosa tremenda è che, se quel ragazzo fosse stato
davvero un “senza tetto”, nessuno avrebbe trovato qualcosa da ridire sulla
condotta della polizia. Il servizio alla portaDue
volte alla settimana faccio servizio alla porta. Ogni giorno bussano alla nostra
porta almeno cinque poveri che chiedono qualcosa da mangiare. Gustavo
ci viene a trovare due volte alla settimana: è un ingegnere che poi – non so
bene come – è finito sulla strada. La cosa che più lo fa soffrire è la
mancanza di rispetto di cui molto spesso è vittima. Non sopporta di essere
considerato un “desechable”: “Io
sono come te, come gli altri, figlio di Dio come te. Nessun uomo è un <desechable>,
un rifiuto”.
Queste parole mi fanno capire che gli unici che non hanno perduto il senso della
fraternità universale sono proprio i “desechables”. Loro sanno che siamo
tutti fratelli, con gli stessi diritti. Noi “ricchi”, invece, molte volte
non sappiamo riconoscere nel volto di un “desechable” sporco e maleodorante
il volto di un figlio di Dio nostro fratello: al contrario un desechable spesso
ci fa paura. E la paura non può costruire fraternità. L’altro
giorno la polizia è arrivata sul piccolo spazio verde dove dorme Gustavo senza
dar fastidio a nessuno, e gli ha bruciato tutto quel poco che aveva: coperte e
pochi vestiti. Adesso Gustavo è sfinito. Non è neanche più sicuro del posto
dove dormire fuori la notte. “Almeno prima la notte potevo
riposarmi”,
mi dice, “ma adesso, se non posso
neanche permettermi di dormire con gli occhi chiusi, come farò? No, così non
posso più farcela. Ho quasi 60 anni, e vivere sulla strada è dura: di giorno
vivo nel disprezzo generale, la mia unica consolazione era la notte, quando
potevo chiudere gli occhi tranquillo e riposarmi, ma adesso….La polizia ha
detto che tornerà, e potrebbero tornare anche le squadracce della <limpienza
social>….”. Da
alcune settimane nella lista di coloro che bussano alla nostra porta ci sono
anche due bambine: Genny e Judy. La prima volta che vennero qui arrivarono con 8
contenitori di plastica, chiedendomi di riempirli d’acqua. Ho saputo poi che
sua mamma non può pagare la bolletta dell’acqua, e così non hanno più acqua
in casa. La seconda volta che viene qui Genny, oltre all’acqua mi chiede anche
un chilo di riso, perché sua mamma possa preparare un pranzo per la famiglia.
Io non ho una bilancia per misurare un chilo. Prendo un sacco di plastica e lo
riempio di riso. Non so quanto pesa, ma quando torno alla porta e lo do a Genny,
dal suo grande sorriso mi rendo conto che è molto più di quel che sperava…. “Mi Diosito no me abandona”, mi dice adesso Gustavo, “anche oggi ho trovato qualcosa da mangiare”. Qui la gente usa spesso il diminutivo
affermativo in –ito o –ico (Albertico, Luchito, etc.), e lo applica anche a
Dio: invece di dire “Dios”,
molti dicono “Diosito” o “mi
Diosito”. Per
molta povera gente Dio non è un concetto astratto, ma una persona che vive con
noi, una persona che ci ama e ci aiuta in mille modi, e a cui ci rivolgiamo con
le stesse espressioni di affetto che usiamo con un nostro familiare o con un
nostro amico. Il “Buon Samaritano” in America LatinaLetta
in America Latina, la Parabola del Buon Samaritano assume una valenza
particolare. Quello che dico prende spunto da un articolo di Jon
Sobrino. L’uomo
che si trova “mezzo
morto” al lato
della strada che va da Gerusalemme a Gerico non si trova lì per caso o per
fatalità: sta morendo perché dei “briganti” l’hanno “spogliato” e “percosso”. Oggi giorno i briganti sono un intero sistema,
il sistema neoliberale che spoglia milioni di poveri dei loro diritti
fondamentali e poi li lascia mezzi morti al bordo della strada. Il
sacerdote e il levita vedono il ferito ma “passano oltre”,
non si fermano per aiutarlo: perché? La
principale ragione è che hanno paura: i briganti potrebbero essere ancora lì
