Cerro de Pasco, agosto 2001
Caro
Mosè, dopo tanti anni quassù m’è venuta voglia di raccontarti
un po’ di questa terra che un po’ conosci e che so che apprezzi.
Riparto dalla domanda che mi hai fatto nella tua ultima lettera:
cos’è per te Cerro de Pasco? Che significa?
Cerro
de Pasco: un’altezza enorme (4380m), un’immagine,
una città, un popolo e soprattutto … uno stile di vita,
una filosofia di vita. Così posso definire la mia
esperienza durante questi
sedici anni a Cerro de Pasco, quassù tra i minatori e dentro le
vene di una città viva e che grazie a te posso oggi far conoscere a
molti altri amici. Una vita “vissuta” intensamente, fatta di
piccole lotte quotidiane in favore della vita, fatta di sogni, di
umanità, di calore umano, di abbracci di un popolo che vuol vivere
la sua utopia nella vita di ogni giorno. Magari senza saperlo. Però i giorni di vita di questa
città sono giorni di speranza, di ascolto, di incontri, di continue
provocazioni che mi convertono, di volti, di celebrazioni … tutto
perché il vivere è qualcosa di attivo e non tanto una ricerca
angosciosa di significato, perché è qualcosa che non si osa più
da soli ma insieme. Insomma un
tempo infinito di resistenza (i 500 anni di resistenza di
un popolo diventano esperienza tutti i giorni quassù) dove si
ricomincia sempre insieme, tutti i giorni (anche se le nostre
autorità non l’hanno capito) per restituire dignità a questa
città continuamente depredata, scavata fin dentro le sue vene,
vituperata e spogliata delle sue ricchezze ma allo stesso tempo
amata e vezzeggiata da molti perché ci fa scoprire ogni giorno la
sua utopia di vita.
Cerro
de Pasco, caro Mosè, in primo luogo è la sua gente. Procopio, Wendy, il sig. Bajonero,
Maria, Eva, il dott. Mosè, don Saverio (don vuol dire signor),
Mariela, Edith e Fernando… , i suoi giovani, le sue donne, gli
anziani e i bambini che quando ti baciano ti “smoccolano tutto”,
i minatori… tutti “artigiani” della vita prima ancora di
esserlo della miniera. Può sembrare una contraddizione ma è
proprio così: quassù la vita vale pochissimo. Possiamo
domandarlo a “Patòn” che ne ha ammazzati molti o li ha
assaltati. O lo chiediamo alla miniera, visto che sono quelli della Volcan
Spa che decidono la vita e la morte di questa gente. O ai
funzionari corrotti, ai poliziotti che non sempre fanno il loro
dovere, ecc. Eppure questa vita calpestata produce sempre più
costruttori per la vita: sono fini tessitori dell’arte del vivere
di ogni giorno. I bambini di strada, i lavoratori del triciclo, i
venditori ambulanti, i taxisti, ecc. Loro sono i più diretti
testimoni di quest’arte di vivere. I
problemi, le tensioni, la voglia di essere riconosciuti come esseri
umani, il ritagliarsi uno spazio per aver diritto a vivere, le
paure, la violenza, la rudezza di chi entra ed esce dalla miniera, i volti di chi non si sente escluso dalla vita ma che
ogni giorno si sente vivo e che ha molto da dare.
Sì,
Cerro de Pasco è prima di tutto il suo popolo con i suoi volti e i suoi
gesti, perché a Cerro de Pasco niente e nessuno si perde. Tutto
serve. Tutto parla di vita, anche la stessa morte o i
fiumi arancioni a causa degli scarichi della miniera. Chi arriva
quassù ritrova se stesso, la voglia di vivere, i veri valori della
vita, il gusto di essere nella mischia, l’orizzonte, il senso.
In questi giorni sto leggendo un libretto di Gabriele Poli
arrivatomi per caso. Racconta il suo viaggio in Perù. Appena
arrivato a Cerro de Pasco riprende il primo taxi e se ne va dicendo:
“…non c’è niente di interessante”. Mi sono vergognato di
essere italiano di fronte ad un’ignoranza come la sua. Si vede che
non ha capito niente. Se si fosse fermato, avrebbe cambiato molto
della sua vita, come del resto è cambiata la mia. Turisti
stupidi!!!
