Natale 2007: fr. Alberto dall'Ecuador
Alla periferia dell'umanità
Alla periferia dell’umanità
Lettera di Natale
Un popolo ricreato
“Quando Dio avrà ricostruito Sion... un popolo ricreato loderà il Signore” (Salmo 102,19).
Una
delle cose che mi ha sempre colpito quando leggevo il Vangelo di Matteo è l’insistenza con cui Gesù afferma che è stato inviato solo per le
pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6, Mt 15,24, etc). Si tratta
forse di nazionalismo ebraico? Gesù ama il suo popolo e sente che è il
destinatario privilegiato – quasi esclusivo - delle attenzioni di Dio?
Forse. Ma questa è solo una spiegazione parziale. In realtà, io credo
che il principale motivo di questa insistenza è che Gesù vuole
ri-creare Israele, perché sa che la conversione del mondo parte dalla
conversione del suo popolo e della sua Chiesa.
Le ultime parole del
Risorto nel Vangelo di Luca ci confermano che la principale
preoccupazione di Cristo è la conversione di Gerusalemme: “Sta scritto
che il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno, e
nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (Lc 24,47). Oggi è
ancora questa la sua prima preoccupazione. Perché dalla conversione di
Gerusalemme, dalla conversione del suo popolo e della sua comunità,
dipende la missione alle genti.
Il termine greco che traduciamo
con ‘conversione’ – ‘metánoia’ - propriamente indica una trasformazione,
una ri-creazione della mente e del cuore: Gesù vuole trasformare e
‘ricreare’ il mondo, salvarlo dall’ “ombra della morte” (Lc 1,79) che
rischia di avvolgerci tutti. E questo progetto di trasformazione e
ri-creazione comincia da Gerusalemme, dal popolo di Dio, dalla Chiesa:
solo se il popolo di Dio, solo se la Chiesa si ‘ricrea’ e si converte,
sarà possibile ri-creare ed evangelizzare le genti. Perché se Dio non
riesce a ricreare il suo popolo, come potrà ricreare il mondo?
Natale,
dunque, è la festa del Dio che si incarna, prima di tutto, per noi:
Gesù chiama alla conversione, prima di tutto, noi che ci diciamo suoi
discepoli.
Amare la Chiesa
“All’angelo della Chiesa di
Laodicea scrivi:...Tu non sei né fredda né calda... Io tutti quelli che
amoscuoto. Mostrati dunque zelante e convertiti”
(Ap 3,15-19). Gesù insiste sulla conversione della sua Chiesa perché la
ama. Gesù scuote la sua Chiesa perché la ama. Amare la Chiesa, dunque,
significa impegnarci per una sua completa conversione, cominciando
dalla nostra conversione personale.
Conversione ecclesiale
Vi
propongo adesso un estratto di una lettera di padre Gaetano Beltrami,
un comboniano polesano che vive in Perù: “Qualche settimana fa il
vescovo di una diocesi del sud del Perù ha dato ordine ai suoi parroci
e sacerdoti di negare la comunione alla gente – in maggioranza indigeni
– che partecipa alla messa: solo il sacerdote deve fare la comunione,
perché tutti gli altri non ne sono ancora degni! Come dire che il
lavoro svolto per secoli da missionari e sacerdoti in tutto quel
territorio non è valso a niente. Il Regno di Dio è ridotto a una
semplice organizzazione ecclesiastica, e il modello di Chiesa è tornato
a quello sacramentale preconciliare, clericale e gerarchico. Non c’è
posto per il laicato, per la donna, per i carismi e i ministeri
comuni... I poveri sono oggetto di qualche sporadico gesto d’aiuto, ma
senza impegno per la giustizia e la pace.
Per entrare nella
cattedrale di Lima si devono pagare dieci soles (moneta locale), più di
mezza giornata di lavoro: nessun povero può permetterselo. In alcune
altre chiese della capitale, gestite dagli stessi gruppi integralisti,
i poveri malvestiti, gli accattoni senza scarpe e con i piedi sporchi,
o gli indigeni che non parlano bene lo spagnolo, non sono bene accetti:
sono trattenuti all’entrata e invitati a ritirarsi”.
Di fronte a
questa situazione, che ci chiama a una conversione urgente, risuonano
alla mente le parole di Gesù: “Ogni volta che avrete fatto queste cose
a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me”
(Mt 25,40).
Dio è piccolo
In effetti, Dio si relaziona in
maniera stretta e inseparababile con i piccoli, con ciò che è piccolo.
L’uomo occidentale è attratto da tutto ciò che è grande e spettacolare.
Dio, invece, si identifica con i piccoli.
Nelle lingue indigene
del continente americano è ben presente questa attenzione privilegiata
per ciò che è piccolo. In queste lingue, infatti, il diminutivo esprime
quel senso di rispetto e amore che si prova quando ci troviamo di
fronte a Dio o a qualcosa relazionato a Lui. E così, ad esempio, il
nome indigena della Madonna di Guadalupe è ‘Tonalztin’ (‘tzin’ é il
suffisso diminutivo nell’idioma nahua degli antichi aztecas).
