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Un Cuore che non si stanca

fr. Alberto Degan dall'Equador

 

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La nonviolenza non è negoziabile

Giustamente la pagina delle Beatitudini, in cui Gesú ci chiede di amare i nostri nemici, è considerata la magna charta della nonviolenza cristiana, che consiste nel rispondere al male con il bene, spezzando in tal modo la catena dell'ingiustizia. Si comprende allora che la nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l'atteggiamento di chi è così convinto dell'amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell'amore e della verità”.
In questa bella omelia, Benedetto XVI ci avverte che la nonviolenza - per un cristiano – non è negoziabile, non è qualcosa che io possa accettare solo in certe situazioni per motivi ‘tattici’. La nonviolenza è il modo di essere di Dio, è il modo di essere del cristiano: chi rifiuta la nonviolenza non ‘crede nell’amore di Dio’. Il papa conclude la sua omelia affermando che Gesú ci ha portato la ‘rivoluzione dell’amore’. Purtroppo, molti cristiani pensano che questa rivoluzione dell’amore – che consiste nel rispondere al male con il bene - non si applica alla politica. Eppure Gesú è stato molto chiaro su questo punto: “Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontá, come in cielo cosí in terra”. È una preghiera che diciamo tutti i giorni, ma noi l’abbiamo dimenticato: il Regno di Dio - la ‘rivoluzione dell’amore’ – non è solo per il cielo e per l’al di lá, ma anche per la terra, anche per la realtá della vita politica e sociale, anche per le relazioni internazionali.
Non si salva il re per un forte esercito, il cavallo non giova per la vittoria” dice il salmista (33,16-17). Il papa dice che dovremmo credere nella forza dell’amore e della veritá, ma noi continuamo a credere nella forza del cavallo, del missile, della base militare e delle armi nucleari.

 

La veritá calpestata e taciuta

Papa Benedetto afferma che il cristiano affronta il male con la forza della veritá. Anche Gesú insiste molto su questa forza: “Se rimanete fedeli alla mia parola, conoscerete la veritá, e la veritá vi fará liberi” (Gv 8,32). La veritá di cui parla Gesú in questo versetto è tutta la veritá contenuta nelle sue parole, quelle parole che ci dicono di mettere nel fodero le nostre spade e i nostri cannoni (Mt 26,52), che ci mettono in guardia contro chi ci governa come padrone assoluto e per di piú si fa chiamare benefattore (Lc 22,25), parole che denunciano la presenza di ladri e ‘lupi’ che vogliono solo rubare, uccidere e distruggere (Gv 10, 10), e che smascherano l’ipocrisia di chi onora i profeti del passato e poi uccide i profeti del presente (Lc 11,47), etc. Come cristiani, dunque, dobbiamo annunciare non solo la veritá sulla Santissima Trinitá e su qualche altro dogma, ma anche la veritá della povertá, la veritá dei massacri impuniti che coprono interessi inconfessabili, la veritá della politica e dell’economia di morte, etc.
Mesi fa una commissione bipartisan del Congresso nordamericano – guidata da James Baker - ha presentato un rapporto molto critico sulla guerra in Iraq. Qualcuno poteva pensare che questo rapporto avrebbe indotto il presidente Bush a cambiare la sua politica bellicista, ma cosí non é stato. Helene Cooper, giornalista del New York Times, afferma che a Washington si sa bene che lo scenario migliore che ci si possa aspettare in Iraq è una guerra civile che duri dai 5 ai 10 anni, probabilmente finanziata da vari paesi arabi ‘rivali’, ma senza che queste nazioni intervengano direttamente. Mentre lo scenario peggiore sarebbe un intervento diretto di Iran e Arabia Saudita – a fianco rispettivamente degli sciiti e dei sunniti – con il rischio di una guerra nucleare che infiammerebbe tutto il Medio Oriente, e non solo. Per cui, conclude la Cooper, aver coinvolto il popolo iracheno in una crudele guerra convenzionale di dieci anni è il miglior ‘effetto collaterale’ che Bush si aspetta dalla sua avventura mediorientale.
In altre parole, che gli iracheni soffrano molto di piú di quanto soffrivano sotto Saddam Hussein, e che continuino a soffrire e a morire per altri cinque o dieci anni, al presidente Bush non interessa granché, né lo considera una sconfitta della sua politica: perché non è per lenire la sofferenza del popolo iracheno che ha iniziato questa guerra, con uno sforzo finanziario senza precedenti. Il vero motivo della guerra, come dice l’intellettuale statunitense Noam Chonsky, è un altro. Naturalmente, il potere non dirá mai la veritá su questo motivo, non dirá mai che l’unico motivo di questo enorme sforzo bellico è il controllo del petrolio di quella regione, perché non é ‘politicamente corretto’ parlarne apertamente. Il governo statunitense non dirá mai che – a partire dalla prima guerra del Golfo - centinaia di migliaia di persone sono morte solo per garantire il controllo del petrolio all’Impero nordamericano. Peró la Chiesa é chiamata a gridare queste veritá inconfessabili.
Uno dei quattro pilastri della pace, diceva Giovanni XXIII, è la veritá. Se rinunciamo a questo pilastro, non possiamo essere annunciatori di pace. Se non abbiamo il coraggio di gridare queste veritá ‘politicamente scorrette’, se non denunciamo la logica perversa di una politica che sta causando la morte di migliaia di innocenti, non possiamo presentarci come discepoli di Colui che ha detto: “Io sono la Veritá”.


