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Jon Sobrino: DISCEPOLATO DI ROMERO

tratto da "ADITAL"

Discepolato di Romero

di Jon Sobrino

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Oscar A. Romero

La Pasqua di Oscar Arnulfo Romero

La strada di Romero

In memoria del vescovo Romero a cura di David Maria Turoldo

 

Veglia Pasquale 1978 con mons. Romero 

Dall'oppressione alla libertà

La successione di Monsignor Romero. Meditazione cristiana prima del XXV anniversario

 Il XXV anniversario del martirio di Monsignor Romero deve essere celebrato bene!!

 

Alcuni non lo faranno, quelli che lo insultarono in vita e celebrarono con lo champagne il suo assassinio, nonostante ora siano più misurati e si mostrino accondiscendenti e comprensivi cittadini. E poiché sono populisti, quando sarà necessario, andranno a Roma quando lo beatificheranno, poiché sanno che Monsignore è amato da molti salvadoregni.

Altri si rallegreranno di celebrare un anno di più Monsignore. Lo ricorderanno di cuore, parteciperanno ad eucaristie, incontri e conferenze, mostre e concerti, e alla grande veglia del 2 aprile. Sfoggeranno magliette con la sua immagine, porteranno un poster a casa loro ed ascolteranno le sue parole attraverso la YSUCA. Da fuori verranno a centinaia, e in totale saranno migliaia quelli che parteciperanno all’anniversario. E non sappiamo se vi sarà qualche segnale che la beatificazione possa essere vicina. Ma, nonostante tutto, ancora manca una cosa, che vogliamo spiegare, ricordando quello che è accaduto tra la morte e la resurrezione di Gesù di Nazaret.

I primi cristiani celebravano il suo ricordo nellÂ’eucaristia, intonavano inni in suo onore, svilupparono una teologia piena di entusiasmo, lo iniziarono a chiamare “Signore”, “Figlio di Dio”, “Inizio della creazione”, ed avevano la speranza di una sua pronta venuta. Ma i cristiani più lungimiranti capirono che solo questo non bastava. Anzi, compresero che solo questo era pericoloso. E allora apparve Marco col suo vangelo. Venne a “molestare” quei cristiani troppo compiacenti, per non parlare di quei cristiani che si erano dimenticati di Gesù, e lo rinnegavano, come capitava nella comunità di Corinto poiché avevano incontrato una persona migliore di Gesù: uno spirito vaporoso.

Il vangelo di Marco, invece, celebra Gesù e lo chiama “Figlio di Dio”, ma non pone lÂ’invocazione sulle labbra della gente devota che spera nei miracoli, ma solo sulle labbra di un pagano, il centurione romano, e ai piedi della croce. Inoltre lo chiama “Messia”, ma, quando questo accade, Gesù dice alla gente di non dirlo a nessuno. Marco ci dice anche che la fede in Gesù non fu assolutamente facile, né per i suoi familiari, né per i discepoli – specialmente per Pietro-, e certamente non lo fu per i teologi e i sacerdoti di quel tempo. Infine, il suo vangelo termina bruscamente in Mc 16, 8:  giunte alla tomba le donne “ebbero paura e non dissero nulla a nessuno”. Tanto choccante fu questo finale che, più tardi, vennero aggiunti alcuni versetti per  diminuire la paura.

Perché mettere in luce  il vangelo di Marco in questo XXV anniversario? Per comprendere una lezione importante. Non basta la celebrazione o lÂ’allegria, anche se esse sono benvenute come brezza di aria fresca in mezzo a tante sofferenze della vita. E neppure basterà lÂ’applauso che risponderà allÂ’annuncio di una sua possibile beatificazione. E se non basta questo, cosa manca allora? Torniamo a Marco. Il Gesù che non è interessato ad essere chiamato Messia, è interessato ad una cosa: che lo seguano.