Questo
senso del valore divino del ‘piccolo’ le lingue amerindie l’hanno poi
trasferito allo spagnolo nella sua versione latinoamericana. Quasi
sempre, ad esempio, quando ci si rivolge a un sacerdote o a un
religioso, qui in America Latina, si usano i termini ‘padrecito’ ed
‘hermanito’ (‘fratellino’), che non hanno niente a che vedere con
l’altezza del sacerdote o del frate. All’inizio mi faceva un po’
impressione sentire che chiamavano un missionario italiano alto quasi
due metri ‘padrecito’, che letteralmente significa ‘piccolo padre’. Poi
ho capito: questo missionario-gigante è ‘piccolo’ perché, in qualche
modo, il mistero della piccolezza, della tenerezza e dell’umiltà di Dio
si fa presente in lui.
Ecco perché i latinoamericani – a differenza
degli spagnoli - usano il diminutivo anche per Dio, e lo chiamano
‘Diosito’; perché Dio è piccolo, è umile, è tenero. È un’altra idea di
Dio.
Conversione politica
Se Dio è piccolo, anche la Chiesa è chiamata ad essere ‘piccola’, a spogliarsi di qualsiasi legame
privilegiato con il potere, per essere libera di svolgere la sua
missione profetica.
La missione del profeta – e della Chiesa - è
parlare a un popolo e a una società che non la vogliono ascoltare. Per
questo Dio dice a Ezechiele: “Ti do una fronte dura come la loro
fronte... Ascoltino o non ascoltino, tu parla loro” (Ez 3,8.11), a
“questa razza di teste dure e cuori ostinati” (Ez 2,4).
“Il valore
della parola profetica”, commenta Rosanna Virgili, “riposa oltre il
fatto che essa venga o meno recepita. Determinante è che essa venga
pronunciata”. Perché una volta pronunciata, “costituisce un inevitabile
termine di paragone, e gli uomini devono farci i conti”, perché,
vogliano o non vogliano, “è questa Parola che giudica la storia di
Israele e di tutti i popoli”.
Compito della Chiesa, dunque, è
pronunciare questa parola profetica, piaccia o non piaccia ai potenti
di turno. E così, se un governo dà il suo benestare all’allargamento di
una base nucleare in Italia, fabbrica di futuri massacri e stragi, non
possiamo chiudere gli occhi, la bocca e il cuore.
Il fatto è che
siamo abituati a pensare solo al nostro ‘bene privato’; e non capiamo
che, se non pensiamo al bene comune, il mondo collasserà, e allora
anche il nostro bene privato sarà distrutto. E così, per il mio bene
privato, accetto la base nucleare di Vicenza, perché penso che
nell’immediato mi darà opportunità di lavoro, e porterà nuovi clienti
stranieri nella zona. E non mi rendo conto che in questo modo accresco
la probabilità di una guerra atomica, o di un terrorismo disperato in
casa nostra.
Tocca alla Chiesa pronunciare la parola che
giudicherà questa base nucleare e tutta la politica armamentista; tocca
alla Chiesa gridare la necessità di una trasformazione radicale della
nostra politica e della nostra economia: “Voi versate il sangue, vi
appoggiate sulle vostre spade, e vorreste avere in possesso il paese?
Dice il Signore Dio: l’orgoglio della vostra forza cesserà” (Ez 33,
25-28).
Il popolo d’Israele ascoltava con piacere la parola di Dio,
perché era un popolo pio; ma questa parola, poi, non influiva
minimamente nella loro vita concreta: “Si mettono a sedere davanti al
profeta, e ascoltano le sue parole, ma poi non le mettono in pratica,
perché si compiacciono di parole, ma il loro cuore va dietro al
guadagno” (Ez 33,31). Per questo Dio invia suo Figlio: per salvare il
suo popolo accecato dalla sete del guadagno, una sete che ci induce ad
appoggiare un sistema politico-economico che ci porta tutti alla morte.
“Perché volete perire, israeliti?”, domanda Dio al suo popolo (Ez
33,11). È questa la domanda che il Padre continua a rivolgerci, con
l’angoscia nel cuore, anche oggi.
Natale, dunque, è l’intervento
di Dio che si è stancato della religiosità disincarnata del Tempio, si
è stancato della nostra complicità con l’Impero pagano, e ci chiede un
rinnovamento profondo della nostra testimonianza di fede, ci chiede più
profezia, più spiritualità.
Religione e spiritualità
“Non
conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi a partire da un
rinnovamento interiore” (Rm 12,2). In questo versetto san Paolo ci
indica i due movimenti fondamentali della vita spirituale: la nostra
trasformazione interiore e la trasfigurazione del mondo. Non
conformarci a questo mondo significa non piegarci all’ideologia che
vorrebbe trasformare la Parola in un innocuo “accompagnamento musicale”
(Ez 33,32) senza nessuna incidenza nella vita reale. Non conformarci a
questo mondo significa lottare perché Dio possa entrare e trasformare
tutti gli ambiti dell’esistenza umana: l’economia, la società, la
politica, la cultura, la natura, etc.
La religione – intesa come
fede che si istituzionalizza in comunità, in strutture, in riti e
celebrazioni - è al servizio dello spirito, al servizio della
conversione del cuore e del Regno di Dio. La religione deve alimentare
la vita spirituale, deve suscitare esperienze di Dio e indurci a una
conversione personale e sociale.
