(dossier della rivista missionaria saveriana
Missione Oggi di
Giugno-Luglio 1998)
Presentazione:
Nella sua storia, la missione non ha avuto un unico volto, ma ha presentato
molteplici teologie
e prassi: diversità che non necessariamente si escludono, ma sono complementari
e si interpellano. Questo era già vero per la chiesa primitiva: gli autori del
Nuovo Testamento,
pur nell'unità di fondo, mostrano comprensioni differenti della missione.
La varietà delle "teologie della missione" è dovuta non solo alla
ricchezza dell'autocomunicazione di Dio in Gesù, ma anche alla diversità dei
contesti socioculturali in cui essa viene annunciata. La teologia è nata come
"accompagnamento della missione": è l'incontro missionario con il
mondo che obbliga le chiese a fare teologia.
In questo Dossier vedremo, almeno per cenni, come Gesù ha inteso e vissuto la
sua missione, poi come Matteo, Luca e Paolo l'hanno interpretata, in contesti
diversi, nelle loro comunità .
Il Dossier è tratto dall'opera magistrale di David Bosch, Transforming mission,
in una nostra libera riduzione.
Ai nostri amici l'avevamo annunciato con il titolo I molti volti della missione
nel N.T.
Abbiamo preferito modificarlo, a sottolineare non solo il fatto che non è
pensabile l'imposizione di un'unica idea di missione, uniforme per tutti i
contesti, ma anche il fatto che ogni epoca deve creativamente ritornare, come
riferimento necessario, alle radici della missione: quella vissuta da Cristo e
dai primi cristiani.
È un duplice richiamo che ci sembra utile proporre.
MEO ELIA
1.
COME GESU' HA VISSUTO
LA
MISSIONE
Il
primo cambiamento del modello di missione si è verificato con Gesù di
Nazareth:
l'azione sua e della chiesa degli inizi presentano differenze decisive nei
confronti dell'Antico Testamento, anche rimane però essenziale per cogliere la
natura della missione di Gesù e
dei suoi seguaci.
C'è,
infatti, una chiara differenza tra la fede di Israele e le religioni dei popoli
vicini.
Queste sono legate alla natura e ai suoi cicli, mentre Israele parte
dall'affidarsi al Dio che li ha liberati dall'Egitto: è il Dio che agisce nella
storia in favore dei poveri, come inizio e pegno del suo intervento decisivo che
farà alla fine. In questa luce, la fede di Israele comprende anche la finalitÃ
della sua elezione: Dio l'ha scelto per un servizio e se questo non è compiuto,
l'elezione perde il suo senso.
Il
servizio che Dio chiede al suo popolo implica precisi impegni nei confronti di
quanti sono esclusi al suo interno: orfani, vedove, poveri, forestieri.
Ma, nella sua storia, ben presto prende coscienza che la compassione di Dio
abbraccia anche tutti i popoli. Il Dio di Israele è Creatore e Signore del
mondo intero e perciò Israele può capire la propria storia solo in
collegamento con la storia delle nazioni pagane, mai come una storia a parte.
Soprattutto il libro di Giona e il secondo di Isaia richiamano questa
dimensione. Isaia e i Salmi parlano di un Dio che condurrà le nazioni pagane a
Gerusalemme, perché lo adorino insieme al popolo dell'alleanza.
Ma,
insieme a questa prospettiva incoraggiante, c'è un retroterra molto meno
positivo: in realtà Israele non vuole andare verso le nazioni pagane e
invitarle a credere nel Signore.
Non c'è da stupirsi, quindi, se nel corso dei tempi sia stato l'atteggiamento
negativo a
prevalere nei confronti dei "pagani".
Quanto più si deteriorava la propria situazione politica e sociale, quanto più
cresceva l'attesa del giorno in cui il Messia sarebbe venuto a sconfiggere le
nazioni pagane e "a ricostruire" Israele.
Questa speranza era in genere legata a idee fantasiose di dominio del mondo da
parte di Israele, a cui tutti sarebbero stati sottomessi.
LA NOVITÀ DI GESÙ
Alla
nascita di Gesù, era questo il clima dominante. Sì, c'erano i proseliti e i
timorati di Dio,
due categorie di "pagani" attratti dal giudaismo, ma lo erano per
iniziativa propria: generalmente i pii giudei non si preoccupavano per nulla
degli altri gruppi.
Spesso non si preoccupavano neppure di tutti i membri della propria razza.
Già vari secoli prima di Cristo, si era fatta strada la convinzione che non
tutto Israele si
sarebbe salvato, ma solo un resto fedele. Vari gruppi religiosi del giudaismo
ritenevano se stessi questo "resto" e mettevano tutti gli altri, anche
i compatrioti giudei, fuori dalla società . L'azione di Giovanni Battista si
colloca in questo contesto.
Nella sua ottica non era più pensabile che "tutto" Israele fosse
eletto: i giudei che lo circondavano erano "una razza di vipere" e
uguagliati ai pagani, fuori dall'alleanza: chi si pentiva doveva sottomettersi
al rito del battesimo allo stesso modo dei pagani che si convertivano al
giudaismo.
Sta
qui la netta differenza tra Gesù e i gruppi religiosi giudei del suo tempo,
Giovanni Battista compreso. Gesù, giudeo, sente di avere una missione verso
"tutto" Israele.
Percorre in lungo e in largo il paese, invia i discepoli a tutti, il numero
stesso dei Dodici è in riferimento alle 12 tribù del suo popolo.
Il comportamento di
Gesù è un continuo superare le pratiche e le strutture che escludevano qualche
parte del suo popolo dalla comunità israelita: lebbrosi, poveri, esattori di
imposte, prostitute, popolo semplice che ignorava la Legge.
L'establishment giudeo li emarginava, con semplicità Gesù accosta queste
"pecore perdute della casa d'Israele", questi "ultimi".
Per
gli ambienti religiosi era particolarmente scandaloso che Gesù frequentasse gli
esattori: erano considerati dei traditori della causa giudea, collaboratori dei
Romani e sfruttatori della propria gente. Gesù non li evita.
Si invita lui stesso in casa di Zaccheo, chiama Levi a lasciare il suo lavoro e
seguirlo.
La sua chiamata è un gesto gratuito, che ristabilisce una comunione e inizia
una nuova vita anche per gli esattori.
La
tradizione, soprattutto quella trasmessa da Luca, parla di Gesù "speranza
dei poveri". Poveri è un nome generico che comprende spesso le categorie
già citate.
Se sono tali è perché le circostanze (o, più esattamente, i ricchi e i
potenti) sono state dure nei loro confronti. Sono angosciati per il domani e
preoccupati per il cibo e il vestito.
"Dacci il pane di questo giorno" era una preghiera per la
sopravvivenza.
Attraverso l'azione di Gesù, Dio inaugura il suo Regno escatologico in favore
dei poveri e dei messi da parte.
"Nel contesto della religione ebraica, non ci poteva essere una
rivendicazione più forte" (Schottroff).
UNA
MISSIONE INGLOBANTE
Colpisce
il carattere "inglobante" della missione di Gesù.
Riguarda i ricchi e i poveri, gli oppressi e gli oppressori, i peccatori e le
persone pie.
La sua missione mira a sbloccare le separazioni e a far crollare i muri di
inimicizia tra le persone e i gruppi. Come Dio gratuitamente ci perdona, anche
noi dobbiamo perdonare chi
ci ha fatto dei torti, senza limiti.
