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don Bruno Maggioni: CHIESA LOCALE E MISSIONE AD GENTES

CHIESA LOCALE E MISSIONE AD GENTES 

di Bruno Maggioni

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Leggi la seconda parte dell'intervento di Bruno Maggioni:: "L'originalità cristiana e la Missione ad Gentes" ed il documento del Concilio Vaticano II sull'attività missionaria della Chiesa "Ad Gentes"


SOMMARIO:

- Introduzione;

- La chiesa locale;

- L'universalità della chiesa locale;

- La missione;

- Lo stile della missione;

- Le motivazioni della missione;

- Ad gentes

 

Introduzione  

Il tema "Chiesa locale e missione ad gentes" è noto e ampiamente dibattuto.Il nostro scopo non è di formulare ipotesi nuove, ma di ritornare con forza ai fondamenti. I fondamenti si dimenticano, o si scolorano, se non vengono continuamente rifondati.  Questa rifondazione è particolarmente necessaria quando si è fatto un lungo tratto di cammino, e i problemi, le difficoltà e le divergenze si vedono con maggiore chiarezza. EÂ’ il nostro caso.

Questa conversazione è un elenco di rapidi appunti, che si accontentano di esaminare puntigliosamente il titolo.  Quindi tre parti: la Chiesa locale, missione, l'ad gentes.

Non si può, però, svolgere il tema senza prima ricordare alcuni problemi importanti presenti nella nostra Chiesa.  Non sono certo la fotografia completa della nostra comunità, tuttavia questi problemi si avvertono.

Il primo è la frammentazione fra le varie forze missionarie che operano nella nostra Chiesa locale.

La varietà è dono dello Spirito, ma la frammentazione no .  Di qui un compito urgente: portare questi molti frammenti a unità.  La missione deve apparire comunione, comunione visibile, non frammentazione.  Anche perché è facile passare dalla frammentazione alla contrapposizione, che è la negazione di ogni autentica missionarietà.  Se non c'è comunione nella Chiesa che invia, il rischio è di esportare altrove, in missione, le nostre tensioni. Sulla comunione nella Chiesa locale si possono dire molte cose.  Ma qui ce ne basta una, concreta e verificabile. La comunione si fa reale e visibile quando sa unire due linee: la linea verticale dellÂ’unità con il vescovo (che si esprime nell'obbedienza alle sue direttive e nell'accettazione cordiale del piano pastorale diocesano), e la linea orizzontale della fraternità fra tutte le componenti della comunità diocesana (che si esprime nella conoscenza reciproca,nellÂ’accoglienza gli uni degli altri - parrocchie, movimenti e gruppi - nella costruzione di una rete di fraterne relazioni).

Tutto questo vale anche, e direi soprattutto, nel campo specifico dell'attività missionaria. Non basta la linea verticale a rendere veramente visibile la comunione. L'obbedienza di tutti al pastore e la reciproca fraternità alla base sono le due facce di una stessa comunione. Insieme stanno o cadono. Si potrebbe anche dire forse un po' esagerando che la linea verticale è funzionale a quella orizzontale. La sincerità dell'obbedienza al pastore è verificata dalla sua capacità di produrre fraternità orizzontale.

Il secondo problema è la ricerca di un equilibrio - non di comodo, ma “ecclesiale”- tra la giusta preoccupazione per le missioni particolari che la diocesi ha scelto e la disponibilità per la missione di tutta, Chiesa e per tutti i missionari. Una lunga esperienza ci convince che anche questo equilibrio non è facile. E d'altra parte è essenziale. La missionarietà di una Chiesa locale, infatti, non può ridursi a gestire qualche parrocchia in più, sia pure in terre lontane.

Il terzo problema è il superamento della scollatura più frequente di quanto si immagini, fra lÂ’animazione missionaria in terra di missione. A dispetto delle buone intenzioni, la scollatura è facile, perché le due attività sono generalmente sottoposte a urgenze differenti. Il missionario è spesso alle prese con urgenze animazione missionaria ha il compito, per sua natura, di andare al di là delle emergenze e di porre le basi per una spiritualità missionaria che ha bisogno di lunghi tempi per mettere radici stabili, diffuse, capaci  di frutti duraturi. Così le divergenze, e anche i contrasti sono facili. Il missionario ha fretta, spesso è impaziente. LÂ’animatore missionario è più lento: preferisce la profondità all'immediato.

  LA CHIESA LOCALE

  Sul significato teologico della Chiesa locale è stato detto ormai tutto, dal Concilio in poi. La Chiesa locale è il farsi presente -qui e ora, per noi- della Chiesa di Dio. La Chiesa locale non è una semplice porzione della Chiesa universale, ma è la Chiesa di Dio che si fa presente qui da noi.