Quando invece la religione si
separa dalla spiritualità e si riduce a ideologia, perde la sua ragione
d’essere. In quest’ottica si pongono i cosiddetti ‘atei devoti’ che –
senza nessuna esperienza di Cristo e senza nessun interesse per il
messaggio di fratellanza del Vangelo – semplicemente identificano il
cristianesimo con la cultura occidentale, e ne fanno un uso strumentale
nella cosiddetta “guerra di civiltà” contro l’Islam.
Anche il
rito è al servizio della spiritualità. Se il rito mi aiuta a
trasformarmi interiormente e mi dà la forza e l’energia per collaborare
alla trasformazione del mondo, sta compiendo la sua funzione: è un
canale per l’azione di Dio, è esperienza di Dio. Ma se il rito non mi
trasforma, e si riduce a un recipiente ricco esteriormente ma vuoto
dentro – una pura norma cultuale e culturale da compiere - non ha più
niente a che vedere con il Regno inaugurato da Gesù.
Saladino, il
Sultano di Damietta, e capo dei musulmani durante le prime crociate,
disse a san Francesco: “Io credo che la tua religione è vera” - la
religione di Francesco, non quella dei crociati. La religione vera è
quella che ci fa entrare in contatto con Dio, non quella che ci fa
entrare in contatto con una ideologia politica, culturale o filosofica.
La religione di Francesco era canale di spiritualità, suscitava
desiderio di Dio, faceva presente l’amore di Dio. La religione dei
crociati, invece, era la negazione del Dio della pace e dell’amore, la
negazione della spiritualità.
“Praticate la giustizia e la fedeltà;
esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo.
Non opprimete la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero, e nessuno
pensi come fare il male al proprio fratello” (Zc 7,9-11). Queste cose
Dio non le dice ai pagani, ma ai suoi fedeli, a Israele, a noi
cristiani. Non si tratta solo di fare qualche opera di beneficenza:
siamo chiamati a non opprimere, a smettere di calpestare e bombardare i
‘miseri’, che oggigiorno sono interi popoli, a smettere di meditare il
male contro i nostri fratelli. Dio vuole che cambiamo il nostro modo di
pensare e di attuare, e che smettiamo di appoggiare – anche solo con la
nostra indifferenza - strutture ingiuste che provocano miseria e morte.
Papa Giovanni Paolo II dà un nome preciso a queste strutture inique.
Ad esempio, nell’Esortazione Apostolica “Ecclesia in America”, Giovanni
Paolo II sottolinea “la gravità dei peccati sociali che gridano al
cielo”, e denuncia “l’affanno illimitato di ricchezza e potere, che
offusca qualsiasi visione evangelica della realtà sociale” (56). A
diffondere quest’affanno, secondo il papa, contribuisce il “sistema
conosciuto come ‘neoliberismo’, un sistema che - facendo riferimento a
una visione economicista dell’uomo - considera i guadagni e le leggi
del mercato come parametri assoluti a detrimento della dignità e del
rispetto delle persone e dei popoli... Di fatto, i poveri sono sempre
più numerosi, vittime di determinate politiche e di strutture
frequentemente ingiuste” (56).
Vivere traballando
Queste strutture ingiuste si riflettono poi, con conseguenze molto concrete, nella vita quotidiana della nostra gente.
“Avete
del cartone e dei giornali?”, mi chiede il mese scorso Cecilia. “È che
devo coprire due buchi che si sono formati nella parete della mia casa”.
Cecilia
abita in una delle tante baracche di legno, cartone, carta e lamine di
zinco di cui è pieno il quartiere Malvinas. E Cecilia è fortunata,
perché almeno vive sulla terraferma, mentre Dolores viveva in una
palafitta sull’estuario del fiume Guayas, e un forte vento le ha
distrutto la sua povera casa. Quando entro in una di queste palafitte
ho sempre paura che le gambe mi scivolino giù, perché il movimento
dell’acqua fa traballare dolcemente il pavimento di legno. Molta gente
si è ormai abituata a vivere traballando. Il ‘traballare’,
l’instabilitá e l’insicurezza costituiscono la normalità quotidiana di
centinaia di migliaia di persone.
Chiaramente, l’instabilità di
queste case le rende più soggette a pericoli di vario tipo. Ad esempio,
due settimane fa, a Guayaquil abbiamo sentito una forte scossa di
terremoto, il cui epicentro era in Perù. Il giorno dopo viene a
parlarmi Melecia, e mi dice che in seguito alla scossa sono caduti due
pali della stanza dei bambini, e ci mancava poco che le lamine del
tetto cadessero sulla testa dei suoi figli.
La città del futuro
Mancano
dati precisi, ma queste scene e questi problemi si ripetono in vari
quartieri periferici della nostra città. E in realtà, questi quartieri
‘periferici’ si stanno espandendo giorno dopo giorno. E non solo a
Guayaquil, ma in tutto il mondo.