Tutto
questo è particolarmente evidente nei Logia (i detti) della fonte Q, che
annunciatori itineranti diffondevano in tutta la Palestina, prima ancora della
stesura dei Vangeli.
La principale insistenza è l'amore dei nemici, per riuscire a guadagnare, se
possibile,
questi stessi nemici. Rifacendosi alla magnanimità di Dio, i discepoli di Gesù
non si definiscono in opposizione con quelli che non lo sono.
Anche le profezie più dure non vogliono essere che appelli estremi al
pentimento.
Gli annunciatori sono pronti a perseverare fino a che l'ultimo israelita ribelle
sia ritrovato e condotto all'ovile, ma non blandiscono e non fanno costrizioni:
il loro è un invito.
I
"pagani" figurano spesso nei Logia (Gesù loda la fede del centurione
romano e della donna cananea), ma l'orizzonte di Gesù rimane il quadro della
fede e della vita religiosa giudea del primo secolo, anche se lo supera con il
puntare a tutto Israele e non solo ad un piccolo resto. Ma attenti, questo non
è un accordo con i teologi che attribuivano l'idea della missione ai pagani non
al Gesù terreno, ma ad un insieme di circostanze socio-religiose e all'apporto
di alcuni iniziatori, in particolare Paolo.
Il fondamento della missione universale risale a Gesù stesso.
È stata la natura della sua azione, che rompeva tutte le barriere, a creare nei
suoi discepoli
la convinzione che l'alleanza di Dio si allargava oltre le frontiere d'Israele.
Richiamiamo
alcuni tratti salienti del ministero di Gesù.
1
-La
proclamazione del Regno di Dio
È
il centro di tutto il ministero di Gesù.
Nel suo tempo, periodo di dominazione straniera, prevaleva la concezione del
Regno di Dio come una realtà totalmente futura, che avrebbe capovolto la
situazione e dato il dominio a Israele.
Gesù, invece, sottolinea due elementi. Primo, il Regno di Dio riguardava non
solo il futuro,
ma anche già il presente, si era reso vicino; qualcosa di totalmente nuovo
stava avvenendo; la speranza di liberazione si faceva vicina, il futuro era giÃ
entrato nel presente.
Secondo, il Regno di Dio giungeva dovunque Gesù vinceva il potere del male.
Siccome il male assume forme diverse - malattia, morte, possesso del demonio,
peccato, privilegi dei gruppi, emarginazioni, vendette - anche il potere di Dio
assume forme diverse.
Non
si comprende l'azione di Gesù verso gli emarginati se non si coglie ciò che
per Gesù è il Regno di Dio.
È soprattutto a quanti sono messi ai margini della società che Gesù offre la
possibilità di una nuova vita, basata sulla realtà dell'amore di Dio: possono
stare a testa alta, sono figli del suo Regno, Dio si prende cura di loro.
Agli occhi dei contemporanei di Gesù, Satana mostrava sugli impossessati la sua
capacità di spadroneggiare.
L'attacco del Regno di Dio contro il male si manifesta, allora, particolarmente
con le guarigioni e la cacciata dei demoni: se Gesù caccia i demoni "con
il dito di Dio", "è segno che il Regno di Dio vi ha raggiunti" (Lc
11,20).
Va
notata la natura inglobante del Regno di Dio: Gesù tocca tutte le forme di
alienazione e tutti i muri dell'inimicizia e dell'esclusione.
Per lui non c'è opposizione tra salvare dal peccato e salvare da una malattia
fisica: per noi salvare è diventato un termine esclusivamente religioso, mentre
nei Vangeli è usato almeno
18 volte nel caso di guarigione delle malattie.
Anche il termine perdono comporta significati che vanno dalla liberazione degli
schiavi al condono dei debiti, alla liberazione escatologica e alla remissione
dei peccati.
La
manifestazione del Regno di Dio nell'azione di Gesù è politica, anche se non
nel senso moderno del termine.
Dichiarare "figli del Regno di Dio" i
poveri, era esprimere un
profondo scontento della situazione e un forte desiderio di cambiamento. Per le
vittime della società , la fede nella
realtà del Regno di Dio risultava come un movimento di resistenza al fatalismo
e all'emarginazione.
Il venga il tuo Regno doveva suonare alle autorità come un proclama chiaramente
politico. Hanno, infatti, ritenuto sovversiva l'azione di Gesù e l'hanno
eliminato.
2 -
Il
comportamento di Gesù nei confronti della Legge ebraica.
Per
Gesù, il principio decisivo dell'agire non è la Torah, ma diventa il Regno di
Dio.
Esso si manifesta come amore verso tutti i viventi. L'A.T. conosceva l'amore
forte e tenero di Dio verso Israele; ora l'amore di Dio inizia a superare le
frontiere di Israele. Inoltre, nell'azione di Gesù, le persone contano più
delle regole e dei riti.
Dimostra che è impossibile amare Dio senza amare il prossimo.
Questo implica nuovi criteri per le relazioni umane. I discepoli di Gesù, nelle
loro relazioni, dovranno riflettere un altro sistema di valori, che mostreranno
con il servire gli altri, invece di dominarli. Imiteranno così il loro Signore,
che ha loro lavato i piedi.
Gesù si è offerto per amore degli altri; essi dovranno fare lo stesso.
3 -La
chiamata e l'invio dei discepoli.
Nel
Vangelo di Marco il ministero di Gesù comincia con il proclama: "I tempi
si sono compiuti, il Regno di Dio si è avvicinato, convertitevi e credete
all'Evangelo" (Mc 1,14). Subito dopo riporta la chiamata dei primi
discepoli. La concatenazione dei fatti non è casuale: i discepoli ricevono la
chiamata a essere missionari.
Anche
i rabbini avevano dei discepoli. Ma quelli di Gesù sono radicalmente
differenti, e le differenze sono dovute proprio alla missione. Scelti da lui
stesso, non hanno per scopo di conoscere la Torah, ma di seguire Lui; non devono
diventare dei licenziati in teologia, ma dei suoi testimoni. Per i suoi
discepoli Gesù non è solo un maestro, ma il Signore, lo servono; e lui si fa
loro servo. Seguirlo è partecipare al suo servizio: sono chiamati "per
stare con lui e per essere inviati a predicare e cacciare i demoni" (Mc
3,14). E' partecipare alla sua missione: li investe della sua stessa autorità :
devono fare e proclamare ciò che lui compie e proclama.
Un'ultima
differenza: i discepoli di Gesù formano l'inizio del popolo messianico degli
ultimi tempi: mentre lo seguono nella sua passione, attendono il suo ritorno
nella gloria.
È questa "attesa" la motivazione della missione: se con Gesù i tempi
escatologici erano iniziati, la salvezza era estesa a tutti. I discepoli non
devono, perciò, ritenersi un gruppo esclusivo, elitario: essi sono i primi
frutti del Regno, che accettano di impegnarsi nella sua comunità di servizio
verso tutto il mondo.
4
- La missione dalla prospettiva della Pasqua.
E'
stata l'esperienza della Pasqua a determinare la coscienza e l'identità della
giovane comunità cristiana: le ha fatto vedere l'azione del Gesù terreno sotto
una luce nuova, e come criterio per capire la propria vocazione. La croce di Gesù
era la fine del vecchio mondo,
la sua risurrezione era l'irrompere del nuovo.