Responsabili della ‘Veritá’

E veniamo cosí a parlare della nuova base militare nucleare di Vicenza che – salvo nuove decisioni – dovrebbe occupare il centro cittadino, sconvolgendo la vita di un’intera cittá.
Sappiamo che una base militare nucleare si costruisce per fare guerra: da qui partiranno armi atomiche che uccideranno in maniera crudele migliaia – o forse milioni - di persone. Mentre ai cristiani, dice il papa, è permesso usare solo l’arma dell’amore e della veritá.
Chi è a favore dell’allargamento della base di Vicenza dice che non dobbiamo essere anti-americani. È vero: essere anti-americani è male, come è male essere antirussi o anti-arabi, perché è sempre male essere contro qualcuno e odiare qualcuno. Ma gli americani non sono a favore della guerra. Secondo tutti i sondaggi, la maggioranza degli statunitensi disapprovano il modo in cui Bush ha condotto il conflitto armato in Iraq. Anche l’ex-presidente Gerald Ford, in un’intervista rilasciata nel 2004, disse che non comprende la politica di Bush, perché “non possiamo scorazzare come pazzi per il mondo, se non unicamente per ragioni di sicurezza nazionale”.
‘Veritá’, nell’originale greco del Vangelo, si dice alétheia, che propiamente significa ‘non-dimenticanza’. Difendere la Veritá, dunque, significa - innanzi tutto - non dimenticare la realtá dei fatti. L’Associazione “Militari di West Point contro la guerra” non vuole dimenticare come gli Stati Uniti sono stati coinvolti in questo conflitto armato; perció, nella loro pagina web, hanno ricordato alcune affermazioni fatte dal governo statunitense, che poi si sono dimostrate palesemente false. “Possiamo affermare senza ombra di dubbio che Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa”, affermó Dick Cheney il 26 agosto 2002. “Le prove raccolte dal nostro governo ci inducono ad affermare senza alcun dubbio che il regime iracheno continua a possedere e a nascondere le armi piú letali che siano mai state progettate”, affermó Bush il 17 marzo 2003. Di fronte a queste bugie, i “Militari di West Point contro la guerra” hanno affermato in un documento ufficiale: “I fatti hanno dimostrato che questa gente è inaffidabile e incompetente. Hanno mentito, e a causa di queste menzogne sono morte migliaia di persone, irachene e americane, e questo costituisce una tragedia morale. Il comportamento di questa amministrazione è particolarmente odioso perché si fa beffa del codice di condotta che ci hanno insegnato all’Accademia Militare di West Point: ‘Un soldato non mente, non inganna e non ruba, e non tollera coloro che fanno queste cose’. Questo codice ci ha instillato un profondo rispetto per la veritá, e un senso di responsabilitá che ci spinge a fare la cosa giusta e corretta, anche se questo significa criticare il governo del nostro paese”.
Nel loro documento, i “Militari di West Point contro la guerra” ricordano anche l’ultimo discorso del presidente Eisenhower che, dopo aver denunciato i rischi del potere sempre piú invadente della lobby industrial-militare, affermó: “Il disarmo, realizzato con reciproco onore e mutua fiducia, è un imperativo categorico. Insieme dobbiamo imparare come comporre le nostre divergenze, non con le armi, ma con l’intelletto e con giustizia”.
Perció dire che non dobbiamo costruire nuove armi e nuove basi nucleari - perché i conflitti devono risolversi pacificamente - non significa essere antiamericani; al contrario, significa condividere l’opinione di tanti statunitensi e di tanti presidenti americani, significa valorizzare il meglio della tradizione della democrazia staunitense.
Detto questo, comunque, è bene renderci conto che essere contro gli americani non è la peggiore tentazione in cui potremmo cadere; stiamo correndo un rischio molto piú grave, di cui nessuno – nemmeno i cristiani – sembra preoccuparsi: quello di metterci contro Dio, contro la veritá della parola di Dio. Gesú ci chiede di rinunciare alla spada, al fucile e al missile (Mt 26,52); noi, invece, non solo non rinunciamo al missile, ma lo moltiplichiamo. Papa Giovanni, nella Pacem in terris, chiedeva di “cessare la corsa agli armamenti” e di “proibire le armi atomiche”; noi, invece, non solo non le proibiamo, ma permettiamo che ne costruiscano di nuove sul nostro suolo.
Il Concilio Vaticano II ci esorta a “dedicare tutte le nostre forze a preparare un’epoca in cui possa essere proscritta qualsiasi guerra” (GS 82). Sulla stessa linea, Giovanni Paolo II afferma che “dobbiamo andare con decisione verso la proscrizione assoluta della guerra, e coltivare la pace come bene supremo cui bisogna subordinare tutti i programmi”. È cosí, dunque, che ci stiamo preparando alla proscrizione della guerra? È cosí che stiamo subordinando tutti i nostri programmi al bene supremo della pace? aumentando gli arsenali militari e preparando la distruzione nucleare del nostro pianeta? Come Chiesa, non abbiamo niente da dire a questo proposito?
Quanto alle perplessitá della popolazione vicentina sull’allargamento della base militare, D’Alema ha detto: “Ho chiesto a Condoleeza Rice che tenga presente le preoccupazioni e le raccomandazioni della popolazione e delle autoritá locali. Spero che ne tenga conto”. Come sarebbe a dire: ‘spero che ne tenga conto?’ Si tratta del nostro territorio. Tener conto dell’opinione della nostra gente non è un favore che dobbiamo implorare al governo degli Stati Uniti, è una condizione che noi dobbiamo porre: è nostro diritto.
Il ministro D’Alema sostiene che non poteva dire No alla richiesta statunitense di allargare la base di Vicenza, perché si tratta di un impegno giá preso dal precedente governo. Ma com’è che in Equador l’attuale presidente Correa ha deciso di chiudere la base statunitense di Manta, anche se i governi precedenti avevano deciso di aprirla? Perché il presidente dell’Equador ha la libertá di rimandare a casa i militari nordamericani, mentre l’Italia non ha neanche la libertá di dire ‘accontentatevi delle basi che avete, senza costruirne di nuove’?
Sará che l’Italia, avendo perso l’ultima guerra, ha perso anche la libertá di dire No al governo statunitense? Sará che l’Italia è trattata come una colonia, peggio dell’Equador? Certo, questa è una verita scomoda, ‘politicamente scorretta’; ma noi cristiani dobbiamo gridare quelle veritá che nessun politico ha il coraggio di affermare. È nostra responsabilitá: come discepoli di Cristo, siamo responsabili e custodi della Veritá.

