CON
UN FORTE GRIDO:
lettera agli amici
In mezzo al fango
Quando
piove, e si cammina in mezzo al fango, mi domando
sempre come fa la gente a non sporcarsi. Io, con tanto
di stivaloni, arrivo sempre alla meta con i pantaloni
sporchi, mentre Tomasa e Nola, dotate di un semplice
paio di ciabatte, riescono ad arrivare in chiesa con i
piedi e i pantaloni perfettamente puliti, come se
fossero arrivate qui volando a mezz’aria. Non riesco
a spiegarmi come fanno. Certo è che la gente della Malvinas
ha sviluppato risorse incredibili.
E
in effetti, in mezzo al fango si sono sviluppate varie
forme di solidarietà, come quella dei ‘telefoni
condivisi’. Estela, ad esempio, la nostra
‘promotora de salud’, non ha telefono, e cosí
ogni volta che devo mandarle un messaggio, chiamo al
telefono di Norma, la vicina che abita in fronte, e
Norma corre ad avvisare Estela. Lo stesso succede
quando devo chiamare Dominga: avviso Evelin, la
cognata che abita tre case piú in lá; metto giú il
telefono, richiamo dopo due minuti, e finalmente posso
parlare con Dominga. Senza questa piccola forma di
solidarietà, la comunicazione sarebbe molto piú
difficile qui nel settore Malvinas, e la vita sarebbe molto piú dura.
Leggere la Parola con gli ‘Afro’
Da circa due mesi fratel Roberto ed io
dividiamo il nostro tempo tra la Malvinas
e il Centro Culturale Afroecuatoriano. Qui
ogni settimana teniamo tre incontri, due con
adulti e uno con giovani afro: leggiamo la
Parola, la condividiamo, e pianifichiamo
piccole ‘missioni’ nei vari quartieri di
Guayaquil abitati in maggioranza da
afroecuatoriani. Per me è una vera grazia
poter leggere la Parola con loro. Anche alla Malvinas
abbiamo creato due piccoli gruppi di afro: uno
nella parrocchia del “Buen Pastor” e
l’altro nella parrocchia di “Nuestra
Señora de la Salud”. |
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“Negra ma bella”
Uno
dei principali elementi su cui bisogna lavorare -
quando stai con gli afro - è quello dell’autostima.
In effetti, l’autostima media del pueblo afro è
molto bassa, perché la società continua a
discriminarli e a considerarli uomini e donne di serie
B. E cosí, quando un negozio richiede una commessa di
‘bella presenza’, una donna negra sa molto bene
che - per bella che sia - non potrá mai soddisfare i
canoni della ‘bella presenza’, perché donna di
bella presenza significa donna bianca. “Sono
negra, peró sono bella”, afferma la sposa del
Cantico (Ct1,5).
È strano, tante volte avevo letto il Cantico dei
Cantici, e non mi ero mai soffermato su questo
particolare, che mi sembrava poco importante. Ma
adesso posso capire bene questa frase: è la donna
afroamericana - discriminata in molti modi - che cerca
di convincere Dio di essere bella a dispetto del fatto
d’essere negra. È una donna con una bassa
autostima: la società la disprezza, alcuni abusano di
lei, e forse non si sente degna dell’amore di Dio.
Ma il Signore la rassicura: “Tu
mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa mia, tu mi
hai rubato il cuore con un solo tuo sguardo” (Ct4,9).
La donna che ha rapito il cuore di Dio, dunque, è una
negra. Tradizionalmente la sposa del Cantico è sempre
stata vista come un’immagine del popolo di Dio. Il
popolo afro, dunque, ha conquistato il cuore di Yavé:
il Signore vuole sposarsi con il popolo negro. È
giunto il tempo che gli afroecuatoriani riscoprano la
loro identità di popolo amato da Dio.
“Aprire buchi”
Quando
abbiamo letto l’episodio del paralitico curato da
Gesú (Mc2,1-12), mi sono soffermato soprattutto su
questi versetti: “Mentre
Gesú annunciava loro la Parola, quattro uomini si
diressero verso di lui per portargli un paralitico.