Nella capitale dell’India, ad
esempio, al principio gli slum occupavano una piccola parte della
periferia della città, ma oggi si calcola che “del mezzo milione di
persone che emigrano a Delhi ogni anno, quattrocentomila finiscono
nelle abitazioni informali degli slum: entro il 2015 la capitale
dell’India avrà una popolazione di slum di oltre dieci milioni”.
Insomma, se la tendenza prosegue con lo stesso ritmo, la quasi totalità
della città si trasformerà in un grande slum, e così sarà tutta
l’umanità cittadina ad essere ‘periferica’.
La città del futuro,
dunque, sarà costruita in gran parte di cartone, giornali, plastica
riciclata, bambù, mattoni grezzi e legname di recupero. Come commenta
Mike Davis,“al posto delle città di vetro e acciaio che si stagliano
verso il cielo, sognate dagli urbanisti, gran parte del mondo urbano
del ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da
inquinamento, escrementi e sfacelo”.
L’essere umano come ’periferico’
Oggigiorno sono circa un miliardo le persone che vivono in questi slum di cartone e bambù, e sono destinate ad aumentare.
La
cosa più grave è che nessuna delle grandi istituzioni internazionali
sta lavorando per migliorare le condizioni di vita di queste persone.
All’inizio del nuovo millennio l’ONU si era posta l’obbiettivo di
dimezzare l’indice della povertà entro l’anno 2015, ma poi successivi
rapporti sullo Sviluppo Umano hanno corretto questo dato, affermando
che quest’obbiettivo si potrà raggiungere, nella migliore delle
ipotesi, solo nella seconda metà del ventiduesimo secolo.
In altre
parole, le istituzioni internazionali hanno gettato la spugna: non è
possibile combattere la povertà. Ed hanno ragione: se restiamo
all’interno della logica del sistema neoliberale, non sarà possibile
diminuire la povertà, perché, come diceva il papa nel succitato
documento, le politiche ingiuste del neoliberismo fanno sì che i poveri
siano sempre più numerosi.
E così, siccome il sistema non vede a
portata di mano una diminuzione della povertà, e siccome – a dispetto
di ciò – il sistema va avanti lo stesso, non ci si preoccupa più di
trovare una soluzione a questo problema. O meglio: la povertà non è più
considerata un problema, per lo meno non è un problema ‘nostro’. La
vita di una gran parte dell’umanità non è piú nell’agenda delle grandi
agenzie finanziarie e politiche del pianeta.
In altre parole, è la
maggioranza della popolazione mondiale, è l’essere umano come tale ad
essere diventato ‘periferico’ – non essenziale – al sistema. In questo
momento, non esiste nessun progetto politico ufficiale che preveda di
garantire la vita – e una vita umana – alla maggioranza dell’umanità.
Il ‘cachuelo’
E così, per sopravvivere, alla gente non resta che apprendere l’arte di arrabattarsi.
Una
delle prime parole che ho imparato quando sono arrivato in Equador è
‘cachuelo’, un termine tipico di questa terra. Quando domandavo alla
gente: “Dove lavori?”, spesso mi sentivo rispondere: “Non ho un lavoro.
Solamente, di tanto in tanto, mi arriva un ‘cachuelo’ “. Il ‘cachuelo’ è un lavoro provvisorio che si riferisce a un compito ben determinato:
la riparazione di un televisore, la costruzione di una nuova aula
scolastica, la pavimentazione di una strada, etc. Il ‘cachuelo’ può
durare un giorno, una settimana, a volte quasi due mesi. E poi...
basta. Si va in cerca di un altro ‘cachuelo’. E questa ricerca può
durare una settimana, un mese, a volte un anno. Si calcola che in
America Latina il ‘cachuelo’ impiega il 57% della forza lavoro.
Si
tratta, dunque, di una specie di ‘precariato stabile’. E quello che sta
succedendo qui in Equador non è altro che la forma estrema di ciò che
sta prendendo piede, poco a poco, un po’ dappertutto. Perché il sistema
neoliberale vuole fare del ‘cachuelo’ e della precarietà la normalitá
della condizione di vita per la maggioranza dell’umanità.
Come
discepoli di Gesù - colui che è venuto “perché tutti abbiano vita, e
vita in abbondanza” (Gv 10,10) - non possiamo accettare la filosofia e
la politica del ‘cachuelo’.
Città senza lavoro
Purtroppo, è
vero, come dicono alcuni esperti, che in molte città – africane,
latinoamericane ed asiatiche - il lavoro formale, inteso come lavoro
stabile e garantito ai fini assicurativi e pensionistici, sta quasi
scomparendo. Siamo di fronte ad un mondo fatto di città senza lavoro.