 

Lasciarsi toccare dalla Veritá

Gesú disse: ‘Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme’. Ed essi ridevano di Lui” (Mc 5,39-40).
La morte non è la parola ultima e definitiva sulle vicende umane, dice Gesú. Ma i fedeli accorsi a dare l’estremo saluto a questa bambina ‘morta’ si fanno beffe di Lui. Anche noi cristiani, molte volte, sembriamo rassegnati di fronte alla politica di guerra e di morte dei nostri governanti. Chi continua a credere nel dialogo – da sviluppare con ‘intelletto e giustizia’, come diceva Eisenhower - è considerato una persona che vive fuori del mondo: “Siamo in guerra, non te ne sei ancora accorto? Tu sei fuori dalla storia!”. E si fanno beffe di chi s’intestardisce ad annunciare la Pace.
Da tanto tempo, ormai, non ci lasciamo toccare dalla Veritá: pensiamo che certe realtá sono ormai preda della morte, e che non si puó fare niente per liberarle da questa presa.
Ma poi Gesú tocca questa adolescente, la prende per mano, e la giovane recupera la vita (Mc 5,41-42). Dobbiamo fare in modo che Gesú tocchi la politica e l’economia, perché Lui ha il potere di ridare vita a tutte queste realtá che a noi sembrano giá morte, schiave di una logica di morte.

 

Quando la morte non è ‘naturale’

La passione di Gesú, che ci apprestiamo a celebrare nell’ormai prossima Settimana Santa, è un’occasione per riflettere sulla realtá della morte.

Naturalmente, ci sono vari tipi di morte, che qui in Equador - e piú in generale, in tutta l’America Latina - si vedono ogni giorno: morte naturale, morte per mancanza di denaro che non ci permette di comprare tutte le medicine o di fare l’operazione necessaria, morte per l’insufficienza dell’attenzione medica, morte violenta causata dalle ‘pandillas’ (bande giovanili) o dagli squadroni di ‘pulizia sociale’, etc.
Il nostro popolo è abituato a queste morti, a tal punto che a volte non sa distinguere la morte naturale da una morte ‘innaturale’, provocata dall’ingiustizia o dalla negligenza dell’uomo.
Il mese scorso abbiamo dovuto affrontare due morti dolorose, apparentemente ‘naturali’. Lurdes, una giovane nera di 25 anni, con cui si inizió la Pastorale Giovanile Afro a Guayaquil otto anni fa, è morta in ospedale. Da un anno aveva problemi di reni, e i medici dicevano che dovevano trapiantarle un rene nuovo, anche se la famiglia non aveva il denaro sufficiente. Ad ogni modo, dissero i medici, prima di fare questa operazione, bisognava farle un ciclo di dialisi. Lurdes si sottopose a questo trattamento, ma alla terza dialisi entró in coma, e dopo otto giorni morí. Io sospetto fortemente dell’assistenza medica e del materiale che si usa nell’Ospedale ‘Vernaza’ di Guayaquil: non mi sembra normale morire per una dialisi.
Una settimana dopo don Juan, padre di Flor, catechista di una delle nostre parrocchie, è morto in ospedale per un’operazione che doveva essere di routine. Il servizio sanitario, in generale, qui è molto carente: per un povero ecuadoriano, entrare in ospedale significa correre concretamente il rischio di morire.
Tre mesi fa era morto un giovane nel quartiere ‘Bastión Popular’: per un corto circuito nella sua camera da letto, mi hanno detto. E anche in questo caso la gente la considera una morte naturale: in realtá, non è naturale che nelle case di bambú e lamina corrano fili elettrici messi artigianalmente senza nessuna sicurezza, nessun controllo da parte del Municipio.
Dobbiamo lottare per migliorare il servizio sanitario, migliorare gli impianti elettrici; ma soprattutto dobbiamo aiutare la gente a prendere coscienza dei propri diritti, e a non considerare ‘naturale’ ció che è dovuto a insipienza o ingiustizia dell’uomo.

