La
successione di Monsignor Romero. Meditazione cristiana
prima del XXV anniversario
Il
XXV anniversario del martirio di Monsignor Romero deve
essere celebrato bene!!
Alcuni non lo faranno,
quelli che lo insultarono in vita e celebrarono con lo
champagne il suo assassinio, nonostante ora siano più
misurati e si mostrino accondiscendenti e comprensivi
cittadini. E poiché sono populisti, quando sarÃ
necessario, andranno a Roma quando lo beatificheranno,
poiché sanno che Monsignore è amato da molti
salvadoregni.
Altri si rallegreranno
di celebrare un anno di più Monsignore. Lo
ricorderanno di cuore, parteciperanno ad eucaristie,
incontri e conferenze, mostre e concerti, e alla
grande veglia del 2 aprile. Sfoggeranno magliette con
la sua immagine, porteranno un poster a casa loro ed
ascolteranno le sue parole attraverso la YSUCA. Da
fuori verranno a centinaia, e in totale saranno
migliaia quelli che parteciperanno allÂ’anniversario.
E non sappiamo se vi sarà qualche segnale che la
beatificazione possa essere vicina. Ma, nonostante
tutto, ancora manca una cosa, che vogliamo spiegare,
ricordando quello che è accaduto tra la morte e la
resurrezione di Gesù di Nazaret.
I primi cristiani
celebravano il suo ricordo nellÂ’eucaristia,
intonavano inni in suo onore, svilupparono una
teologia piena di entusiasmo, lo iniziarono a chiamare
“Signore”, “Figlio di Dio”, “Inizio della
creazione”, ed avevano la speranza di una sua pronta
venuta. Ma i cristiani più lungimiranti capirono che
solo questo non bastava. Anzi, compresero che solo
questo era pericoloso. E allora apparve Marco col
suo vangelo. Venne a “molestare” quei cristiani
troppo compiacenti, per non parlare di quei cristiani
che si erano dimenticati di Gesù, e lo rinnegavano,
come capitava nella comunità di Corinto poiché
avevano incontrato una persona migliore di Gesù: uno
spirito vaporoso.
Il vangelo di Marco,
invece, celebra Gesù e lo chiama “Figlio di Dio”,
ma non pone lÂ’invocazione sulle labbra della gente
devota che spera nei miracoli, ma solo sulle labbra di
un pagano, il centurione romano, e ai piedi della
croce. Inoltre lo chiama “Messia”, ma, quando
questo accade, Gesù dice alla gente di non dirlo a
nessuno. Marco ci dice anche che la fede in Gesù non
fu assolutamente facile, né per i suoi familiari, né
per i discepoli – specialmente per Pietro-, e
certamente non lo fu per i teologi e i sacerdoti di
quel tempo. Infine, il suo vangelo termina bruscamente
in Mc 16, 8: giunte alla tomba le donne
“ebbero paura e non dissero nulla a nessuno”.
Tanto choccante fu questo finale che, più tardi,
vennero aggiunti alcuni versetti per
diminuire la paura.
Perché mettere in
luce il
vangelo di Marco in questo XXV anniversario? Per
comprendere una lezione importante. Non basta la
celebrazione o lÂ’allegria, anche se esse sono
benvenute come brezza di aria fresca in mezzo a tante
sofferenze della vita. E neppure basterà l’applauso
che risponderà all’annuncio di una sua possibile
beatificazione. E se non basta questo, cosa manca
allora? Torniamo a Marco. Il Gesù che non è
interessato ad essere chiamato Messia, è interessato
ad una cosa: che
lo seguano.