Noi
missionari ‘urbani’ vediamo il punto finale di questo processo, e
spesso non sappiamo cosa fare. Vedo il volto di Marcos, ventenne, che è
cresciuto senza genitori, e che combatte la battaglia quotidiana di
trovare qualcosa da mangiare per sé, per sua nonna e i fratelli. Vedo
il volto di Robert, giovane papà di tre bambine, che è da due mesi che
non trova neanche un cachuelo, e vorrebbe sposarsi con Jessica – con
cui convive da tredici anni - ma continua a rimandare, perché non ha i
soldi per offrire un pranzo alla buona ai suoi parenti. E sento che per
il sistema questi volti, queste vite, non hanno nessuna importanza. È
come se il sistema dominante dicesse loro: “Sì, tu mi servi per alcune
cosette, per alcuni lavori provvisori e sottopagati. Può darsi che fra
due mesi ti chiami per un ‘cachuelo’. Ma se rifiuti il ‘cachuelo’
perché ti sembra che ti pago poco, per me non sarà nessun problema: lo
chiederò ad altre persone più disperate di te. Perché tu mi puoi essere
utile per alcuni lavoretti, ma non mi sei affatto necessario. La tua
esistenza non è necessaria, anzi: sei di peso al sistema. La tua vita,
la vita della tua famiglia non ha nessun valore per noi: è un problema
tuo, non nostro”.
Vivere in un ‘precariato stabile’ non è
facile. E così, se il ‘cachuelo’ non arriva, la gente deve ingegnarsi
in qualche modo. Ecco dunque che aumenta la delinquenza e aumenta la
popolazione della carcere; ed ecco dunque che alcuni giovani si
arruolano nella guerriglia, che ormai si è infiltrata in molte zone nel
nord del paese, al confine con la Colombia.
E poi ci sono anche
altre risposte più ‘sane’. Ultimamente, ad esempio, stanno aumentando
gli ‘attori ambulanti’ sugli autobus di Guayaquil. Sono giovani che, in
coppia, recitano uno sketch divertente in cui uno dei due uomini fa la
parte della donna. Suppongo che devono esserci delle scuole popolari
che preparano questi attori, perché mi è capitato di assistere a
scenette quasi identiche rappresentate da persone diverse su autobus
diversi. La gente ascolta lo sketch e, quasi sempre, dà una moneta ai
bravi attori.
Sognando una vita umana
La maggioranza dei
quartieri periferici di Guayaquil sono nati come invasioni illegali di
terre demaniali. Gente che veniva dalla campagna ha occupato
abusivamente certi terreni - su impervie colline o vicino all’acqua
dell’estuario – dando vita ad un quartiere senza fognature e senza
servizi di base. In questi quartieri la gente si abitua a convivere con
l’odore dell’urina nelle strade di fango, a convivere con l’acqua che
nella stagione delle piogge ti entra sempre in casa, portandoci anche
l’odore degli escrementi, etc. E quasi sempre si tratta di quartieri in
cui regna un capo ‘mafioso’, che impone con la forza e la violenza il
suo dominio: per questo gli autobus e i taxi non vanno in quel
quartiere, perché è troppo pericoloso; e per questo la gente deve fare
lunghi tratti a piedi per andare al centro o al lavoro.
Quando si
formano questi quartieri, la gente sa che vivrà in condizioni – per
molti aspetti – inumane. Ma lo accetta; perché spera che, prima o poi,
le condizioni del quartiere miglioreranno: accetta una ‘inumanità’
temporanea, sperando che l’umanizzazione verrà dopo, quando si saranno
create le condizioni. A volte bisogna aspettare vent’anni, e questo nel
migliore dei casi: dopo vent’anni si può sperare che asfaltino le
strade, facciano le fognature, vengano gli autobus e i taxi, etc.
Ma
adesso i tempi si allungano. A volte, in certi quartieri, bisogna
aspettare trenta o quarant’anni perché si creino condizioni di vita
rispettose della dignità umana. E così, tanti giovani e bambini
trascorrono anni senza sapere che cos’è vivere in condizioni umane, e a
volte senza la speranza di poterlo vivere.
Vivere nello slum
Nel
marzo scorso, le forti piogge hanno distrutto il misero tetto della
baracca di Cesar: il suo materasso si è completamente inzuppato
d’acqua. E Cesar ha dovuto convivere con la pioggia per alcune notti,
prima di riuscire a risolvere il problema.
E che dire, poi, di
Pedro, il fratello di Black? Quando gli hanno sparato al collo, Black
ha venduto droga per pagargli l’operazione. Poi Black è andato in
carcere, e Pedro è tornato a vivere con sua mamma. Ma la pallottola
sembra che l’abbia fatto uscire di testa: Pedro continua a parlare da
solo, a gridare a tutti, non lascia in pace le sorelle che vorrebbero
fare i compiti, a volte è violento. La signora Teodula, mamma di
Black, è disperata e non sa cosa fare.
Black è preoccupato per sua
mamma, vorrebbe aiutarla, ma dal carcere non può fare niente. La
settimana scorsa mi ha raccontato un po’ la sua vita. Fra i tanti
problemi, mi ha parlato della difficile relazione con suo papà, che
spesso si ubriaca. Quattro anni fa, sotto l’effetto dell’alcol, suo
papà ha cercato di ammazzarlo con un ‘machete’: Black si è salvato solo
perché è fuggito in tempo ed è stato aiutato da altri parenti.