 

Morti violente

Con i giovani del gruppo ‘Lirica Oscura’ stiamo preparando il progetto della ‘messa rap’. Vogliamo incidere un CD diviso in due parti, la prima parte con canzoni-messaggi, la seconda con canti religiosi pensati per la messa: “Cristo ti ama”, “La gloria è di Dio”, “Profeti come Gesú”, “Santo tu sei, Signor Yavé”, “Maria ci ama come una mamma”. Sappiamo che la musica é uno strumento privilegiato per evangelizzare i giovani, e a questo fine vogliamo valorizzare il talento artistico dei nostri ‘raperos’.
Per quanto riguarda la prima parte del CD, molte di queste canzoni parlano delle bande giovanili, e del sangue che ogni giorno si sparge sulle strade della nostra cittá: “Non possiamo vivere nella violenza”, “Il prezzo della strada”, “Maltratto dei poliziotti”, “Dalla prigione”. In effetti, si tratta di un problema che si fa ogni giorno piú grave nei quartieri poveri di Guayaquil.
Due mesi fa, a Malvinas, un giovane di 17 anni ha ucciso a pugnalate una donna incinta di sette mesi. Il marito ha promesso vendetta: tutti gli ‘amici’ e conoscenti del giovane assassino si sentono minacciati. E proprio mentre stavo per inviare questa lettera, mi é giunta notizia che ieri il giovane vedovo ha ammazzato un cugino dell’assassino di sua moglie. Il cugino non aveva niente a che vedere con quell’odioso criminie, ma tant’é… La vendetta si dirige sempre contro familiari e amici, indipendentemente dalla loro innocenza. Il giovane vedovo ha fatto sapere che anche i ragazzi del nostro gruppo afro di Esmeraldas Chiquita sono sotto il suo mirino, in quanto conoscenti di uno dei giovani coinvolti nell’omicidio di sua moglie.
In un altro quartiere, il ‘Suburbio Oeste’, un giovane di 12 anni ha ucciso a colpi di pistola un adulto che aveva preso le difese di un ‘malcapitato’. E ci sono altri adolescenti pronti a sparare.
‘Sistema’ – nome d’arte di José, fondatore del gruppo ‘Lirica Oscura’ – il mese scorso mi ha detto: “Fratel Alberto, cerchiamo di terminare presto il nostro CD! Perché voglio riuscire ad inciderlo prima che io muoia”. “E perché dovresti morire?”, gli ho chiesto. “Vivendo dove noi viviamo, non si sa mai...”, mi ha risposto.

 