I
Vangeli articolano perciò la Pasqua alla missione: il Cristo glorificato attira
tutti a sé; la sua elevazione è il segno della vittoria già riportata sul
male.
Il Regno di Dio non è un programma che la chiesa debba realizzare, è una realtÃ
già inaugurata dall'evento di Pasqua: la missione è proclamare e manifestare
il Regno universale di Gesù, non ancora riconosciuto e ammesso da tutti, ma giÃ
reale.
Anche
la Pentecoste è legata alla missione in modo altrettanto costitutivo.
La missione è la prima attività dello Spirito.
E' lui che rende testimoni i discepoli e li spinge
nel mondo.
A Pentecoste si sprigionano le forze del mondo futuro: per questo i discepoli
devono partire, andare a tutti, presto, senza perdere tempo per strada.
Si
configura, così, il campo della missione: insieme alle forze del mondo futuro,
dono di Cristo
e del suo Spirito, permangono le forze contrarie con tutto il loro peso.
La chiesa primitiva ha inteso il suo impegno missionario nel mondo nei termini
di una fine dei tempi "già arrivata" e, nello stesso tempo,
"ancora in via di realizzazione".
La sua invocazione "Maranatha" (vieni, Signore!) esprimeva una forte
speranza non ancora realizzata.
L'ingiustizia e l'oppressione non erano scomparse, la povertà , la fame e la
persecuzione infierivano pesantemente.
Era
quanto si era verificato nell'azione di Gesù: non aveva guarito e liberato
tutti: "Ha introdotto il Regno di Dio nel mondo del male, ma non l'ha
ancora realizzato totalmente e universalmente. Ha posto dei segni, per mostrare
che il Regno si era avvicinato e che la lotta contro le potenze e le autoritÃ
di questo tempo era cominciata" (Käsemann).
La
chiesa primitiva ha continuato l'azione di Gesù, ponendo dei "segni"
del Regno nascente di Dio. Ma Gesù stesso era un segno contestato (Lc 2,34) e
anche i segni da lui posti erano contestati e ha servito nella debolezza,
nell'ombra.
E' così che la missione autentica si è sempre presentata: nella debolezza.
DALLA
PRASSI DI GESU' ALLA NOSTRA
Non
possiamo applicare le parole e l'azione di Gesù direttamente alla nostra realtà ,
radicalmente diversa: siamo chiamati a prolungare la sua logica, in modo
creativo,
nelle nostre situazioni storiche: oggi, come allora, quale "diversità "
risulterebbe nei confronti della società se, nel suo interno, ci fossero
davvero dei gruppi che cercano con tutte le
forze il Regno di Dio, pregano per la sua venuta, sostengono la causa dei
poveri, si pongono
al servizio degli emarginati, rialzano chi è oppresso e curvato e, soprattutto,
"proclamano
l'anno del favore del Signore"!
L'azione
di Gesù esprime la forza di Dio che si prende cura di tutte le dimensioni della
vita.
Ma, per ora, le forze contrarie restano una realtà , continuano a gridare il
loro potere.
Noi dobbiamo essere, nello stesso tempo, impazienti e modesti: la nostra
missione non realizza il Regno di Dio. Gesù stesso ha inaugurato il Regno, ma
non l'ha ancora realizzato.
Come lui, siamo chiamati a "porre dei segni" del Regno finale di Dio:
niente di più, ma anche niente di meno. Quando preghiamo "venga il tuo
Regno" ci impegniamo, qui e ora, a porre dei segni che siano delle immagini
e degli anticipi del Regno di Dio.
Il
Regno di Dio verrà , perché è già venuto.
E', nello stesso tempo, dono e impegno, regalo e promessa, presente e futuro,
celebrazione e speranza.
Abbiamo l'assicurazione che niente potrà bloccare la sua venuta.
2. LA MISSIONE NEL VANGELO DI MATTEO:
FARE
DEI DISCEPOLI
Il primo Vangelo è essenzialmente un testo
missionario.
Matteo non l'ha scritto per comporre una "vita di Gesù", ma per
aiutare una comunità in crisi
di identità a capire la sua vocazione.
Lui stesso faceva parte della comunità giudeo-cristiana che, fuggita poco prima
della guerra giudaica, si era stabilita in un ambiente in prevalenza pagano,
probabilmente in Siria.
A
partire dalla fine degli anni '70, la situazione stava cambiando.
Prima i cristiani di origine giudea non si consideravano una religione distinta,
ma un movimento di risveglio all'interno del giudaismo.
Ora era in atto un crescente rifiuto da parte dei circoli farisei, culminato poi
con il rigetto e la rottura.
La comunità di Matteo, staccata dalle sue origini e isolata in un contesto
pagano, di fronte ai problemi nuovi, cercava a tastoni la propria strada.
In più era spaccata da due frange estremiste: i difensori intransigenti della
fedeltà alla Legge ebraica, e gli "entusiasti", di mentalitÃ
ellenista, con un'esasperata pretesa della guida dello Spirito.
Matteo
non commenta le divergenze tra i due gruppi opposti, ma risale alla logica che
Gesù aveva nel suo ministero, cercando di prolungarla dentro le nuove
situazioni che stavano vivendo. Sembra voglia indicare questa prospettiva: la
comunità potrà superare le tensioni e i conflitti interni se unirà tutte le
proprie energie nella missione verso i "pagani" fra cui si trovano.
Vuole
che la sua comunità non si consideri più un gruppo settoriale, ma prenda
coscienza di essere "la chiesa di Cristo" (Matteo è l'unico
evangelista che usa il termine ekklesia, chiesa). Lo scopo del suo Vangelo è
pastorale, perché vuol dare fiducia ad una comunità che sta vivendo una crisi
di identità ; ma è, nello stesso tempo, missionario, perché vuole spingere i
membri della comunità ad aprire gli occhi e vedere le occasioni di
testimonianza e di servizio che il contesto offre loro.
IL MODELLO DI MATTEO: DISCEPOLI IN MISSIONE
Non
possiamo prendere in considerazione i singoli concetti chiave legati alla
missione nel Vangelo di Matteo. Li vedremo globalmente nel vedere lo specifico
del suo modello missionario.
1. L'identità cristiana è la missione
Qual
è l'identità che Matteo, attingendo a quanto la tradizione narrava di Gesù,
indica alla sua comunità in crisi? È un'identità -in-missione.
C'è
come un crescendo lungo tutto il suo Vangelo, che culmina con il "mandato
missionario": "Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che
Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, si prostrarono davanti a lui; alcuni
però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: mi è stato dato ogni
potere in cielo e in terra; dunque, andate e fate dei discepoli in tutte le
nazioni, immergendoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con
voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,16-20).
Ogni
parola di questo invio in missione ha le radici nella storia di Gesù raccontata
da Matteo. Ad esempio insegnare, nello spirito di Matteo, non è solo
un'operazione di natura intellettuale, come per i greci dell'epoca:
l'insegnamento di Gesù fa appello alla volontà dei suoi uditori, esige la
decisione concreta di seguirlo e di sottomettersi alla volontà di Dio. Matteo
mette in risalto il ruolo centrale della volontà di Dio per Gesù e per i
discepoli: chi diventa discepolo e viene battezzato dai messaggeri di Cristo,
deve seguire Gesù esattamente come l'avevano fatto i Dodici.