Torniamo a Monsignor Romero. Celebrarlo significa prima di tutto “seguirlo”. Come? In primo luogo, c’è da passare per il cambio – o conversione – per quello che lui ha passato. E in secondo luogo bisogna rifare la sua vita. Entrambe le cose sono difficili, ma sono necessarie per il paese e per la Chiesa e trarne la salvezza. Per quello che riguarda la “conversione” basta ricordare le seguenti parole:

 Â“Il profeta denuncia anche i peccati interni alla Chiesa. Perché no? Se vescovi, papi, sacerdoti, nunzi apostolici, religiosi, collegi cattolici sono uomini o formati da uomini, e gli uomini sono anche peccatori, dunque abbiamo bisogno di qualcuno che sia per noi profeta e ci chiami alla conversione dei peccati... Sarebbe molto triste una Chiesa che si sente tanto degna della verità a tal punto da rifiutare tutti gli altri. Una Chiesa che solo condanna, che guarda solo al peccato negli altri e non guarda la trave presente nel proprio occhio, non è lÂ’autentica Chiesa di Cristo” (Omelia dellÂ’ 8 luglio 1979).

E attraverso la  conversione, la prassi. Non è il momento di esporre in dettaglio come deve essere la prassi di una Chiesa fedele a Monsignor Romero, però possiamo menzionare gli impulsi di lucidità, forza dÂ’animo, fermezza, resistenza e speranza che ci arrivano da lui.

Come seguaci di Monsignore, dobbiamo dire la verità, non solo predicare una dottrina, anche se vera. E dunque la verità si converte in denuncia profetica dei mali che esistono nel paese, si nominano le vittime e i carnefici. Anche se in qualche modo sono cambiate le cose in questi 25 anni, Monsignor Romero ci segue inviandoci negli ambiti dove campeggia il male:

1)      lÂ’idolatria del denaro, lÂ’oligarchia prima agricola ed ora finanziaria;

2)      lÂ’ idolatria del potere militare, più nascosta qui e più visibile negli Stati uniti, a cui va aggiunta la spaventosa violenza attuale di 8-10 omicidi giornalieri, negli ultimi tempi;

3)      la connivenza dei partiti politici con lÂ’ingiustizia e la irresponsabilità della maggioranza di essi nella miseria e nelle sofferenze, a cui va aggiunta la corruzione;

4)      lÂ’imperialismo degli Stati Uniti, nel commercio, nella nostra politica internazionale e, soprattutto, negli pseudovalori che ci impone: individualismo, successo, buon vivere;

5)      la corruzione dellÂ’amministrazione della giustizia, che non ha ancora chiarito chi uccise Monsignore;

6)      i mezzi di comunicazione, con bugie, mezze verità, lÂ’occultamento delle notizie, a seconda dei casi;

7)      il rendere falsa la religione, lo spiritualismo esagerato, che non è la vita con lo spirito; lÂ’individualismo alienante, che non è lÂ’appropriazione personale della fede; lÂ’essere gregari che riempiono stadi, che non è la comunità e il portarsi reciprocamente; lÂ’infantilizzazione dei religiosi, che non è il sentirsi come bambini di fronte al mistero di Dio.

Bisogna ritornare ad una prassi, quella della misericordia, segnale ultimo del nostro essere cristiani, e tornare a promuovere la giustizia, la trasformazione delle strutture. Bisogna recuperare l’opzione per i poveri, seriamente, senza annacquarla, rischiando per essa, ricordando e onorando chi l’hanno vissuta fino alla fine: i nostri martiri. Bisogna recuperare la parzialità di Cristo e del suo Cristo verso i poveri di questo mondo.

 Bisogna recuperare la evangelizzazione, nel senso primario che ha in Gesù:  lÂ’annuncio di una buona notizia ai poveri, senza che la novità di metodi e linguaggi sostituisca lÂ’essenziale. Bisogna annunciare questo regno con credibilità, senza pensare che ci sono cose più importanti da fare, alcune di esse buone, come la vita sacramentale; altre ambigue, come il sovrannumero di concentrazioni, feste, giubilei, anni dedicati a qualcosa, in modo che tutto questo si accumula come se  vi fosse un horror vacui,  la paura di lasciare vuoti nel tempo cosa che può succedere nascondendo la buona notizia di Gesù. E  altre cose sono pericolose e possono portare a essere peccatori: proselitismo competitivo, cercare trionfi, basarsi sullÂ’appoggio finanziario dei ricchi di questo mondo.