Un quadrato d’acqua

L’Expreso – uno dei quotidiani piú letti nel nostro paese – ha pubblicato un reportage sul gruppo ‘Lirica Oscura’. E il reportage ha attirato l’attenzione di Ecuavisa, il principale canale televisivo dell’Equador. E cosí, il mese scorso, una troupe di Ecuavisa è arrivata al Centro Afro, chiedendo di intervistare i giovani cantanti rap. Hanno voluto sapere che cos’è la Pastorale Afro, perché stiamo aiutando questi ragazzi, e poi siamo andati nella Isla Trinitaria, dove vivono i giovani raperos, per intervistarli. E cosí, grazie alla televisione, parecchia gente ha potuto sentire i messaggi di Sistema, Mago, Candy e Black – i quattro raperos – contro il razzismo e contro la violenza. Adesso si é creata una certa aspettativa attorno questo disco di ‘misa rap’; speriamo che il Signore ci aiuti a realizzare bene questo progetto.
È un progetto che abiamo definito soprattutto con José e Sergiño – in arte Sistema e Mago- i due leader del gruppo. Questi due ventenni, dopo essersi battezzati l’anno scorso, stanno partecipando alle riunioni del nostro gruppo di giovani coppie, e adesso vogliono prepararsi per la prima comunione: cominceremo la preparazione dopo l’incisione del disco. “Che cosa mi succederá quando potró mangiare l’ostia e Gesú entrerá in me? Come cambieró?”, mi domanda serio Sergiño. “Sono ansioso di saperlo”. Questa ansia di poter entrare in comunione con Gesú profeta, per essere profeta come Lui, Sergiño la esprime in una delle canzoni della ‘messa rap’.
La settimana scorsa, dopo aver definito il titolo di tutte le canzoni del nuovo CD, José-Sistema mi ha portato a vedere il luogo dove costruirá la sua nuova casa. Finora vive – con sua moglie e sua figlia – in una piccola casa di mattoni in affitto. Ma non puó stare lí per molto tempo. Cosí ha giá cominciato a pagare a rate la sua nuova casa. ‘Sistema’ era tutto eccitato e ansioso di mostrarmi il luogo dove andrá a vivere. Ma quando arrivammo, mi resi conto che… si trattava di un quadrato d’acqua. Un pezzo di terreno costa troppo per Sistema. E cosí lui, come molta altra gente, compra un pezzo d’acqua dell’estero – una ramificazione interna del fiume Guayas. Il pezzo d’acqua costa 300 dollari: José li sta pagando a rate, poco a poco. Naturalmente, si tratta di una vendita illegale, ma è cosí come sono nati vari quartieri di Guayaquil: invasioni illegali di acqua e terreno, messi in vendita dal dirigente o ‘boss’ della zona, e dopo alcuni anni arriva la legalizzazione del Comune.
Il pezzo d’acqua che ha comprato José é abbastanza lontano dalla ‘riva’, per lo meno 50 metri: dovranno costruire una passarella di legno per arrivare fin lá. Quando avrá terminato di pagare, potrá cominciare a costruire la sua palafitta di bambú. Io rimasi commosso – ma anche triste – al vedere la sua gioia e il suo orgoglio nel mostrarmi questo quadratino d’acqua.

 

Teatro di strada

I giovani del Suburbio Oeste che vengono al Centro Afro mi interpellano: “Fratel Alberto, anche ieri un ragazzino di 13 anni ha sparato a un nostro vicino di casa; cosa possiamo fare contro la violenza nel nostro quartiere? La gente tace, non dice nulla: bisogna fare qualcosa”. Sí, qualcosa dobbiamo fare, per lo meno a livello di prevenzione, sennó anche gli altri adolescenti, in assenza di una proposta alternativa, si farranno coinvolgere dai loro coetanei violenti. E cosí abbiamo deciso di coinvolgere i nostri giovani in un’iniziativa di teatro di strada contro la violenza. Prepararemo una nuova rappresentazione teatrale da presentare nel Suburbio Oeste e in altri quartieri violenti di Guayaquil.
Il titolo della nostra rappresentazione sará: “Tengo un sueño”. Durante la rappresentazione invocheremo il nostro antenato Martin Luther King, profeta afroamericano della nonviolenza, mentre voci diverse pronunceranno le sue frasi piú famose. Come momento finale della rappresentazione, proclameremo – adattandolo alla realtá di Guayaquil – il suo famoso discorso: “Ho un sogno”.
Come l’anno scorso, anche quest’anno preparemo quest’evento con una scuola di teatro e danza, cui si sono iscritti trenta giovani di vari quartieri della nostra cittá. Oltre al sogno di Martin Luther King, parleremo anche dei nostri sogni, i sogni dei giovani neri di Guayaquil: denunceremo la violenza dei nostri quartieri e risalteremo tutti gli elementi belli e positivi presenti in questi stessi quartieri. Non mancheranno alcuni episodi biblici (ad esempio, il cieco di Gerico), adattati all’attuale realtá dell’Equador.
Con questo teatro popolare vogliamo continuare a valorizzare la creativitá dei nostri giovani e a metterla a disposizione dell’evangelizzazione del popolo afroecuadoriano.

 