La
settimana scorsa, poi, un altro giovane - Luis - è sopravvissuto per
miracolo a una scossa elettrica. Col suo anello ha sfiorato
inavvertitamente alcuni fili elettrici che abbondano - a bassa quota -
nei vicoli degli slum urbani, e la scossa gli è arrivata sino alla
testa. Fortunatamente non ha subito danni cerebrali, ma ha i polsi
bruciati, e così hanno dovuto amputargli le due mani. Luis è papa di un
bel bambino di pochi mesi. Sua mamma – la signora Nimia - è disperata:
fra medicine e posto letto ha dovuto pagare finora 400 dollari, tutti i
suoi risparmi. Ma le spese finali saranno molto maggiori. E adesso non
sa cosa fare: è da mesi che non le arriva neanche un ‘cachuelo’.
Come
se tutto questo non bastasse, la gente che vive nelle baracche vicino
all’estuario ha paura di essere sloggiata dal Municipio. Da tempo,
infatti, si parla di un progetto per ‘ripulire’ la riva del fiume e
‘rigenerarlo’. La ‘rigenerazione’ implica che si distruggano le
baracche e si cacci la gente che vive lì, per poter ricostruire e
ripopolare – con altre case più eleganti e con altra gente – la riva
del fiume. Qualcuno chiama questa operazione “rimozione degli ostacoli
umani”.
Non si sa quando questo progetto entrerà in funzione, ma molta gente vive con l’angoscia d’essere sfrattata.
In
mezzo a tante difficoltà c’è anche una bella notizia: finalmente sono
arrivate le fognature a Esmeraldas Chiquita, il settore ovest di
Malvinas.
La rivincita dell’umanità
Dicevo prima che molta
gente è obbligata a vivere in condizioni inumane. Però anche in una
situazione difficile come quella degli slum, l’umanità non si arrende e
si prende la rivincita. È commovente vedere, ad esempio, come tanti
giovani - nonostante vivano in un ambiente violento – riescono a
crescere con valori sani.
Carlitos, un adolescente di 13 anni, vive
con la mamma, la sorella e il nipotino. Il papà è quasi sempre ubriaco,
e vive in un’altra casa. Una volta sono arrivato che suo papà stava
dicendo i suoi soliti strafalcioni. Carlitos era visibilmente
imbarazzato. Lui non beve neanche una goccia di birra e, quando gliela
offrono, gentilmente rifiuta. Ha dovuto lasciare gli studi, perché sua
mamma non era in grado di pagarglieli. Adesso sta lavorando in un
supermercato, dove aiuta i clienti a portare merci pesanti. Vive di
mance. Certi giorni gli va bene, e altri giorni gli va male, ma
mediamente riesce a guadagnare 20-25 dollari alla settimana, che per
lui è già qualcosa. I giorni che non lavora bada al nipotino di tre
anni. A volte si lamenta perché, a causa del nipotino, non può andare a
giocare a calcio, ma poi dice: “In fondo, non è così male. Stare dietro
a mio nipote è anche una gioia”. L’anno prossimo ha intenzione di
andare alla scuola serale. Partecipa alle riunioni del nostro gruppo
giovanile di Esmeraldas Chiquita e, pur essendo il più piccolo, è forse
il più attento e interessato alla Parola di Dio. È l’unico
bianco-meticcio in mezzo a un gruppo di giovani afro, e tutti gli
vogliono bene. La prossima settimana Carlitos, assieme ad altri amici,
ha organizzato un ‘bingo’ comunitario: il ricavato della vendita delle
tabelle servirà ad aiutare la mamma di Luis a pagare le spese mediche.
E
poi c’è Jordan, orgoglioso chierichetto della parrocchia “Nuestra
Señora de la Salud”. A soli undici anni, dimostra un grande senso di
responsabilità, e vuole un bene da matti al suo fratellino e ai suoi
genitori. Lui vede quanto deve faticare sua mamma per mandare avanti la
baracca, quanto è preoccupata perché ogni giorno ci sia sempre in casa
qualcosa da mangiare. Suo papà lavora, ma il suo stipendio non basta
per tutti, e così anche sua mamma deve cercare qualche ‘cachuelo’.
Tre
mesi fa è arrivata a Guayaquil una sua zia che lavora in Spagna e, come
regalo di compleanno, ha dato al nipotino 40 dollari, un vero tesoro
per Jordan. E Jordan ha dato immediatamente il denaro a sua mamma, con
queste parole: “Tieni, mamma: 30 dollari sono per comprare da mangiare
questa settimana, e dieci dollari per urgenze impreviste”. Ma Nelfa, la
madre, gli ha detto: “No, tesoro, questi soldi sono per te, tua zia li
ha regalati a te. Anche tu hai diritto a un regalo, di tanto in tanto”.
Allora Jordan è andato da un’altra zia, Pascuala, vedova con tre figli
che si guadagna da vivere comprando all’ingrosso vestiti e cercando poi
di rivenderli ad amici e parenti, e gli ha detto: “Zia, voglio una
blusa elegante per mia mamma, che la prossima settimana compie gli
anni, la più elegante che hai”. E Pascuala gli ha venduto una blusa
rossa di 20 dollari. Il giorno del compleanno, Jordan ha regalato a sua
mamma la blusa, e poi delle amiche sono a andate a trovarla con una
torta. La sera, prima di andare a letto, Jordan ha chiesto a Nelfa:
“Mamma, ti senti felice?”. E allora Nelfa è scoppiata a piangere, e ha
detto a suo figlio che quello era il giorno più felice di tutta la sua
vita.