nascosti da qualche parte, e potrebbero attaccare ancora. Ma non è solo questo:
fermarsi presso il moribondo è ridargli la vita è una cosa che non fa piacere
ai briganti, perché il moribondo potrebbe averli riconosciuti e potrebbe
denunciarli. Il sacerdote e il levita, pii israeliti, preferiscono non
immischiarsi in queste cose e “passano
oltre”. Arriva
poi il Buon Samaritano, che ha “compassione” del moribondo: gli “fascia le ferite”,
e lo porta a una locanda perché possa recuperare pienamente la salute. La
compassione del Samaritano sfida i briganti probabilmente nascosti lì vicino da
qualche parte: la misericordia implica la disponibilità ad affrontare i ladroni
e gli oppressori di questo mondo. Senza questo coraggio di affrontare il peccato
strutturale che produce la morte di tanti nostri fratelli non è possibile
nessuna misericordia, e si “passa oltre”. Il
sacerdote e il levita frequentavano il tempio tutti i giorni (oggi si potrebbe
dire che andavano a messa quotidianamente). Sobrino a questo punto fa
un’osservazione molto interessante. Noi siamo abituati a vedere il Samaritano
come una figura molto positiva, però allora il Samaritano – per il pio
israelita – era uno “scomunicato”, un nemico di Israele, una persona
spregevole, una figura pericolosa, escluso dalla salvezza che Dio riserva ai
suoi figli. Attualizzandolo all’oggi, si potrebbe prendere il prototipo del
nemico della Chiesa, e si potrebbe chiamarlo il “Buon sovversivo” o il
“Buon comunista”. Ebbene, dice Sobrino, la Chiesa – se questo è
necessario per difendere i poveri e gli oppressi – deve avere il coraggio di
farsi chiamare “samaritana”. Mons. Romero molte volte fu calunniato e
chiamato comunista solo perché difendeva la vita dei poveri. Una
Chiesa che fascia le ferite degli oppressi moribondi sa che sarà perseguitata,
calunniata, sa che la chiameranno “sovversiva”. Ma non per questo si
arrende, non cede alle minacce né alle lusinghe dei potenti . Come dice mons.
Romero, “Noi riconosciamo Gesù come unico
Re: Lui solo vogliamo amare e seguire. Il potere non ci seduce….Anche padre
Octavio Ortiz voleva seguire Gesù, e per questo l’hanno ucciso: gli hanno
schiacciato la faccia, non è stato possibile ricomporla. Ma proprio in questo
periodo in cui i nostri sacerdoti sono perseguitati e uccisi crescono le
vocazioni sacerdotali; molti giovani entrano nei nostri seminari, e come
l’apostolo, vogliono seguire Gesù e dicono: <Andiamo con Lui, e moriamo
con Lui!>” (Gv. 11,18). Non mi interessa “l’avvoltoio”Fra
le tante materie che studio c’è anche il greco biblico. Io ho studiato tanti
anni fa greco al Liceo classico: studiare adesso il greco biblico per me è come
rivedere e purificare la mia vita. Sto usando il mio vecchio libro di grammatica
greca del Liceo, ma ovviamente il greco classico è un po’ diverso dal greco
biblico: ci sono alcune parole del greco classico che non appaiono mai nella
Bibbia, e allora non mi interessano. Ad esempio, come modello della III
declinazione il mio manuale pone “gyps, gypòs”, che significa
“avvoltoio”, però questo “avvoltoio” non appare mai nel Nuovo
Testamento, e così non lo studio, non mi interessa. Altre parole, invece, come
“dikaiosyne” (“rettitudine”) o “eirene” (“pace”) appaiono più
di 90 volte negli scritti neotestamentari, e dunque mi interessano. E’ un
lavoro interessante, che si dovrebbe fare a tutti i livelli: rivedere tutto
quello che ho fatto, tutto quello che ho studiato, tutto quello che sono stato,
rinforzando e potenziando quello che può essere utile per l’annuncio del
vangelo, e lasciando perdere tutto quello che non serve o addirittura è di
impedimento alla sequela di Gesù. Un abbraccio fraterno Alberto torna alla pagina lettere dalla missione |
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