Per
Matteo la missione è "fare dei discepoli". Essa ha, cioè, lo scopo
di offrire a tutti la possibilità di diventare discepoli di Gesù. In Matteo,
il termine "discepolo" non si riferisce solo ai Dodici, come è per
Marco e Luca, ma vale per tutte le epoche: la relazione che esisteva tra il
maestro e i primi discepoli si trasforma in qualcosa che supera quel momento
storico. I seguaci di Gesù devono fare in modo che altri diventino ciò che
essi sono.
2. Chi sono i discepoli?
Matteo
sottolinea due aspetti, che vengono vissuti in una tensione creatrice,
importante per la missione: da una parte mostra la loro vicinanza con Gesù,
dall'altra insiste - più ancora degli altri Vangeli - sul loro atteggiamento
riverenziale e di dipendenza nei suoi confronti.
Il
primo aspetto serve a Matteo anche per rappresentare Gesù risorto come colui
che rimane con i suoi discepoli sino alla fine dei tempi. È l'Emanuele, il Dio
con noi. Perciò Matteo non parla dell'ascensione né della venuta dello Spirito
Santo, e non ritiene necessario dire che Gesù ritornerà : come potrebbe, dato
che rimane con i suoi discepoli?
Questa
presenza duratura di Gesù è legata all'impegno dei suoi nella missione; non
nel senso che se essi assumono l'impegno missionario Gesù rimane con loro, ma
nel senso opposto: è perché Gesù continua ad essere presente fra i suoi
discepoli, che essi partono in missione.
Li ha chiamati, infatti, a "condividere la sua sorte", che è sia
partecipare alla "sua sofferenza" che alla "sua autorità "
di fare dei suoi discepoli in tutte le nazioni.
Con
il secondo aspetto Matteo sottolinea che, per i suoi discepoli,
Gesù non è semplicemente una guida, ma il Signore. È sempre con questo titolo
che essi si rivolgono a lui nel suo Vangelo, mentre i suoi avversari lo chiamano
maestro. Inoltre, Gesù è Colui a cui è stato dato ogni potere in cielo e in
terra, dinanzi al quale i discepoli "si prosternano", gesto di
sottomissione e di adorazione riservato a Dio solo.
Un modo anche di riconoscere la propria debolezza e la fiducia in lui,
atteggiamenti fondamentali per la missione.
3. Portare frutti
A
quelli che vogliono essere veri discepoli, Gesù chiede di "portare dei
frutti".
Matteo ha un modo tutto suo di vedere la missione: si distacca dalle due ali
estreme della sua comunità , sia dai "legalisti", a cui preme solo la
Legge e l'ortodossia, sia dagli "esaltati", che tendono allo
spiritualismo. A tutti richiama l'importanza dell'ortoprassi: si vede dai frutti
se sei guidato dallo Spirito: l'albero buono porta frutti buoni (Mt 7,19). Tra i
racconti su Gesù che la tradizione veicolava, Matteo sceglie quelli che
riferiscono di azioni concrete, in particolare le "opere di Cristo" (Mt
11,2). Tra le parole di Gesù, sceglie quelle che richiedono di fare la volontÃ
di Dio, mettere in pratica i suoi comandi, praticare la giustizia.
La
missione, quindi, non può essere ristretta in una dimensione individuale, in un
rinnovamento solo personale o una speciale garanzia personale per la salvezza
eterna; ma implica che i nuovi credenti siano, fin dall'inizio, sensibili alle
necessità degli altri e operativi nei confronti dell'ingiustizia, della
sofferenza e oppressione dei deboli. "Secondo Matteo 28, non è possibile
fare dei discepoli senza far loro prendere coscienza che Dio li chiama a
praticare la giustizia verso i poveri. Il comando di amare, base stessa
dell'impegno della chiesa nel politico, è parte integrante dell'invio in
missione" (Matthey).
4.
Diventare discepolo costa
Matteo
è l'unico evangelista a mettere il termine ekklesia (chiesa) in bocca a Gesù.
Occorre però stare attenti: non c'è una coincidenza automatica tra essere
membro della chiesa e essere un discepolo. "Fare dei discepoli" non
significa semplicemente un'espansione numerica della chiesa. Certo, ogni membro
della chiesa dovrebbe essere un vero discepolo, ma non sempre si verifica nelle
comunità cristiane che Matteo conosce.
Per questo richiama le parabole della zizzania che cresce con il grano
(13,24-30) e del pesce senza valore che a volte è pescato nelle reti del Regno
(13,47-50).
Ci sono convertiti superficiali che rinnegano la loro fede nel momento della
prova, altri cedono alle tentazioni e alle pressioni del mondo (13,20-22).
Matteo
sottolinea, quindi, il fatto che diventare discepolo costa.
Per lui la chiesa esiste solo nella misura in cui i discepoli vivono in
comunione di vita reciprocamente e con il loro Signore e cercano di vivere in
conformità al volere del Padre.
CONCLUSIONE
A Matteo non interessa darci una terminologia missionaria, gli preme mostrare la
pratica missionaria di Gesù e dei discepoli e, conseguentemente, della comunitÃ
cristiana.
Nel descriverla usa questi termini: inviare, andare, proclamare, guarire,
esorcizzare, costruire pace, testimoniare, insegnare, fare dei discepoli.
Non possiamo certo dedurre dal Vangelo di Matteo una teoria missionaria valida
universalmente; riceviamo però delle chiare indicazioni di cammino:
-
basandosi sul ministero, morte e risurrezione di Gesù, Matteo spinge sulla
strada della missione ad gentes;
-
i discepoli sono chiamati a proclamare la vittoria definitiva di Gesù sul
potere del male, a testimoniare la sua continua presenza, a far sì che il mondo
riconosca l'amore di Dio;
-
il cristiano trova la sua vera identità quando si coinvolge nella missione,
comunica agli altri una nuova ragione di vivere, una nuova visione di Dio e
della realtà , quando si impegna per la loro liberazione e la loro salvezza;
-
una comunità missionaria si autocomprende differente dal mondo che la circonda
e, nello stesso tempo, impegnata nel suoi confronti; verso ogni contesto in cui
si trova a vivere ha, nello stesso tempo, un atteggiamento di simpatia e di
critica;
-
quando vive momenti di confusione e d'incertezza, la comunità di Matteo è
ricondotta alle sue origini: è nel contatto con le persone e le esperienze che
l'hanno fatta sorgere che essa può riscoprire se stessa e discernere il senso
della sua vocazione.
MATTEO
INDICA ALLA SUA COMUNITÀ LA MISSIONE AD GENTES
Matteo non contrappone la missione verso Israele e la missione verso i
"pagani". Esse non si escludono, anzi si implicano reciprocamente.
Matteo indica alla sua comunità la missione ad gentes attraverso
un'intelligente organizzazione del materiale di cui disponeva.
-
Dall'inizio alla fine del suo Vangelo, i "pagani" hanno un ruolo
importante: ad esempio, le quattro donne non israelite nella genealogia di Gesù;
la visita dei magi; il centurione di Cafarnao che porta Gesù ad affermare che
molti non-giudei prenderanno parte al banchetto finale con i patriarchi; la
dichiarazione di Gesù che il Vangelo sarà predicato a tutte le genti; la
confessione del centurione romano sotto la croce "veramente costui era il
Figlio di Dio".
-
Vanno aggiunte le sistematiche annotazioni che mettono i "pagani" in
buona luce: Gesù sottolinea la loro fede, la loro spontanea e calda reazione
nei suoi confronti, spesso confrontata con l'assenza di una simile risposta da
parte dei giudei.