In mezzo alla plastica riciclata e agli escrementi a cielo
aperto, un bambino si preoccupa che sua mamma sia felice. Sì, il
Signore ci ha creati umani, siamo fatti per essere umani e per
sviluppare la nostra umanità. Certo, per il sistema dominante Jordan è
solo un “ostacolo umano da rimuovere”, ma per chi crede è il sorriso di
Dio che continua a creare vita e speranza lì dove i potenti sanno
produrre solo morte e disperazione.
L’ ‘eutanasia’ dei poveri
Un’altro
aspetto molto importante dell’umanità degli slum è la solidarietà che
vive la gente – soprattutto la gente afro – di fronte alla morte di un
parente o di un vicino. Io la chiamo l’ ‘eutanasia’ dei poveri.
Propriamente,
‘eutanasia’ significa la ‘bella morte’. Quando una persona soffre di
una malattia grave, nella sua fase terminale, la gente va a trovarla a
casa, e prima fra tutti la ‘rezandera’, l’esperta di preghiere.
L’anziana ‘rezandera’ comincia a recitare il rosario seguito da alcune
preghiere del ‘buon morire’, che aiutano la persona agonizzante a
prepararsi all’incontro con Dio. Il malato, che spesso può dire solo
poche parole, segue con attenzione, si fa il segno della croce,
pronuncia l’inizio dell’Ave Maria, e il suo volto si rasserena. Al
termine della preghiera, con un filo di voce ringrazia tutti i presenti.
Ho
visto varie persone morire ‘bene’ in questo modo, circondate dalla
preghiera e dall’affetto dei vicini, e a volte non solo dei vicini. In
effetti, ci sono persone, come Tomasa, che vanno da un capo all’altro
della città per poter pregare accanto a una persona amica in fin di
vita. E mi sembra proprio che queste persone muoiono meglio, meno sole
e più serene di tanta gente che muore nelle nostre sofisticate case di
riposo.
Vivere nell’extra-mondo
Di fronte al crescere degli
slum e della delinquenza, i ricchi – e anche molte persone della classe
media - scelgono di vivere in ‘villaggi’ chiusi, protetti da
poliziotti: Mike Davis li chiama extramondi, e nel cosiddetto Terzo
Mondo si stanno sviluppando a vista d’occhio.
A Guayaquil, ad
esempio, poco fuori della città, si stanno costruendo molti residence
per la classe medio-alta. C’è un vero e proprio boom edilizio fuori
della città. Alcuni la chiamano anche ‘architettura della paura’: le
elites si creano un mondo a parte, sicuro e protetto, dove non possano
essere toccate dalla miseria e dalla violenza che infettano il resto
della città. E così, se tutta la città si trasforma in uno slum, in una
grande periferia inumana, i ricchi si salvano uscendo dalla città: è un
tentativo di disinserirsi dalla propria realtà locale. Come scrive
Davis, i borghesi del Terzo Mondo “cessano di essere cittadini del loro
paese e diventano nomadi che appartengono, e giurano fedeltà, a una
topografia superterrestre del denaro”.
Questa, dunque, è la realtà
che si sta delineando in molte città del Sud del Mondo: da un lato, una
stragrande maggioranza di popolazione periferica, ‘inutile’, condannata
a vivere nell’inferno della povertà e della violenza. Dall’altra, i
pochi ricchi che vivono in un extra-mondo, in un paradiso artificiale
che non vuole sapere niente dell’inferno in cui vive la maggioranza
dell’umanità.
Anche noi in Europa rischiamo di vivere in un
extra-mondo. I giovani che vivono nella cultura della frivolezza, ad
esempio, non hanno la minima idea di come vive la maggioranza dei loro
coetanei nel resto del pianeta. I loro principali interessi sono i
vestiti di marca, o l’auto e la moto all’ultima moda, e molti non
riescono davvero a interessarsi d’altro.
Il pericolo è che si crei
una incomunicabilità totale fra questi due mondi, che si perda il senso
dell’umanità condivisa, e che di fronte alla violenza degli slum urbani
si reagisca unicamente con la criminalizzazione e la repressione, senza
dare nessuna speranza di riscatto all’umanità ‘periferica’. Come dice
Davis, ”i ceti medi si rinchiudono nei ‘villaggi di sicurezza’ e
perdono la capacitá morale e culturale di leggere e comprendere la
desolazione urbana che si sono lasciati alle spalle”.
Prego Dio
perché non perdiamo mai questa capacità – morale, culturale e
soprattutto spirituale – di condividere la nostra umanità con i ‘paria’
del sistema, e che non perdiamo mai la voglia di ridisegnare con loro
un futuro di solidarietà per tutta l’umanità.
Un progetto con i giovani
Molti
giovani, di fronte a tutte le difficoltà che abbiamo descritto, cadono
nella tentazione del cosiddetto ‘facilismo’, cioè cercano di far soldi
nel modo più facile, mettendosi nel mondo della delinquenza.
Quest’anno
ho potuto contattare vari giovani che sono caduti in questa tentazione.