Risultati e frutti

Molti giovani neri di Guayaquil vivono lontano dalla Chiesa: lontano non tanto fisicamente ma culturalmente. Bisogna stare con loro: e quando stai con loro con affetto ti accettano, e accettano anche che tu gli parli di Gesú. E molte volte ascoltano con attenzione. Ma andare a messa è un’altra cosa.
Per molti aspetti noi siamo ancora legati a un certo schema tradizionale, secondo il quale il ’successo’ dell’attivitá pastorale e missionaria si misura in base al numero di persone ‘nuove’ che vanno alla messa. Se devo usare questo parametro, ammetto che la nostra ‘missione’ con i giovani neri del quartiere Esmeraldas Chiquita è un ‘disastro’: solo uno-due di loro vanno regolarmente a messa la domenica. Gli altri no. Eppure…
Metá dei giovani del gruppo non hanno ancora ricevuto il battesimo. Con loro, quindi, stiamo facendo una missione di primo annuncio: riuscire a portarli nei locali della chiesa per parlare loro di Gesú è giá un primo frutto di cui ringrazio il Signore.
E poi c’è Junior, un giovane di 20 anni, che mi dice: “Io prima avevo la pistola, e mi mettevo in cose non molto buone: furti, aggressioni, etc. Poi ho visto quanto soffriva mia mamma per tutto questo, e poi ho ascoltato i temi che si davano nel nostro gruppo. E tutto questo mi ha liberato la mente. Adesso non ho piú nessuna pistola, non rubo, non faccio niente di male, sto lavorando”.
E cosí Wilmar, Fabián, Carlitos, Tatiana e Zuleika non vanno a messa, o meglio, ci vanno solo quando c’è una messa afro, in cui si sentono coinvolti. Peró, nonostante tutti i loro limiti e i loro alti e bassi, è da due anni che partecipano ai nostri incontri: dicono che è l’unico spazio che hanno per riflettere e meditare un po’ su certe cose. Al di lá del loro atteggiamento scanzonato e ribelle, si rendono conto che è uno spazio importante, e non lo vogliono perdere.
Penso dunque che dovremmo imparare a distinguere fra risultati e frutti: risultati quantitativi e quantificabili in termini di assistenza ai sacramenti, con questo gruppo ancora non ci sono; peró frutti sí. E io ringrazio il Signore, e gli chiedo che ci aiuti a saper valorizzare bene questi frutti.
Uno dei frutti piú importanti della Pastorale Afro in questi ultimi tempi è stata l’Approvazione - da parte dell’Arcivescovo di Guayaquil - della Fraternitá dei ‘Misioneros Afroecuatorianos’, che adesso sono un movimento ecclesiale ufficiale. È bello sapere che la Chiesa ha accettato questi laici neri come colonna vertebrale della Pastorale Afro della nostra diocesi, e come protagonisti dell’evangelizzazione del loro popolo. All’inizio di questo mese si è svolta qui a Guayaquil l’Assemblea Nazionale dei Missionari Afroecuadoriani, ed è stato eletto il nuovo Consiglio Direttivo della Fraternitá: un nuovo passo in avanti che trasforma ormai in realtá anche qui in Equador il sogno di Daniele Comboni : ‘Salvare l’Africa con Africa, salvare il popolo nero con il popolo nero’.

 

Il cuore del missionario

Un amico di vecchia data, e che da tempo non mi dava sue notizie, mi ha scritto una bellissima lettera, nella quale, tra le altre cose, mi dice: “Leggo la tua lettera, e tra le righe leggo anche quello che porti nel tuo cuore; quello che passa per il tuo cuore non è per me meno importante degli avvenimenti che racconti”.
Il cuore del discepolo di Cristo é un bene prezioso, un bene cui dobbiamo prestare molta attenzione, perché in realtá tutto dipende dal cuore. In gennaio ho dato un ritiro sul tema: “Il cuore come fonte e meta della missione”.
Il cuore è un simbolo biblico molto importante. Una rapida carellata di citazioni ci aiuterá a intendere il significato di questa realtá:
Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19).
Lá dov’è il tuo tesoro sará anche il tuo cuore” (Mt 6,21).
L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5)
Il diavolo aveva giá messo nel cuore di Giuda Iscariota il proposito di tradire Gesú” (Gv 3,12).
Maledetto l’uomo che allontana il suo cuore dal Signore” (Ger 17,5).

Come risulta evidente da questi versetti, il cuore è il centro vitale della persona, l’interioritá dell’essere umano: è il luogo in cui nascono e meditiamo i nostri pensieri, il luogo in cui nascono e si definiscono i nostri progetti, il luogo in cui prendiamo le decisioni che determinano la nostra vita, il luogo in cui ci innamoriamo di una causa o di una persona.
Durante la giornata entriamo in contatto con molta gente; ma quante volte entriamo in contatto con il nostro cuore?
Dové il nostro tesoro, lí sará il nostro cuore’, dice Gesú. Qual è il nostro tesoro? Dove sta il nostro cuore in questo momento? Siamo consapevoli di ció che si sta agitando nel piú profondo del nostro essere? Quando Dio parla all’uomo, appunta sempre a questo centro vitale: Dio vuole entrare nel nostro cuore per riversarvi il suo amore: vuole che tutta la nostra persona – tutti i nostri pensieri, tutti i nostri sentimenti – si ponga al servizio del suo progetto di fraternitá.
Purtroppo, anche il diavolo vuole entrare nel nostro cuore, perché vuole disfare il lavoro di Dio, vuole strappare Dio dal nostro cuore: “Poi viene il diavolo e porta via la Parola dai loro cuori” (Lc 8,12). E cosí il cuore è il luogo di una lotta incessante fra il bene e il male. Di fronte a questa lotta, nostro compito è ”santificare il nostro cuore” (Gc 8,4), aver cura del nostro cuore, e fare in modo che Dio vi possa sempre trovare libero e facile accesso.