Tuttavia, poiché non potevano avvicinarlo a Gesú a
causa della grande folla, scoperchiarono il tetto nel
punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura,
calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico”.
Mi immagino la scena. Queste quattro persone vogliono
portare il loro amico ammalato da Gesú, ma incontrano
la strada sbarrata: di fronte a tutta quella gente
ammassata come sardine, sarebbe assurdo pensare di
poter entrare in quella casa. Umanamente, i quattro
avevano fatto tutto quello che era possibile, ma
adesso sembrava che non ci fosse altro rimedio che
arrendersi all’evidenza e rinunciare al proposito. E
invece la fede di quei quattro non si dá per vinta:
non è possibile entrare per la porta, secondo le vie
‘normali’? E allora, con uno sforzo di creatività,
cerchiamo un’altra soluzione, facciamo un buco nel
tetto e apriamo un varco laddove sembrerebbe non
esserci nessuna possibilitá di entrata. La fede dei
quattro amici rende possibile ció che sembrava
impossibile.
Anche
gli afro - quando annunciano il vangelo della
fraternitá e dell’uguaglianza - incontrano molti
ostacoli, alcuni dei quali apparentemente
insuperabili. Anche noi, allora, con uno sforzo di
creatività, dobbiamo cominciare ad aprire buchi…
‘Transfiguración’ y ‘desfiguración’
Due
settimane fa la liturgia proponeva la lettura della
Trasfigurazione di Gesú. Alcuni pacifisti hanno fatto
notare che il giorno in cui si lanció la bomba
atomica su Hiroshima coincise con la festa della
Trasfigurazione, che si celebra tutti gli anni il 6 di
agosto. E cosí, mentre Gesú si trasfigurava in una
luce di vita, gli uomini gettavano una bomba che
creava una luce di morte, un fungo che in un solo
giorno ‘evaporó’ 100.000 esseri umani, sfigurando
il volto e il corpo di molti altri sopravvissuti.
Ancora
oggi, assistiamo alla lotta tra questi due progetti:
da un lato la Trasfigurazione, il progetto di Dio che vuole trasfigurare il mondo,
trasformarlo in un Regno di giustizia e di pace; e
dall’altro la ‘Sfigurazione’,
il progetto di alcuni potenti concentrati unicamente
sui loro interessi economici, per realizzare i quali
sono disposti ad uccidere, a massacrare, a sfigurare
il volto e il corpo di tanti fratelli e sorelle. E
proprio ieri venivo a conoscenza di alcune immagini
che non saranno mai pubblicizzate dalla CNN: il
cadavere di un ragazzo iracheno cui una bomba aveva
staccato la testa, mandandola a pochi metri piú in lá
del corpo, e un cane che gironzolava tenendo fra i
denti un braccio e una mano.
Gesú vittima di guerra
“I soldati romani condussero Gesú nel pretorio e gli radunarono
attorno tutta la coorte. Lo spogliarono… poi
intrecciarono una corona di spine e gliela posero in
testa… E sputandogli in faccia, gli tolsero di mano
la canna e lo percuotevano sul capo”
(Mt27,27-30). Secondo John Dear, questo è il passo piú
antimilitarista di tutti i vangeli, perché qui si
denuncia l’essenza e la finalitá della struttura
militare, che è quella di torturare e uccidere. In
particolare, mi colpisce molto la sproporzione tra la
forza spiegata dall’esercito romano e la debolezza
della vittima indifesa: “tutta la coorte”, un
intero corpo dell’Esercito imperiale, è chiamata a
torturare un solo uomo disarmato. Mi viene naturale
guardare alla guerra in Irak e pensare in tutto
l’armamentario di morte (aerei B-2, Missili Tomahawk,
bombe a grappolo, bombe-laser) lanciato contro gente
inerme, como i 53 civili iracheni uccisi nel mercato
Suq Nasser di Baghdad.
Nella
parabola del Giudizio Finale (Mt25,31-46), Gesú si
identifica esplicitamente con l’affamato e
l’assetato, e ci chiede di amarLo con opere di
misericordia. Ma durante la guerra è impossibile
essere misericordiosi con quelli del fronte opposto;
la guerra, dunque, costituisce una specie di moratoria
su quello che il vangelo considera centrale e
irrinunciabile, ossia, l’esercizio dell’amore al
prossimo, e in particolare dell’amore alla vittima.