Si tratta quasi sempre di giovani con grandi potenzialità. Ciò di cui
hanno bisogno è trovare qualcuno che creda in loro, più di quanto vi
credano essi stessi; e trovare qualcuno che li metta a contatto con la
Parola di Dio. Poi ci sono adolescenti che non si sono ancora messi
nella delinquenza, ma che vivono in un ambiente che li espone
fortemente a questo rischio.
Per tutti costoro abbiamo pensato a un
progetto di formazione integrale. Formeremo gruppi di giovani in otto
quartieri poveri di Guayaquil - abbiamo già iniziato i dialoghi e i
contatti - e li coinvolgeremo in varie attività: attività sportive (un
campionato di calcio), attività formative (incontri in cui i giovani
possano confrontare le loro esperienze di vita, spesso dolorose, alla
luce della Parola di Dio) e una piccola attività economica attraverso
il microcredito (ogni gruppo sceglierà in che tipo di attività
impegnarsi).
Quando il progetto sarà già in marcia, organizzeremo
una gita di integrazione fra i vari gruppi di giovani. Infine,
realizzeremo un video in cui i giovani racconteranno le loro esperienze
di vita, e diranno se e come questa iniziativa di formazione e di
microcredito li avrà aiutati.
Sappiamo bene che tutto ciò è solo
una piccola goccia nell’oceano, e che non basterà a risolvere tutti i
problemi di questi giovani, ma pensiamo comunque che li può motivare ad
affrontare un cambiamento di vita, ad uscire dalla logica della
violenza, e aprire loro un nuovo orizzonte di speranza.
Ridisegnare l’economia
Naturalmente,
rimane aperto il problema macro-strutturale di come ridisegnare
l’economia mettendo al centro ciò che l’attuale sistema considera
periferico e marginale, ossia, la vita dell’umanità
Poco tempo fa è
uscito un libro di Robin Panel intitolato “Giustizia e Democrazia
economica”, in cui l’autore si pone questo interrogativo: “La
cooperazione e la democrazia possono sostituire l’avidità e la competizione come principi organizzativi della nostra vita economica?”
Io
penso che come cristiani dobbiamo porci seriamente questa domanda,
perché il futuro dell’umanità – per cui Cristo ha dato la vita -
dipende dal modo in cui risponderemo a questo interrogativo. Come
discepoli di Gesù dobbiamo sentirci direttamente coinvolti in tutti i
tentativi di riscrivere in senso democratico e nonviolento la politica
internazionale, in tutti i tentativi di costruire forme alternative –
fraterne – di economia.
L’orizzonte della tomba aperta
“Non
ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?... Detto questo,
gridò a gran voce: ‘Lazzaro, vieni fuori’. E il morto uscì...”
(11,40.43). La gloria di Dio è la resurrezione dell’uomo. ‘Gloria’ in
ebreo si dice ‘kabod’, che propiamente significa ‘peso, pienezza,
senso’. La Parola, dunque, ci suggerisce che la vita di Dio ha senso,
cioè che Dio si sente felice e ‘realizzato’ solo quando gli uomini
escono dalla tomba e risorgono alla speranza.
Vivere nella tomba
significa vivere nella morte, convinti che non ci sia alternativa alla
morte. Un sistema economico che ha rinunciato a garantire la vita del
genere umano, è un sistema economico di morte, chiuso nella tomba, che
impedisce agli uomini di vivere come esseri pienamente umani. Dio vive
la sua gloria e la sua pienezza, solo quando gli uomini possono
realizzare la loro umanità: chi lotta per la resurrezione dell’uomo sta
dando gloria a Dio.
Quando siamo chiusi nella tomba, la morte si
impossessa della nostra mente e del nostro cuore, e vediamo e
giudichiamo tutto da questo punto di vista chiuso, limitato e
malaticcio. E confondiamo questo specchio malaticcio attraverso il
quale pensiamo e vediamo la realtà con la realtà reale, e così non
intravvediamo vie d’uscita. Ma quando poi ascoltiamo le parole di Gesù,
che ci invita ad uscire dai nostri schemi malaticci, la tomba si apre e
appare un orizzonte impensato e finora impensabile: ciò che prima non
osavamo neanche immaginare perché ci sembrava assurdo e irrealizzabile,
adesso ci si presenta come un sentiero nuovo, certamente difficile ma
bello e vero, possibile da percorrere. È l’ottica della tomba aperta:
“In quest’ottica la morte abbandona la sua definitività ed è l’amore di
Dio ad essere riconosciuto come definitivo” (Padre Rupnik). Non è vero
che lo scontro delle civiltà sarà l’inevitabile conclusione della
storia umana: ciò che è davvero inevitabile sarà Pentecoste, la
comunione fraterna di tutti i figli di Dio. Allo stesso modo, non è
vero che l’economia mondiale è ormai inevitabilmente prigioniera della
logica di morte, e che non si può fare nulla per liberarla; ciò che è
davvero inevitabile è che “Cristo porrà tutti i nemici sotto i suoi
piedi, e l’ultimo nemico che annienterà sarà la morte” (1Co 15,25-26).
Siamo dunque chiamati a morire alla logica del rassegnarci all’inevitabile, e a rinascere all’orizzonte della tomba aperta.
Alberto Degan
Misioneros Combonianos
Las Malvinas - Guayaquil
Ecuador
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