3.
LA MISSIONE IN LUCA:
PRATICA
DEL PERDONO E
SOLIDARIETÀ CON I POVERI
All'inizio dell'attività di Gesù, Luca pone l'episodio della Sinagoga di
Nazareth (4,16-30), che presenta come programmatico di tutta la sua missione.
Sottolinea almeno tre temi fondamentali: il posto centrale dei poveri; il
rifiuto dello spirito di vendetta; l'apertura gratuita del Regno di Dio a tutti,
senza diritti e pretese da parte di nessuno e senza preclusioni, dentro e fuori
d'Israele.
Come
il Vangelo di Matteo può essere colto nel suo insieme solo nella prospettiva
del suo
brano finale, così è per il Vangelo di Luca: fin dalle prime battute è
rivolto verso il suo punto culminante, che riassume la visione di Luca sulla
missione: "Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e
disse: Sta scritto che il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il 3°
giorno e nel suo nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni.
E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso. Voi rimanete in
città finché non sarete rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,45-49).
Gli
stessi elementi sono ripresi all'inizio degli Atti e costituiscono il legame tra
i due libri di Luca, con i quali vuole far risaltare lo stretto rapporto tra la
missione di Gesù e della chiesa: la prima va dalla Galilea a Gerusalemme, la
seconda va da Gerusalemme a Roma: "Riceverete una potenza, quella dello
Spirito che verrà su di voi; allora mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta
la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8).
GiÃ
dai due testi richiamati appare come per i due libri di Luca la missione è una
dimensione centrale: qualcuno arriva a dire che è il tema dominante della sua
opera. C'è un altro testo fondamentale, a cui Dupont attribuisce la stessa
funzione programmatica che il Sermone della montagna ha per Matteo: è il
racconto che Luca pone come introduzione a tutto il ministero di Gesù:
l'episodio della sinagoga di Nazareth (4,16-30). Qui ci preme far notare il
terzo contenuto, da noi già richiamato: l'allusione di Gesù alla missione
futura presso i non-giudei. Nello spirito di Luca, l'episodio di Nazareth
prepara la missione presso i "pagani"; per lui, il ministero di Gesù,
fin dagli inizi, è già orientato in senso universale.
UNA MISSIONE UNIVERSALE, MA
CHE PARTE DA GERUSALEMME
L'attenzione
data da Luca agli incontri di Gesù con i Samaritani va vista nella stessa
ottica:
la missione nei loro confronti costituisce l'inizio della missione fra i
non-giudei e fa parte del piano di Dio.
Agli
occhi dei nazionalisti giudei, i Samaritani erano al livello più basso dei
valori religiosi e morali. Gesù mostra, nel Vangelo di Luca, una scandalosa
simpatia e apertura nei loro confronti: anche se si erano rifiutati di
accoglierlo, proibisce di invocare la vendetta su di loro, come Giovanni e
Giacomo chiedevano (9,51-56); colui che dai giudei non era neanche considerato
un uomo, viene posto come esempio di solidarietà , nella parabola del "buon
Samaritano" (10,25-37); dei dieci lebbrosi guariti, solo uno, "il
Samaritano" ritorna a ringraziare Gesù e si sente dire "alzati, la
tua fede ti ha salvato" (17,11-19).
Non ci sono preclusioni: con Gesù il tempo della salvezza è arrivato per
tutti, compresi quelli che venivano disprezzati.
Va
notato, però, che in Luca il superamento delle esclusioni e la prospettiva
universale si accompagnano ad un suo netto atteggiamento positivo verso il
popolo giudeo, la sua religione e cultura. Unico non giudeo tra gli scrittori
del Nuovo Testamento, Luca mette in luce, soprattutto nei racconti
dell'infanzia, il significato teologico di Israele: Gesù è presentato come il
Salvatore del popolo dell'antica alleanza: "Ha soccorso Israele, suo
servo", canta Maria; al termine stesso degli Atti, Paolo dichiara che
"è a causa della speranza di Israele" che porta le catene.
Nella
concezione teologica della missione di Luca ha un ruolo speciale Gerusalemme:
non solo è la destinazione del pellegrinaggio di Gesù, il luogo della sua
morte e delle apparizioni del risorto (nel suo Vangelo avvengono tutte a
Gerusalemme), ma anche è il luogo dell'ascensione, della Pentecoste e il punto
di partenza della missione verso Israele stesso.
Di
solito si insiste sul rifiuto che molti giudei hanno apposto a Gesù e agli
apostoli: è stato questo rifiuto - si dice - ad avere "provocato" la
missione ai "pagani". Per Luca non è così: mostra che, anche dopo i
rifiuti, gli apostoli hanno continuato a predicare anche ai giudei;
non solo, ma sottolinea le molte risposte positive, addirittura in crescendo:
3.000 convertiti in
At 2,41; 5.000 in At 4,4; "moltitudini sempre più numerose" in At
6,7; "migliaia di giudei" in
At 21,20.
Luca
sottolinea, cioè, che Israele non ha rifiutato il Vangelo, ma si è diviso nei
suoi confronti: una parte l'ha rifiutato e una parte l'ha accolto. Questa parte
costituisce il vero Israele, purificato, "restaurato"; chi invece, ha
rifiutato si è escluso da solo. La chiesa, agli occhi di Luca, è formata dalla
comunità dei giudei convertiti; a questi si aggiungono i convertiti di origine
pagana. A Pentecoste molti giudei diventarono ciò che essi erano, Israele; in
seguito, i "pagani" sono stati incorporati nel seno d'Israele. I
cristiani di origine pagana fanno parte d'Israele, non sono un "nuovo"
Israele: la conversione significa essere chiamati a partecipare all'alleanza
fatta con Abramo. Non ci sono fratture nella storia della salvezza: le promesse
fatte ai padri sono state adempiute. La chiesa nasce dal seno dell'antico
Israele; non è un'intrusa che si arroga le prerogative dell'Israele storico.
I PRINCIPALI ELEMENTI DEL MODELLO MISSIONARIO DI LUCA
I
- La stretta articolazione tra lo Spirito Santo e la missione.
Luca
si interessa al fatto che la storia continua, Gesù non è ritornato subito.
Riporta il racconto dei due discepoli di Emmaus: ora si può fare esperienza di
Gesù in modo totalmente nuovo: è presente ed in azione nella comunitÃ
cristiana grazie al suo Spirito di risorto.
GiÃ
il ministero di Gesù avveniva sotto la guida dello Spirito (Lc 3,22), ma è
soprattutto la missione dei discepoli che Luca attribuisce all'iniziativa dello
Spirito.
Possiamo notare tre azioni fondamentali:
1°
- Lo spirito spinge i discepoli ad intraprendere la missione.
Essi si consacrano alla testimonianza subito dopo, e solo dopo, essere stati
rivestiti dalla "forza dall'alto". Lo stesso Spirito che ha condotto
Gesù in Galilea (Lc 4,1. 14.16) spinge ora con forza i discepoli alla missione:
diventa il catalizzatore e la guida della missione. L'evento decisivo è la
Pentecoste: lo Spirito che era sceso su Gesù al suo battesimo, ora scende per
il secondo "battesimo"
(Atti 1,5). La missione è la diretta conseguenza dell'effusione dello Spirito.