Va ricordato, a questo punto, che la Chiesa locale in senso vero è la diocesi. Alle volte diciamo Chiesa locale la parrocchia, o addirittura il gruppo, ma è un parlare improprio.  La Chiesa locale è la diocesi, perché la Chiesa locale è la dove sono presenti tutte le strutture essenziali della Chiesa di Dio, e fra queste il Vescovo. Movimenti, gruppi, parrocchie sono "inseriti" nella Chiesa locale, ma non sono “la”, Chiesa locale: è perciò essenziale che siano in comunione con il Vescovo e inseriti nella realtà diocesana. Se si isolano, potranno fare molte cose, ma non sono “ecclesiali”: gente di buona volontà, ma non Chiesa.

Prima del Concilio si insisteva quasi unicamente sulla Chiesa universale, non sulla Chiesa locale. Dicendo “la Chiesa”, si intendeva sempre la Chiesa universale, e le note della Chiesa venivano applicate solo alla Chiesa universale: cosi l'unità, la santità, la cattolicità, la missionarietà. La missione era affidata alla Chiesa universale, e quindi alla Santa Sede e agli Istituti missionari. Le diocesi fornivano vocazioni, denaro e preghiere.

Con il Concilio, e poi nel post-concilio (ma le premesse c'erano già prima) si è compreso che protagonista della missione è “anche” la Chiesa locale. Sottolineo “anche”, perché non manca chi dice "soltanto” la Chiesa locale. Un'opinione che non regge. Lo spazio missionario che si è aperto per la Chiesa locale non deve in alcun modo mettere in crisi altri spazi, per esempio quello degli Istituti missionari, più che mai necessari. Resta vero, però, che le responsabilità della Chiesa devono concretizzarsi nella Chiesa locale, e fra queste responsabilità va annoverato il compito della missione universale.

  L'UNIVERSALITAÂ’ DELLA CHIESA LOCALE

  La Chiesa locale, figura della Chiesa di Dio, non può non essere universale, capace cioè di farsi segno -proprio nella sua località- della sollecitudine di Cristo che non ha confini. La Chiesa locale, che la più piccola, non deve essere il segno che Dio ama noi, ma che Dio ama tutti. L'aggettivo “locale” non significa una restrizione dell'universalità, ma indica il luogo in cui l'universalità deve concretamente mostrarsi. Il “locale” non dice l'ambito della sollecitudine (che per sua natura travalica ogni confine), ma il soggetto -la comunità, appunto- che la vive. Locale è il promontorio dal quale si guarda, non l'orizzonte che si osserva.

E ovviò che questa essenziale dimensione universale della Chiesa locale deve soprattutto manifestarsi nell'azione missionaria. I modi possibili sono certamente più d'uno. La Chiesa che è in Italia ha privilegiato la via della cooperazione tra le Chiese, e così anche la nostra diocesi. Una scelta che non si può non condividere. L'importante, però, è che la scelta di una sollecitudine particolare -le nostre due missioni- sia veramente segno di concreta universalità. Il termine “segno” dice nel contempo l'importanza e l'insufficienza.

L'importanza, perché segno dice visibilità e concretezza. L'avere scelto come “nostre” due missioni costringe la diocesi ad uscire da una sollecitudine generica, che per preoccuparsi di tutti rischierebbe di non preoccuparsi di nessuno. Le nostre missioni sono il segno di una responsabilità precisa e diretta.

L’insufficienza, perché il segno di sua natura rinvia oltre. Le nostre due missioni non sono l'universalità della nostra Chiesa, ma solo un segno di essa. La verità del segno è di non esaurirsi in se stesso, di non rinchiudere, ma di rinviare. Preoccuparsi soltanto di due parrocchie in più non è universalità. Le due missioni ci costringono ad aprire gli occhi sui problemi delle altre Chiese, sulla povertà dei popoli del mondo povero, sull'urgenza dell'annuncio di Gesù Cristo. Ma una volta che gli occhi si sono aperti, resi attenti, non possono non accorgersi che gli stessi problemi e le stesse urgenze sono anche altrove.

E’ così che la scelta di una missione particolare non chiude l'universalità, ma la dilata. Gli stessi missionari animano veramente la Chiesa locale solo se trovano il modo di ricordarle che i loro bisogni non sono soltanto loro. Neppure il missionario ha il diritto di rinchiudersi nel luogo in cui ha scelto di fare missione. E il segno concreto della sua universalità è il coraggio di dire: non pensate solo alla mia missione, ma anche alle altre.