E in realtà durante un conflitto armato non solo non
è possibile fare il bene, ma si esige che facciamo il
male. Ad esempio, Gesú ci dice che bisogna dare da
bere agli assetati; peró in guerra non solo non
dissetiamo chi era giá assetato, ma addirittura
creiamo nuovi assetati, riducendo alla sete chi poteva
bere senza alcun problema. E cosí in Irak i
bombardamenti degli angloamericani - distruggendo il
sistema elettrico che assicurava la potabilizzazione -
ha reso imbevibile l’acqua di Baghdad e di tante
altre cittá irachene. Per sopravvivere, allora, la
gente è obbligata a bere acqua contaminata; e dopo
aver bevuto quest’acqua molti - soprattutto i piú
deboli, bambini e anziani - muoiono. In questo modo
una nazione ‘cristiana’ - gli Stati Uniti - invece
di dar da bere agli assetati, fa morire di sete
migliaia di essere umani.
Gesú
dice anche: “Ero straniero e mi hai accolto”, cioè,
mi hai dato una casa. In questa guerra in Irak,
invece, non solo non si dá la casa a chi non ce
l’ha, ma si distrugge la casa a chi ce l’aveva.
La
guerra, dunque, rappresenta un completo capovolgimento
del precetto dell’Amore predicato da Gesú: Cristo
dice che bisogna dar da mangiare all’affamato, da
bere all’assetato, accogliere lo straniero che non
ha casa, etc.; la legge della guerra, invece, esige
che si riduca alla fame chi aveva da mangiare, che si
distrugga la casa di chi aveva un tetto sotto cui
vivere, che si riduca alla sete chi aveva acqua
potabile da bere, etc.
La
cosa piú grave è che dicendo “Avevo
fame… Avevo sete… Ero senza casa, etc.”, Gesú
si identifica esplicitamente con le vittime di tutte
le guerre, che sempre soffrono queste privazioni. I
cristiani che partecipano in un conflitto armato,
dunque, accettano come perfettamente legittimo che si
riduca alla sete e si distrugga la casa allo stesso
Gesú. È impressionante pensare quanti soldi, quanto
tempo, quanta intelligenza e quante energie i
cristiani hanno speso, e continuano a spendere, per
ferire Gesú, per mutilarlo, per affamarlo, per
lasciarlo senza tetto, per torturarlo, per
ammazzarlo…
Con un forte grido
Nel
vangelo di Marco l’ultima parola pronunciata da Gesú
è un grido: “Uno
di loro corse a inzuppare di aceto una spugna e,
postala su una canna,
gli dava da bere, dicendo: - Vediamo se viene
Elia a toglierlo dalla croce -. Ma Gesú, dando un forte
grido, spiró” (Mc15,37).
Il
grido con cui Gesú si congeda da questo mondo
contrasta con il silenzio che aveva mantenuto di
fronte agli oltraggi e agli insulti dei soldati, dei
sacerdoti e dei passanti. È come se Gesú, prima di
morire, avesse voluto raccogliere tutte le sue
energie, lanciandoci - con questo forte grido - un
messaggio importante. Di fronte a un’ingiustizia
tanto evidente, di fronte ad una macchina di morte e
di tortura cosí disumana e crudele, ormai non valgono
piú le parole: l’unico modo con cui la vittima puó
lanciare la sua protesta è con
un forte grido. A questo punto, l’unico suono
che puó ancora scuoterci è questo urlo disperato,
con cui Gesú cerca di raggiungere e penetrare il
nostro orecchio distratto e mezzo sordo. Lasciamoci
raggiungere da questo grido! Non assuefacciamoci ai
massacri decretati dall’Imperatore di turno! Non
lasciamo solo il Cristo massacrato e crocifisso in
Irak!
E
che questo grido ci converta, che non ci lasci in
pace, che continui a risuonare dentro di noi con tutta
la forza della sua disperazione! E che ci costringa ad
uscire allo scoperto, a gridare anche noi contro
questa follia, contro questo criminale progetto di
morte!
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