Essa non è un "comando", ma una "promessa": il dono dello
Spirito è di essere coinvolti nella sua missione. Altri dirigono da fuori,
Cristo dal di dentro: non comanda, ispira. Luca parla di persone che sono
investite dallo Spirito e da lui condotte ad agire in sintonia con lui.
2°
- Lo Spirito guida i missionari e mostra loro le vie e i metodi. Essi non hanno
dei propri progetti, ma devono attendere le direttive dello Spirito.
Fondamentale è il racconto di Pietro presso Cornelio: l'iniziativa
dell'apertura ai "pagani" è dello Spirito, che conferma con una
seconda Pentecoste (At 10,44-48). Pietro si giustifica dinanzi alla comunità di
Gerusalemme:
è lo Spirito che gli "ha detto di non esitare" a recarsi da Cornelio
(At 11,12).
Altri esempi: il Concilio di Gerusalemme (At 8,29); l'invio di Paolo e Barnaba
(At 13,2-4);
l'inizio della missione in Europa (16,9); la spinta continua ad andare oltre, ad
uscire
(At 13, 46-48).
3°
- Lo Spirito che spinge alla missione è uno Spirito di potenza (dunamis).
Lo era già per Gesù (Lc 4,14; At 10,38). Ora lo è per gli apostoli (Lc 24,49;
At 1,8).
Lo Spirito non solo è l'iniziatore e la guida della missione, ma è anche colui
che dà le forze per compierla. Negli Atti Luca usa spesso le parole: parresia
(audacia) e parresiazomai (parlare con coraggio) e ogni volta osserva che è
l'effetto della forza dello Spirito.
È lui che dà coraggio ai discepoli, prima così timidi.
II
- L'interdipendenza tra la missione presso i giudei e la missione presso i
pagani.
È
Luca, non-giudeo, che ha capito la necessità di radicare la chiesa non giudea
dentro Israele. Ha avuto il coraggio di proclamare che Gesù era innanzitutto il
Messia d'Israele e, proprio per questo, il Salvatore delle genti. I convertiti
non giudei sono stati incorporati ad un Israele rinnovato (non sono un nuovo
Israele). Perciò la chiesa non deve mai, con spirito trionfalista, arrogarsi il
Vangelo voltando le spalle al popolo dell'antica alleanza.
III
- Sarete miei testimoni.
Il
termine testimone è fondamentale per cogliere il modello missionario di Luca.
Per lui "è il termine appropriato per definire la missione" (Gaventa).
Non significa che gli apostoli devono semplicemente raccontare il viaggio che il
Signore ha intrapreso verso Gerusalemme, ma che devono raggiungerlo sulla stessa
strada e affrontare lo stesso destino. Devono anch'essi essere pronti ad
assumere il loro cammino di Gerusalemme. Come Stefano. Come Paolo.
Negli
Atti il termine testimone viene applicato non solo agli apostoli, ma anche ad
altri, ad esempio a Paolo (22,15) e a Stefano (22,20) e già c'è l'allusione
del testimone visto come martire. Il contenuto della testimonianza (marturia)
corrisponde, nell'insieme, a quella dell'annuncio: la buona novella che il Regno
di Dio è Gesù Cristo, incarnato, crocifisso e risorto, e quanto lui ha
compiuto.
Gli
Atti mostrano con insistenza che il compito è affidato ad esseri umani deboli,
di per sé incapaci e continuamente dipendenti dalla forza dello Spirito. In
fondo, non sono chiamati a fare delle opere proprie, ma a segnalare ciò che Dio
ha operato e ancora opera, a dare testimonianza di ciò che essi hanno visto,
sentito e toccato (1Gv 1,1).
IV
- Pentimento, perdono dei peccati, salvezza.
Il
Vangelo di Luca e gli Atti sono costruiti sull'attesa di una risposta. La
testimonianza dei missionari ha per scopo il pentimento e il perdono, che
portano alla salvezza (cf At 26,17s). Accogliere Gesù è accogliere la
salvezza. Questa è liberazione da ogni forma di schiavitù e, nello stesso
tempo, vita nuova in Cristo. I missionari offrono la loro testimonianza in piena
convinzione che vita e morte ne dipendono: qualunque sia l'apprezzamento che
danno sulla vita religiosa della gente (At 17,22s), essi non cessano di
insistere sul pentimento e la conversione. Non possono essere indifferenti alla
sorte dei loro simili. Il loro invito a unirsi alla comunità non è mai fiacco.
La
conversione non è solo un atto di portata individuale, ma introduce nella
comunità dei credenti e comporta un reale e radicale cambiamento di vita, con
responsabilità morali, che distinguono i cristiani da "quelli di
fuori", e nello stesso tempo gli fanno sentire gli obblighi nei loro
confronti.
V
- La salvezza.
Un
autore osserva che per Luca la salvezza ha sei dimensioni: economica, sociale,
politica, fisica, psicologica e spirituale. Luca sembra particolarmente
interessato a quella economica. Spicca, allora, uno degli elementi principali
del suo modello missionario: il nuovo rapporto tra ricchi e poveri. Nella
sinagoga di Nazareth Gesù attira l'attenzione sulle condizioni di vita dei
poveri, dei ciechi, dei prigionieri e degli oppressi, e annuncia il Giubileo,
che inaugurerà il rovesciamento della loro sorte.
In
tutto il suo Vangelo, Luca mostra cosa vuol dire il Giubileo per i ricchi e per
chi sta bene della sua comunità : condividere ciò che si ha. Mostra che le
richieste di Gesù vanno ben oltre il corretto "atteggiamento" nei
confronti della ricchezza: mettono in crisi il loro possesso, il loro uso, lo
stile concreto di vita da cui è bandito ogni idea di sobrietà e di solidarietà .
Zaccheo nel Vangelo e Barnaba, il suo analogo negli Atti, sono il paradigma del
comportamento che Luca indica ai cristiani ricchi o più fortunati: donare una
parte sostanziale dei propri beni, fare prestiti a rischio, aiutare in maniera
disinteressataÂ… (Lc 6,20-49). Con la parabola del buon Samaritano definisce il
"prossimo" come colui che ha bisogno dei mio aiuto e che io non posso
lasciare sui bordi della strada.
Se
oggi i cristiani ricchi praticassero la solidarietà con i poveri, sarebbe in sé
un'enorme testimonianza missionaria. Il Vangelo non può essere buona novella se
i suoi testimoni sono incapaci di discernere la situazione e le ansie di chi è
ai margini. Proprio come nel ministero di Gesù, bisogna liberare chi soffre,
prendere su di sé la sorte dei poveri, reintegrare i paria e gli emarginati,
offrire perdono e salvezza a tutti quelli che si sono resi colpevoli.
VI
- Costruire la pace
È
una dimensione importante nel modello di missione di Luca. Costruire la pace,
resistere senza violenza al male, deprezzare l'odio e la vendetta: è un
messaggio che attraversa tutto il suo Vangelo e culmina con Gesù che prega per
coloro che lo crocifiggono, a cui fa da eco la preghiera di Stefano morente.
Nella
situazione di violenza, di inimicizia, di divisioni e di emarginazioni, tipica
del nostro tempo, questo aspetto del Vangelo di Luca è quanto mai pertinente.
Se falliamo su questo punto, siamo colpevoli dinanzi al Signore della missione.