  LA MISSIONE

  Ma che cosa intendiamo per missione? Siamo sicuri di intendere tutti la stessa cosa e non invece cose diverse? EÂ’ bene partire da una convinzione teologica elementare, la quale, proprio perché elementare, costituisce un irrinunciabile fondamento: la missione precede i missionari e precede la Chiesa stessa. Non spetta al missionario, né alla Chiesa, decidere che cosa sia missione, perché il volto della missione è già stato delineato da Gesù Cristo. A noi spetta la genialità dellÂ’attualizzazione, non la fantasia dell'invenzione. Le stesse esigenze dei luoghi di missione -esigenze culturali, sociali o altro- possono suggerire alcune modalità della missione, ma non mutarne la natura. Non è guardando anzitutto agli uomini che si comprende quale missione, ma guardando Gesù Cristo. EÂ’ nella memoria del suo evento che troviamo con chiarezza il contenuto della missione, lo stile, e la motivazione. Non c'è autentica missione senza memoria e obbedienza. A nessun missionario può andare autonomamente, a nome proprio. E nessun missionario ha il diritto di dire parole sue, bensì solo parole sentite, parole già dette. Il diritto e la forza del missionario poggiano unicamente sull'autorevolezza della rivelazione di Gesù. Il missionario 'è autorevole nella misura in cui è obbediente.

Si comprende, a questo punto, che le implicazioni sono molte, persino ovvie, ma non di poco conto. Contenuto essenziale della missione -direttamente o indirettamente, alle volte impedito o differito, ma mai rinunciato- resta sempre la rivelazione di Dio che si è manifestata in Gesù Cristo, la sua verità su Dio e sull'uomo, la sua salvezza. Lo stile della missione è il dialogo, ma il contenuto essenziale della missione non è dialogabile. Dio si è incarnato in Gesù di Nazaret e non altrove, né prima né dopo, in quel modo e non in un altro. Per questo il cuore della missione -resta in ogni caso l'annuncio.

  LO STILE DELLA MISSIONE

  Queste osservazioni possono sembrare drastiche, radicali, probabilmente a qualcuno anche unilaterali. Tuttavia sono sempre più convinto che si tratta dei fondamenti. Non si abbia paura: non giustificano alcuna arroganza, né alcuna imposizione. Al contrario, sono ragioni di chiarezza e, insieme, di rispetto, di pazienza, di accoglienza e di libertà.

Nella fedeltà alla memoria di Gesù, infatti, il missionario non soltanto scorge il contenuto della sua azione missionaria, ma anche -e con altrettanta forza- lo stile della vera missionarietà. E’ lo stile dell’incarnazione, che non assomiglia alla violenza che irrompe dall'esterno e stravolge, ma alla rispettosa umiltà del seme che germoglia pazientemente dall’interno. Che le comunità e i missionari si ricordino sempre che il loro compito è di gettare il seme, non di piantare gli alberi! La virtù del contadino che semina è la pazienza dei tempi lunghi.

Paradossalmente, la missione può incepparsi anche per troppa generosità: una generosità impaziente, che nasconde la sottile arroganza di sostituirsi ai tempi di Dio e della storia. EÂ’ la generosità di chi annega  nelle emergenze senza trovare mai la distanza necessaria per andare alla radice.

Stile di incarnazione significa anche rispetto e accoglienza di tutto ciò che è veramente umano, dovunque si trovi. Mi commuovo sempre quando incontro dei missionari che sono rispettosi della cultura di un popolo al punto da custodirla più di quanto faccia il popolo stesso. Anche questa è una traccia della memoria di Gesù. Il Figlio di Dio ha rispettato la nostra umanità più di quanto noi facciamo, e l'ha amorevolmente custodita più di quanto noi la custodiamo.

  LA DIREZIONE DELLA MISSIONE

  La memoria di Gesù, oltre al contenuto e allo stile, suggerisce anche una precisa direzione, la cui nota qualificante è ancora una volta l'universalità. Il missionario può anche fermarsi in un posto solo, in un posto piccolo, ma sempre per aprirlo al mondo. E se anche vive tra i poveri, non può dimenticare di dire loro che ci sono altri, tanti altri, poveri come loro, o più di loro. Anche il povero è chiamato al dono di sé, come la vedova del vangelo.

Si è soliti dire che la missione deve passare dallÂ’aiuto allo scambio. Questo è verissimo. Ma forse è bene accompagnare questa affermazione con un'altra: dall'aiuto al dono di, sé. Lo scambio sottolinea la reciprocità, e ricorda che la missione non assomiglia al gesto del ricco che dà al povero. Il dono di sé sottolinea la gratuità, la totalità e la definitività. La missione mette in gioco la persona, non le cose. Il dono del superfluo non è ancora la traccia di Dio, non è la vera memoria di Gesù. Egli ha dato tutto se stesso. Il superfluo, invece, è semplicemente ciò che avanza, qualcosa che lascia intatta la vita, che rimane al sicuro. La vedova del vangelo ha dato tutto quanto possedeva, e ha perciò messo in gioco tutta la sua esistenza.