Torniamo a Monsignor
Romero. Celebrarlo significa prima di tutto
“seguirlo”. Come? In primo luogo, c’è da
passare per il cambio – o conversione – per quello
che lui ha passato. E in secondo luogo bisogna rifare
la sua vita. Entrambe le cose sono difficili, ma sono
necessarie per il paese e per la Chiesa e trarne la
salvezza. Per quello che riguarda la “conversione”
basta ricordare le seguenti parole:
“Il profeta
denuncia anche i peccati interni alla Chiesa. Perché
no? Se vescovi, papi, sacerdoti, nunzi apostolici,
religiosi, collegi cattolici sono uomini o formati da
uomini, e gli uomini sono anche peccatori, dunque
abbiamo bisogno di qualcuno che sia per noi profeta e
ci chiami alla conversione dei peccati... Sarebbe
molto triste una Chiesa che si sente tanto degna della
verità a tal punto da rifiutare tutti gli altri. Una
Chiesa che solo condanna, che guarda solo al peccato
negli altri e non guarda la trave presente nel proprio
occhio, non è l’autentica Chiesa di Cristo” (Omelia
dellÂ’ 8 luglio 1979).
E attraverso la
conversione, la prassi. Non è il momento di
esporre in dettaglio come deve essere la prassi di una
Chiesa fedele a Monsignor Romero, però possiamo
menzionare gli impulsi di lucidità , forza d’animo,
fermezza, resistenza e speranza che ci arrivano da
lui.
Come seguaci di
Monsignore, dobbiamo
dire la verità , non solo predicare
una dottrina, anche se vera. E dunque la verità si
converte in denuncia profetica dei mali che esistono
nel paese, si nominano le vittime e i carnefici. Anche
se in qualche modo sono cambiate le cose in questi 25
anni, Monsignor Romero ci segue inviandoci negli
ambiti dove campeggia il male:
1)
lÂ’idolatria
del denaro, lÂ’oligarchia prima
agricola ed ora finanziaria;
2)
lÂ’ idolatria del potere
militare, più nascosta qui e più
visibile negli Stati uniti, a cui va aggiunta la
spaventosa violenza attuale di 8-10 omicidi
giornalieri, negli ultimi tempi;
3)
la connivenza
dei partiti politici con lÂ’ingiustizia e la
irresponsabilità della maggioranza di essi nella
miseria e nelle sofferenze, a cui va aggiunta la
corruzione;
4)
lÂ’imperialismo
degli Stati Uniti, nel commercio, nella nostra
politica internazionale e,
soprattutto, negli pseudovalori che ci impone:
individualismo, successo, buon vivere;
5)
la corruzione
dellÂ’amministrazione della giustizia,
che non ha ancora chiarito chi uccise Monsignore;
6)
i mezzi
di comunicazione, con bugie,
mezze verità , l’occultamento delle notizie, a
seconda dei casi;
7)
il rendere falsa la religione, lo spiritualismo
esagerato, che non è la vita con lo spirito;
lÂ’individualismo alienante, che non
è l’appropriazione personale della fede;
l’essere gregari che riempiono stadi, che non è la
comunità e il portarsi reciprocamente; l’infantilizzazione
dei religiosi, che non è il sentirsi come bambini di
fronte al mistero di Dio.
Bisogna ritornare ad
una prassi, quella della misericordia,
segnale ultimo del nostro essere cristiani, e tornare
a promuovere la giustizia, la trasformazione delle
strutture. Bisogna recuperare lÂ’opzione per i
poveri, seriamente, senza annacquarla, rischiando per
essa, ricordando e onorando chi lÂ’hanno vissuta fino
alla fine: i nostri martiri. Bisogna recuperare la
parzialità di Cristo e del suo Cristo
verso i poveri di questo mondo.
Bisogna
recuperare la evangelizzazione, nel senso primario che
ha in Gesù: l’annuncio
di una buona notizia ai poveri,
senza che la novità di metodi e linguaggi sostituisca
lÂ’essenziale. Bisogna annunciare questo regno con
credibilità , senza pensare che ci sono cose più
importanti da fare, alcune di esse buone, come la vita
sacramentale; altre ambigue, come il sovrannumero di
concentrazioni, feste, giubilei,
anni dedicati a qualcosa, in modo che tutto questo si
accumula come se vi fosse un horror vacui, la paura
di lasciare vuoti nel tempo cosa che può succedere
nascondendo la buona notizia di Gesù. E
altre cose sono pericolose e possono portare a
essere peccatori: proselitismo competitivo, cercare
trionfi, basarsi sullÂ’appoggio finanziario dei
ricchi di questo mondo.