Gesú si preoccupa molto del cuore dei suoi discepoli:
Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1).
Il vostro cuore si rallegrerá, e nessuno vi potrá togliere la vostra gioia” (Gv 16,22).
Gesú sa che il cuore del missionario è assetato di gioia. E sa che il nostro cuore è spesso turbato di fronte a certe sfide cui non si sa bene come rispondere: la povertá, la violenza, l’ingiustizia, l’impunitá, etc. Un cuore turbato che è anche un cuore ferito, perché non sempre le nostre iniziative sono comprese, non sempre incontriamo le risposte che vorremmo incontrare.
In questi momenti puó intervenire il Nemico, suscitando sentimenti di pessimismo, stanchezza, rassegnazione, rancore, etc. Per questo l’Apostolo ci dice:“Non angustiatevi per nulla... La pace di Dio... custodirá i vostri cuori... In conclusione, fratelli, pensate in tutto ció che è vero, nobile, giusto, puro, fraterno e bello” (Flp 4,6-8). Dobbiamo riempire il nostro cuore di pensieri nobili e belli. Noi siamo ció che pensiamo, siamo il frutto di ció che riempie il nostro cuore. Se durante il giorno pensiamo in cose tristi e coltiviamo sentimenti di rancore e pessimismo, il nostro cuore sará triste, stanco e rassegnato; ma se durante il giorno pensiamo in tutto ció che è bello e fraterno, il nostro cuore si riempirá della bellezza di Dio, e la pace di Gesú custodirá tutta la nostra persona.

Il cuore del missionario é un cuore che ha bisogno di fratelli e sorelle: “Chiunque avrá lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome riceverá cento volte tanto e avrá in ereditá la vita eterna” (Mt 19,28-29). A chi lo segue Gesú promette madri, padri, fratelli, sorelle e figli. Gesú sa che il missionario non potrebbe vivere senza madri e senza fratelli, senza figli e senza sorelle. Perché questa è la vita che Dio ha concepito per noi; una vita senza madri né fratelli sarebbe una vita disumana. Sí, Gesú ci promette il centuplo di affetto, perché sa che senza questo centuplo sarebbe impossibile vivere umanamente. Non è solo un’idea astratta: è qualcosa che ho sperimentato in prima persona, sia qui in Equador che in Colombia. Nelfa e Alcivar, ad esempio, sono una giovane coppia che sto accompagnando. Stanno insieme da circa dieci anni e hanno due figli stupendi. Adesso si stanno preparando per il matrimonio ecclesiastico. Hanno avuto qualche problema nella loro relazione, come capita a tutti. Ma adesso stanno bene. Alcivar sta aiutando altre coppie ad entrare nel nostro cammino di famiglie missionarie, ed é riuscito a persuadere alcuni mariti - che sembravano ‘perduti’ - a riprendere un cammino di paternitá e ‘sponsalitá’ responsabile. Nelfa mi ha detto che per loro sono come un fratello, il fratello cui vogliono piú bene.

Certo, il cuore del missionario é un cuore sospeso fra due o anche tre continenti: chi ha vissuto in Africa alcuni anni della sua vita non la dimenticherá mai, anche se poi è stato mandato in America Latina, che ha conquistato un’altra fetta del suo cuore, e nel frattempo pensa sempre ai suoi familiari e amici italiani, alcuni vivi e altri morti.

Stando in Equador, in effetti, ogni tanto mi giunge la notizia della morte di qualche persona cara: mia nonna Rosa; la signora Orazi, mia insegnante di Liceo, che a Rovigo era una vera e propria istituzione; don Tiziano, stupendo missionario fidei donum, etc.
Mi vengono alla mente, a questo proposito, alcuni versi della poesia Insonnia, di Mario Luzi:
La notte, i suoi strani affollamenti:
figure umane flebili, avvilite
dalla disattenzione degli umani...”.
La notte, pensando a certe persone che giá ci hanno lasciato, ci viene il rimorso per non aver sempre vissuto al massimo i momenti trascorsi insieme, per non aver detto tutte le parole che avremmo dovuto dire:
Con umiltá di cuore è da raccogliere
la minima, l’infima dovizia
Che il tempo aveva in se´...
Ma voleva quell’obolo essere preso
Da una mano piú attenta ed amorevole...
C’era forse da vivere piú vita...”.
Grazie a Dio, la notte io dormo senza problemi. Ma a volte passano per il mio cuore persone che ho amato, e a cui forse non sono riuscito a trasmettere tutto il mio amore, persone che non potuto accompagnare negli ultimi momenti della loro vita...