VII
- La chiesa
Nel Vangelo Luca non parla della chiesa, ma dei "discepoli" che
seguono Gesù, mentre negli Atti descrive la chiesa, insistendo sul come
dovrebbe essere. Particolare valore è dato alla reciproca accoglienza dei
giudei e dei non-giudei (basti ricordare l'attenzione data all'episodio di
Cornelio).
Mentre nel Vangelo insiste sul Regno di Dio per i "poveri", negli Atti
insiste sul fatto che i "pagani" e i "nemici" sono
incorporati nel popolo di Dio. Non c'è opposizione tra le due insistenze:
entrambe sono espressioni di un'unica logica, che Luca si preoccupa di
evidenziare: con Gesù, Dio mostra la sua accoglienza, libera e gratuita, nei
confronti di tutte le sue creature. Nessuna esclusione ha motivo di esistere,
per nessun motivo: condizione sociale, ignoranza, errori morali, appartenenza
religiosa. E nessuno può vantare dei diritti o dei privilegi: l'accoglienza di
Dio è un dono, immeritato per tutti. Chi, per qualunque motivo, è messo da
parte dagli uomini, derubato, deriso, disprezzato, escluso, è il primo davanti
a Dio, ha una prioritaria attenzione e premura da parte sua.
Per Luca, la comunità cristiana è chiamata allora ad essere, per la forza
dello Spirito, una fraternità senza disuguaglianze e senza barriere, luogo in
cui lo Spirito procede ad una nuova creazione. La sua vita interna e la sua
spinta missionaria esterna sono così fra loro articolate in un'unica logica, la
comunione, che non tollera né privilegi né settarismi ed è attivamente aperta
verso tutti.
Agli occhi di Luca, la missione è un'opera "ecclesiale"; gli apostoli
hanno il ruolo specifico di assicurare un'articolazione autentica tra Gesù e la
chiesa; lo stesso invio di Paolo ai "pagani" ha bisogno di essere da
loro ratificato. Ma in Luca non c'è ecclesiocentrismo: gli apostoli fanno degli
sbagli e spesso mancano di perspicacia; la missione avviene a volte nonostante
loro, più che grazie a loro; Dio va spesso più veloce di loro, ad esempio
suscitando lo slancio missionario degli ellenisti e, più ancora, Paolo, il
non-apostolo che Luca coraggiosamente descrive come l'esempio tipico di
missionario.
VIII - La missione incontra necessariamente avversità e sofferenze.
Nel Vangelo, Luca descrive il viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme,
mostrando che è un cammino verso la sua passione e la morte. Negli Atti, il
percorso della chiesa-in-missione è messo in parallelo con quello di Gesù:
Paolo afferma che il Risorto "è apparso a quelli che erano saliti con lui
dalla Galilea a Gerusalemme" (At 13,31).
Gli Atti quando parlano di parresia (audacia), la contrappongono quasi sempre
alle avversità . Quando Giovanni e Pietro sono sotto le minacce del Sinedrio, i
credenti pregano non perché i loro avversari siano distrutti, ma per ricevere
una piena parresia (At 4,27-30). Non per niente, da secoli, l'invio dei
missionari è accompagnato con la consegna del Crocifisso: "Quelli che lo
ricevono non hanno nelle mani solamente un simbolo della loro missione, ma un
manuale che dice loro come realizzarla" (Frazier).
LA
NOVITÀ DI GESÙ
Nell'episodio della sinagoga di Nazareth, un fatto colpisce: inizialmente Gesù
è accolto dai suoi concittadini con simpatia e ammirazione; poi,
all'improvviso, la situazione si capovolge, l'assemblea è furente e tenta
addirittura di ucciderlo.
Nella prospettiva della teologia della missione di Luca è importante cogliere
il perché di questo mutamento. È avvenuto che Gesù aveva fatto qualcosa che
aveva radicalmente deluso le attese della sua gente: aveva letto la prima parte
di Isaia 61,2 "per proclamare l'anno del favore del Signore", ma aveva
saltato le parole che seguivano, che fanno parte dello stesso versetto
"il giorno della vendetta del nostro Dio" riferito alle nazioni
pagane, tralasciando anche quanto si riferiva a Israele e a Sion. Il commento di
Gesù, poi, era stato tutto su questa linea, riferendosi sia ad Elia mandato ad
una vedova non d'Israele ma di Sidone, sia ad Eliseo mandato a Naam il siro,
nonostante i tanti lebbrosi in Israele.
La mentalità dominante nel giudaismo dell'epoca era che la salvezza era
riservata ai giudei, anzi ad una loro piccola parte, e l'inviato di Dio avrebbe
condotto una guerra santa contro i nemici di Israele. Gesù non solo evita di
menzionare il giudizio contro i nemici di Israele, ma proclama che Dio è pieno
di compassione anche nei loro confronti: "l'anno di accoglienza" è
sia per i giudei che per i loro avversari!
Lungo tutto il Vangelo di Luca si ritrova quest'insistenza. Ad esempio, in Lc
7,22s si ripete il fatto, con tre citazioni di Isaia da cui Gesù toglie i
riferimenti alla vendetta di Dio. Ecco la novità : la compassione di Dio per i poveri, per gli emarginati, per gli stranieri e addirittura per i nemici di
Israele ha soppiantato la vendetta divina. È questo il Dio che Gesù rivela.
4.
PAOLO: PROCLAMARE LA GRATUITÀ DELLA SALVEZZA
Nelle
sue lettere, scritte 15-20 anni prima del Vangelo di Marco e circa 30 anni prima
di
Matteo e Luca, Paolo offre la visione più profonda e più sistematica della
missione.
Perché Paolo è innanzitutto un missionario. La sua teologia non è una
costruzione astratta,
non preesiste alla sua attività missionaria, ne è il ripensamento: essa è la
lettura delle realtà che incontrava, alla luce dell'esperienza iniziale che
aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo.
Non potendo presentare in breve spazio tutti gli aspetti della teologia e prassi
missionaria di Paolo, ci fermeremo solo sul "fine" e sulle
"motivazioni" della sua missione.
Nelle prime righe della lettera ai Romani, Paolo riassume l'obiettivo del suo
apostolato.
È stato "scelto per annunciare il Vangelo" e ha ricevuto da Gesù
Cristo "il dono di essere apostolo per condurre all'obbedienza della fede i
popoli pagani" (Rom 1,1.5).
È stato incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del
mondo con sé e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l'area mediterranea.
Dove arriva, fonda delle chiese: saranno, spera, delle manifestazioni della
nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
In
Cristo, Dio si è riconciliato non solo con la chiesa, ma con il mondo (2Cor
5,19): è questo che è incaricato di proclamare. Per quanto sia importante agli
occhi di Paolo, la chiesa non è il fine ultimo della missione. Vita e azione
della comunità cristiana sono intimamente legate al piano di Dio per la
redenzione del mondo. "L'universalità della chiesa, corrisponde
all'universalità del compito apostolico, che consiste nel proclamare la
vittoria salvante di Dio nei confronti della sua creazione" (Beker). Cristo
risorto è stato costituito Signore di tutti
(Fil 2,9-11).
La
radice della concezione universale di Paolo sulla missione è una fede personale
in Gesù morto e risorto, Salvatore del mondo: è nella sua comunione che si è
chiamati a vivere
(1Cor 1,9).La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su una
soluzione già data: sul fatto, cioè, della salvezza già offerta da Dio
all'umanità . Non è che in retrospettiva
che Paolo ha immaginato "come sarebbe stata" la vita senza Cristo:
solo alla luce dell'esperienza dell'amore senza condizioni di Dio, egli ha
potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto, senza Cristo.