 Bisogna recuperare e promuovere lÂ’organizzazione del popolo, nella società e nella Chiesa. Non bisogna per questo tornare agli anni ‘80, ma bisogna tornare a quella che fu lÂ’intuizione fondamentale: come Chiesa siamo prima di tutto comunità, corpo: e per influire nella società dalla base questa comunità deve stare strutturata, organizzata, relazionata con altre forze sociali. È difficile, però per lo meno, dobbiamo pensarlo e provare a realizzarlo.

 Cominciamo così, anche se in questo zoppichiamo, essendo in questa cosa eccellente Monsignore, e non si vede come poterlo celebrare se almeno non impostiamo queste cose. Però soprattutto bisogna risollevare lo spirito della gente. Detto con le sue parole, bisogna cercare la vicinanza “come mi piace nel popolo umile che la gente e i bambini diventino una sola cosa!” (12 agosto, 1979). La Consolazione: “Per me sono nomi molto cari: Felipe de Jesús Chacón, ‘PolínÂ’. Io ho pianto tanto per loro” (15 febbraio, 1980). Dignità: “Questi sono il divino traspasado  (19 luglio 1977). Gioia: “Con questo popolo non costa fatica essere un buon pastore” (18 novembre 1979). Speranza: “Sono sicuro che tanto sangue sparso e tanto dolore non è vano” (27 gennaio 1980). E tutto questo con umiltà: “Io credo che il vescovo sempre deve imparare dal popolo” (9 settembre, 1979) e con credibilità: “Il pastore non vuole sicurezza se non la dà al suo gregge” (22 luglio 1979).  EÂ’ la consolazione che nasce dalla compassione, la gioia che nasce dalla vicinanza e dalla solidarietà, la speranza che nasce dalla credibilità.

 Tutti sappiamo quanto questo è difficile, ma in questo anniversario almeno non dobbiamo definirlo impossibile, e vogliamo che questa sia la nostra utopia. Monsignore non ci offrì né ci offre ricette, ma cammini, luci, impulsi.

 Molte altre cose si possono dire su come celebrare questo XXV anniversario. Solo vogliamo aggiungere unÂ’ultima cosa, di cui solo possiamo parlarne con “lÂ’autorità” di chi ha vissuto situazioni vicine a quelle di Monsignore. A metà degli anni ottanta le madri dei desaparecidos mi domandarono se potevo dire una messa per ricordare Monsignor Romero. Quando stavo per uscire di casa, una semplice lavoratrice mi disse: “Nella messa di Monsignor, ricordi mio figlio”. Suo figlio era stato assassinato dalle guardie della sicurezza. Pensare che egli stava con Monsignore era per la donna la maggiore consolazione. 

Non sappiamo cosa succederà nei prossimi 25 anni, ma anche oggi c’è tanta gente che il 24 marzo ricorderà figli, figlie, mariti, mogli, genitori, fratelli e sorelle, che sono state assassinate anchÂ’esse. E domanderanno a Monsignore che adesso abbia cura di questa gente. A questo Monsignore parlano come si parla ad un padre. Non so se gli domandano favori o miracoli, pero penso che non lo facciano perché vedono Monsignore come un santo “miracoloso”, con poteri, ma perché lo vedono come un uomo buono, come qualcuno che li ama davvero. Continua ad essere per questa gente una buona notizia. Questo accade “in modo nascosto”, ma è a cosa più importante, penso,  in questo XXV anniversario.

  Jon Sobrino

Adital - El Salvador

 

Ringraziamo Emanuele (giovane del 2° GIM di PD) per la traduzione in italiano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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