 

Il cuore come fonte e meta

Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca… Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Ama dunque con ardore, e convertiti” (Ap 3,15-20).
Il cuore è la fonte della missione. Se lasciamo che Dio riversi il suo amore infuocato nel nostro cuore, saremo missionari ‘caldi’ e appassionati: la nostra vita e la nostra parola ‘ardente’ saprá riscaldare e contagiare. Se invece il cuore del missionario è tiepido, non potremo annunciare nessuna Buona Notizia, e non potrá esserci nessuna vera missione. Gesú, innamorato di noi, non sopporta la mediocritá e non si rassegna di fronte alla nostra tiepidezza: ci rimprovera, ci mette in crisi, ci corregge, ci scuote, perché vuole che il nostro amore sia all’altezza del suo, perché Lui sa che il nostro cuore é capace di un amore grande. Il cuore é anche la meta della missione, perché il fine dell’evangelizzazione é aiutare Dio ad entrare nel cuore della gente: "Se uno mi ama, mio Padre lo amerá e noi verremo da lui, e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Essere nel cuore di Dio, e sentire che Dio è nel nostro cuore: questa è la gioia e la meta della nostra vita.
Era questo che Gesú voleva dire quando ci ha detto: “Vi ho chiamati amici” (Gv 15,15). Essere amici – una delle esperienze umane piú belle – significa sentire che siamo nel cuore di una persona; possiamo essere lontani fisicamente, ma niente e nessuno potrá scacciarci da quel luogo sacro: abbiamo conquistato per sempre un pezzetto del cuore del nostro amico. E cosí, essendo esseri celestiali, come direbbero i giovani di Lirica Oscura, possiamo superare le barriere e le distanze piú lunghe – oceani, deserti e montagne - ed entrare in forma misteriosa e permanente nel cuore delle persone che amiamo.
È questa una delle principali gioie e consolazioni del cuore del missionario. Lo diceva anche Comboni: “Amatissimo mio don Pietro, un piacer io provai, e grande, nel sentire che venne finalmente eletto al grande uffico di Arciprete di Toscolano; e su questo riguardo non so se abbia esultato piú il suo cuore, oppure il cuore del suo amico lontano… No, mio don Pietro, non è perché era parroco di Limone che io stabiliva con lei unanimemente di tenere stretta relazione. Era l’affetto: erano due cuori che felicemente si accoppiavano in uno: era la piú stretta e sincera amistá che ambedue ci muoveva a stringerci anche da lontano in leale e reciproca corrispondenza” (S 323).

 

Un cuore che non si stanca

Il mese scorso ho ricevuto questa bellissima lettera da parte di padre Cristian, mio compagno di noviziato e attualmente impegnato come missionario in Sudan:
Avevo lasciato Fangak ormai da 20 giorni, spostandomi di villaggio in villaggio. Un giorno arrivai nel villaggio di Angelina: arrivai molto stanco per la lunga camminata sotto il sole. Ero un po’ amareggiato perche’ alla messa erano venuti solo un gruppo di ragazzi, molto distratti e rumorosi, e due adulti: una donna anziana, ormai cieca, e il catechista. Nessuno aveva partecipato alla comunione; e cosi’ era accaduto anche l’anno precedente. Stavo valutando queste cose quando Angelina – una ragazza tredicenne - mi portó il te’ e il cibo. L’ho guardata con gratitudine perche’ l’avevo vista trafficare a lungo: andare al fiume a prendere l’acqua, andare a chiedere lo zucchero e le foglie di te’ a chi ne aveva, andare a mungere la mucca, pestare la durra fino a ridurla a farina e cucinarla. Gli ho detto: ‘Sarai stanca’. Lei mi ha guardato e ha risposto sorridendo: ‘Taa ke loida ce bi ciui’ (‘Ho un cuore che non si stanca’). Allora ho capito: il corpo puo’ anche essere stanco di lavorare, di confrontarsi con fatiche e delusioni, ma il cuore che vuole bene non si stanca”.
Per me questa lettera è un gioiello prezioso; per questo voglio condividerla con tutti voi. Non dobbiamo preoccuparci se la giornata di oggi è stata un mezzo insuccesso, se non tutte le persone hanno risposto come noi ci aspettavamo, e se ci sentiamo mancare un po’ le forze. L’importante è non perdere la voglia di lottare, di camminare e di cantare; l’importante è sentirci nel cuore di Dio, e allora Lui non permetterá che il nostro cuore si stanchi.
Dobbiamo investire molte energie nel nostro cuore, e nel cuore della gente, perché è la nostra principale ricchezza: se viene meno il cuore, se si stanca il cuore, viene meno tutto il resto.
In tutto quello che facciamo, dunque, dobbiamo puntare al cuore della persona. A volte realizziamo tante attivitá, preoccupati del successo ‘esterno’ di queste iniziative: partecipazione di massa, applausi, etc. Ma in molti casi queste attivitá non toccano quel luogo sacro in cui la gente sceglie il suo tesoro e prende le sue decisioni. Meglio allora fare una sola attivitá, e forse non molto rumorosa, ma saper arrivare al cuore delle persone.
E termino con il messaggio che ho inviato a padre Cristian:
Caro Cristian, non sai quanto m'ha fatto piacere ricevere tue notizie. L'episodio che tu racconti é bellissimo; grazie di cuore. Avere un cuore che non si stanca é un dono che dobbiamo sempre chiedere al Signore. Ringrazio Dio per il tuo cuore, che mi é di esempio. Abbiamo bisogno di missionari con un cuore giovane e generoso come il tuo. Prega per me, perché il mio cuore non si stanchi mai.
Grazie per la tua preziosa amicizia.
Un abbraccio fraterno,
Alberto”.

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