Il dono di sé è vero, se è per sempre. Il segno della sua verità è la definitività. Uno può stare in missione anche solo due anni, ma quei due anni devono essere il segno che la sua vita è diventata missionaria per sempre. Può tornare, può cambiare luogo, ma il modo di gestire la vita resta il medesimo!

LE MOTIVAZIONI DELLA MISSIONE

  Ma quali sono i veri motivi che spingono ad annunciare Gesù Cristo?  La domanda è cruciale, ma la risposta che so dare è semplice, persino ovvia.  Le ragioni per annunciare Gesù Cristo sono tutte racchiuse nello spettacolo della sua vita.  E sono la bellezza, la verità e l'amore.  Tre cose che non stanno ferme. Quando ti imbatti in un cosa bella, tu la racconti.  E quando ti imbatti in una cosa vera, tu la dici. E se hai capito che la storia di Gesù è come un lampo che ha illuminato per sempre il cammino del mondo e dell'uomo dandogli un senso, allora tu lo racconti a tutti.  Non puoi farne a meno.  E se l'incontro con Gesù Cristo ha cambiato la tua esistenza dandole forza,direzione,gioia di vivere, allora tu inviti gli amici a condividerla.

Non c'è forza missionaria semplicemente in un vangelo per sentito dire, né c'è forza missionaria in un incarico sentito come un ordine che sopravviene dall'esterno.  La missione nasce unicamente dal di dentro. Sappiamo che la salvezza di Dio è più larga della conoscenza: di Gesù Cristo.  Tuttavia è missionario solo chi ha capito che il conoscere Gesù e il non conoscerlo non è la stessa cosa.  In ogni caso, utile o no, non puoi non raccontare a tutti che Dio ha fatto tutti.

AD GENTES

  EÂ’ abituale, oggi, usare la parola missione per un ventaglio assai ampio di cose: è missione anche l'esercizio della propria professione, l'educazione dei figli, l'attività in parrocchia.  Quest'uso molteplice del termine svela un'importante verità, e cioè che dietro la varietà dei molti impegni c'è un'anima comune, che è la testimonianza.  Ma c'è anche il rischio di perdere il senso forte della missione.

La missione per eccellenza quella a partire dalla quale si comprendono le altre resta la missione “ad gentes”.  Certo non si regge da sola, o staccata, perché ha bisogno di un tronco che la fa vivere. Ma è la punta più alta, più esposta, che meglio esprime la vitalità e la giovinezza dell'albero. EÂ’in essa che si scorgono con più chiarezza le strutture fondamentali di ogni missionarietà: per esempio l'esodo. l'annuncio e universalità.

  Ogni cristiano è chiamato a staccarsi da sé e dal proprio per andare verso il nuovo e l'altro.  Il missionario “ad gentes” si stacca dal suo mondo e dalla sua cultura per avvicinarsi a un mondo diverso.  Naturalmente l'esodo non si misura sulla distanza geografica (che pure resta un segno), ma culturale e religiosa. E non si misura sul dare (si può dare, infatti, restando all'esterno, senza uscire da sé), ma nel capire e nel lasciarsi coinvolgere.

L'annuncio di Gesù Cristo è sempre nuovo, anche là dove già è conosciuto. La sua novità,, infatti non è temporale, ma qualitativa.  Tuttavia è là dove il suo annuncio risuona per la prima volta che esso mostra con più chiarezza la sua carica rinnovatrice.  Un'esperienza, questa, che il missionario -non deve tenere per sé, ma comunicare alla sua Chiesa, che incorre sempre nel rischio dellÂ’abitudine.

I missionari ad gentes hanno due compiti, non uno: annunciare Cristo a tutti i popoli e ringiovanire le comunità da cui sono partiti.  Per questo i missionari devono sempre andare e ritornare, e devono sapere che il ritornare è importante quanto l'andare.

L'universalità è una dimensione che ogni forma di vita cristiana, e l' ho già detto.  Ma è importante riconoscere che di questa universalità la missione ad gentes è il segno più visibile, quasi la prova del nove della cattolicità di una Chiesa: la prova, in altre parole, della verità della sua generosità, della sua convinzione che Cristo è la salvezza di ogni uomo, della sua capacità di trasformare ogni cultura senza violentarla.

 

tratto da ATTUALITA' DELLA MISSIONE a cura di MISSIONE OGGI

(Parte di questo discorso è ripreso da un mio articolo apparso in Rivista del Clero Italiano 3, 1989.  Suggerisco la lettura di L. Aionso Schokei, Il dinamismo della tradizione, Paideia, Brescia 1970,105-176; V. Mannucci, Bibbia come Parola di Dio, Queriniana, Brescia 1981, 308-319; 1. De La Potterie, L'interpretazione della Sacra Scrittura, in R. Latourelle (a cura), Vaticano IL Bilancio e prospettive, voi. 1, Assisi 1987, 204-24?).

 

 

 

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