Quando scrive "noi sappiamo, fratelli amati da Dio, che lui ci ha
scelti" e "Gesù ci libera dalla collera che viene" (1Tess 1,
4-10), confessa di essere stato da Dio salvato grazie a Cristo, non pronuncia un
verdetto su quelli che non credono. In altre parole, Paolo non si sofferma sulla
sorte dei non credenti: preferisce insistere sulla soluzione già data. Ne ha
fatto profonda esperienza: sa che il Vangelo, che ha la missione di proclamare,
è l'amore senza condizioni e l'accoglienza immeritata compiuta da Dio.
Il suo Vangelo è un messaggio positivo.
LE MOTIVAZIONI MISSIONARIE DI PAOLO
Michael Green ha notato che la chiesa primitiva era mossa da tre motivazioni
missionarie fondamentali, particolarmente evidenti in Paolo: la riconoscenza, il
senso di responsabilità , la preoccupazione. Anche se non è possibile una loro
separazione, talmente sono intrecciate, seguirò anch'io queste tre motivazioni,
invertendo però il loro ordine.
La
preoccupazione di Paolo
Come
i giudei del suo tempo, Paolo ha un giudizio decisamente negativo sul
paganesimo: richiama i suoi vizi e, soprattutto, le sue idolatrie: sono prodotti
dello spirito umano e finiscono sempre per asservire (1Cor 12,2).Egli reagisce
contro questa idolatria insidiosa e, fedele alle sue origini giudee, proclama le
esigenze di un Dio geloso, che vuol essere servito senza patteggiamenti con
altri signori: "Voi vi siete rivolti verso Dio, voltando le spalle agli
idoli, per servire il Dio vivente e vero" (1Tess 1,9). Sappiamo questo non
per deduzione solamente, a partire dal creato, o grazie ai profeti, ma
soprattutto perché Dio ha rivelato se stesso attraverso suo Figlio (Gal 4,4).
È
in questo quadro che occorre situare l'impegno personale di Paolo. Per lui,
fuori di Cristo l'umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla
perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef
2,12).Per questo, deve essere proclamato a tutti che "Gesù ci libera dalla
collera che viene". Si sente ambasciatore di Cristo: "In nome di Dio,
ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio" (2Cor 5,20).
Ma
la sua grande preoccupazione non è predicare questa "collera che
viene", ma il messaggio positivo: la salvezza attraverso Cristo e il
trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona novella, rivolta a gente che
ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio
(Rom 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà , offre la possibilità di pentirsi
(Rom 2,4). La salvezza, per Paolo, è l'esperienza d'una liberazione immeritata,
grazie all'incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha, dunque,
la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo
finale non è centrato sull'uomo: è di preparare il mondo in vista della gloria
di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l'universo lo loderà ,
nella comunione piena di vita con lui.
Il
senso di responsabilitÃ
La
sollecitudine di Paolo verso i "pagani" si manifesta nella coscienza
acuta dell'obbligo, che sa di avere, di proclamare loro il Vangelo. È una
anangkê, una necessità ineludibile. "Guai a me se non annuncio il
Vangelo" (1Cor 9,16).Nella lettera ai Romani (Es 1,14), Paolo afferma di
sentirsi in debito, debitore: la fede in Cristo crea un duplice indebitamento,
verso Cristo che ci ha gratuitamente accolti, e verso tutti coloro a cui è
inviato. Nella seconda lettera ai Corinti usa un altro termine per dire ciò che
lo spinge all'annuncio, il timore del Signore: non quello che paralizza, ma
quello di un amico o di un servitore fedele che non vuole deludere la persona
che ama. Per questo "si fa servo di tutti, per guadagnarne il più
possibile" (1Cor 9,19-23).
Per
cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria, propria e degli
altri cristiani, è utile richiamare quanto dice a proposito del comportamento
dei credenti verso "quelli di fuori": devono innanzitutto prendere
coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente; chiama i
cristiani: scelti, amati, santi (= messi da parte per), conosciuti da Dio.
Inoltre, ricorda spesso che la testimonianza verso "quelli di fuori"
esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore
concreto verso tutti (1Tess 3,12), che non solo attiri stima e ammirazione, ma
addirittura inviti ad entrare nella comunità .
In
altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il
comportamento missionario. Ma questa dimensione si esprime non tanto con
un'attività missionaria specifica (Paolo ha pochi richiami in proposito, ne ha
di più la 1ª lettera di Pietro), quanto con lo stile di vita
"attrattivo" delle piccole comunità : con le relazioni reciproche di
attenzione, solidarietà , ospitalità , intense e ricche di emotività (nella
sola 1ª lettera ai Tessalonicesi, chiama, almeno 18 volte, i cristiani
"fratelli"), di integrazione sociale tra ricchi e poveri (1Cor 10-11:
il comportamento dei ricchi entra in collisione con il modo con cui Paolo
concepisce la comunità cristiana): l'opera di riconciliazione realizzata da
Cristo dà vita ad un nuovo corpo, in cui le relazioni umane sono trasformate.
Le
comunità paoline hanno una forte coscienza di ciò che le distingue dal mondo
esterno, Paolo ricorda loro continuamente quello che hanno di unico. Ma, anche
se hanno la coscienza di essere un gruppo distinto, non si isolano: proprio
questa coscienza le spinge a stare con gli altri: sono nel mondo e per il mondo.
Sono "un segno" precursore dell'alba del mondo nuovo, che attesta,
nella misura della loro vita trasformata, la validità della speranza cristiana:
Dio trasformerà questo nostro mondo.
Il
senso
di riconoscenza.
Siamo
nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo. Se va fino alle
estremità della terra è perché è stato ammaliato dall'esperienza che ha
fatto dell'amore di Dio in Cristo Gesù, "il Figlio di Dio che mi ha amato
e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).Come ci mostra il testo classico
2Cor 5, Paolo ha preso coscienza che l'amore di Dio costituisce il vero movente
della missione: "Avendo conosciutoÂ… cerchiamo di convincere gli
uomini" (5,11); "l'amore di Cristo ci spinge" (5,14).
Se,
dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole
salvare chi è perduto o perché ne sente l'obbligo. Il motivo di fondo è perché
ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio, "ha ricevuto la grazia
di essere apostoloÂ…" (Rom 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza:
sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La
coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di
riconoscenza. Ed è facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo
esprime la sua riconoscenza.
Per
parlare del "debito di riconoscenza", suo e dei fratelli e sorelle
nella fede, Paolo usa a volte il linguaggio cultuale (Rom 15,16; 12,1; Fil 2,17;
4,18). Dietro queste espressioni c'è l'idea di un sacrificio o di un'offerta
fatta per amore, a causa dell'amore di Dio manifestato in Cristo, di cui Paolo e
le sue comunità sono i beneficiari. Un amore che "ci ha riconciliati con
Dio mentre ancora gli eravamo nemici" (Rom 5,10): è questo amore
incredibile e senza misura, che Paolo e le sue comunità hanno scoperto. Il
coraggio di essere differenti dalla società che li circonda, nella vita di
tutti i giorni, in vista della salvezza degli altri: ecco la risposta
all'immenso "debito di riconoscenza".
DAVID BOSCH
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