Bisogna
recuperare e promuovere lÂ’organizzazione del popolo,
nella società e nella Chiesa. Non bisogna per questo
tornare agli anni ‘80, ma bisogna tornare a quella
che fu lÂ’intuizione fondamentale: come Chiesa siamo
prima di tutto comunità , corpo: e per influire nella
società dalla base questa comunità deve stare
strutturata, organizzata, relazionata con altre forze
sociali. È difficile, però per lo meno, dobbiamo
pensarlo e provare a realizzarlo.
Cominciamo
così, anche se in questo zoppichiamo, essendo in
questa cosa eccellente Monsignore, e non si vede come
poterlo celebrare se almeno non impostiamo queste
cose. Però soprattutto bisogna risollevare lo spirito
della gente. Detto con le sue parole, bisogna cercare
la vicinanza
“come mi piace nel popolo umile che la gente e i
bambini diventino una sola cosa!” (12 agosto, 1979).
La Consolazione:
“Per me sono nomi molto cari: Felipe de Jesús Chacón,
‘PolÃnÂ’. Io ho pianto tanto per loro” (15
febbraio, 1980). Dignità :
“Questi sono il divino traspasado
(19 luglio 1977). Gioia:
“Con questo popolo non costa fatica essere un
buon pastore” (18 novembre 1979). Speranza: “Sono sicuro che tanto sangue sparso e tanto dolore non
è vano” (27 gennaio 1980). E tutto questo con umiltà :
“Io credo che il vescovo sempre deve imparare dal
popolo” (9 settembre, 1979) e con credibilità :
“Il pastore non vuole sicurezza se non la dà al suo
gregge” (22 luglio 1979). E’ la consolazione
che nasce dalla compassione, la gioia che nasce dalla
vicinanza e dalla solidarietà , la speranza che nasce
dalla credibilità .
Tutti
sappiamo quanto questo è difficile, ma in questo
anniversario almeno non dobbiamo definirlo
impossibile, e vogliamo che questa sia la nostra
utopia. Monsignore non ci offrì né ci offre ricette,
ma cammini,
luci, impulsi.
Molte altre cose
si possono dire su come celebrare questo XXV
anniversario. Solo vogliamo aggiungere unÂ’ultima
cosa, di cui solo possiamo parlarne con “l’autorità ”
di chi ha vissuto situazioni vicine a quelle di
Monsignore. A metà degli anni ottanta le madri dei desaparecidos
mi domandarono se potevo dire una messa per ricordare
Monsignor Romero. Quando stavo per uscire di casa, una
semplice lavoratrice mi disse: “Nella messa di
Monsignor, ricordi mio figlio”. Suo figlio era stato
assassinato dalle guardie della sicurezza. Pensare che
egli stava con Monsignore era per la donna la maggiore
consolazione.
Non sappiamo cosa
succederà nei prossimi 25 anni, ma anche oggi c’è
tanta gente che il 24 marzo ricorderà figli, figlie,
mariti, mogli, genitori, fratelli e sorelle, che sono
state assassinate anchÂ’esse. E domanderanno a
Monsignore che adesso abbia cura di questa gente. A
questo Monsignore parlano come si parla ad un padre.
Non so se gli domandano favori o miracoli, pero penso
che non lo facciano perché vedono Monsignore come un
santo “miracoloso”, con poteri, ma perché lo
vedono come un uomo buono, come qualcuno che li ama
davvero. Continua ad essere per questa gente una buona
notizia. Questo accade “in modo nascosto”, ma è a
cosa più importante, penso,
in questo XXV anniversario.
Jon
Sobrino
Adital
- El
Salvador
Ringraziamo
Emanuele (giovane del 2° GIM di PD) per la traduzione
in italiano |
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