La
calma di questo popolo, il loro ritmo, le loro sfide davanti a tutto
quello che di difficile presenta la vita sono un richiamo costante
al linguaggio di un popolo che vive e trasforma la realtà. Tutto
parla di vita e grida vita. Perfino gli ubriaconi che litigano tutto
il giorno davanti al cimitero o che pisciano in qualsiasi posto, i
giochi dei bambini, la superlentissima burocrazia e l’allegria dei
giovani stupendi, la dignità di molti e la povertà per non dire la
miseria di moltissimi… tutto chiama e
reclama VITA. Molti poi si impegnano per aiutarla, per
difenderla e per farla
crescere.
Molti,
in questo popolo di “formiche operaie della vita”, rimpiazzano i
giganti assenti da sempre. Per esempio mi ha colpito
molto in questi giorni l’esempio della gente che di fronte alla
crisi nazionale, al cambio che si sta producendo, non ha tempo per
le depressioni. Qui la gente non si sente in crisi.
Qui si parla poco di crisi.
Forse si parla molto del freddo in questi giorni, ma… nonostante
la crisi, chi ha tempo di fermarsi e di lamentarsi? La parola crisi
è stata tolta dal vocabolario di questa città e di questo popolo. C’è da lottare e non c’è tempo
per piagnucolare. “Gastes polvora en gallinazos”
dice un proverbio (Non perdere tempo in cose inutili), non buttare
energie… non fa parte dell’identità di questo popolo: qui si vive e basta. E che sia una vita
PIENA.
Caro
Mosè, sorrido pensando alle facce che mi hanno guardato in questi
ultimi anni. Sorrido tornando a vivere le risate allegre e la gioia
che ho assaporato davanti a molti uomini e bambini. Sorrido di
fronte alla stanchezza che ho sperimentato dopo molte giornate di
lotta, gomito a gomito con la gente, per difendere la vita. Assaporo
ancora una volta la rabbia di molti giovani senza lavoro. O le linee
dure del volto dei minatori che tornano a casa dopo essere stati
spremuti come limoni dalla miniera che “vuol produrre”. Produrre,
produrre, produrre. E loro tornano stanchi ma non vinti.
Mi viene rabbia davanti all’incapacità delle nostre autorità
locali, autorità del passato, del presente e del futuro, incapaci
di dare risposte ai mille interrogativi della vita che si vive quassù.
Perfino gusto le lotte di strada, le tensioni della gente che si
sforza, lotta
disperatamente per un pane. Assaggio i sorrisi distribuiti a piene
mani e frutto di un cuore semplice… Partecipo alla supplica di
quella giovane mamma che insiste perché si aiuti il suo bambino.
Sedici anni, abbandonata dal convivente, con in braccio il suo
bambino di due anni. Non guarda alle apparenze, non veste di lusso o
in maniera stravagante, non può perdere tempo nel curare la sua
figura femminile… tutto questo non serve per vivere. Infatti la
sua vita traspare dai suoi occhi profondi, dalla sua vocina timida,
dal suo esporsi per suo figlio, questo fardello di vita fra le
mani…con il suo tesoro prezioso. Lui, quel bambino senza papà, è
la sua dignità proclamata dal frutto del suo grembo; lui e la sua
estasi di vita che sboccia da ogni suo gesto, figlio della precarietà
ma non della disperazione. Infatti, dice la sapienza popolare, ogni
bambino nasce con il suo panino sotto il braccio… Questa
è la voglia di vivere!
Adoro
l’ubriaco che mi abbraccia, riempiendo la mia faccia di tanfo di
liquore a poco prezzo e di saliva, e che da tutti i pori della pelle
emana un odore di ‘sudicio’ e di dignità nascosta. E mi vuol
parlare anche se le parole gli salgono smozzate e mal pronunciate. E
che magari per non poter dire di più mi bacia le mani chiedendo
scusa e invocando una benedizione.
Ecco,
Cerro de Pasco è
una filosofia di vita. Qui c’è una scuola permanente
di vita, qui c’è una spinta e un entusiasmo unico per vivere, già
che è difficile essere e vivere quassù. Per questo, dalle vene di
questa città, le sue gallerie sotterranee sommano 40.000 Km, dalle
sue montagne che la circondano, e dai minerali che da qui si
estraggono, dai cuori e dalle menti di questa gente, dalle vite di
tutti, dalla sapienza frutto di esperienza millenaria, c’è tutta
una logica nuova che emana. Una logica di vita, che contagia e che insegna a vivere,
frutto del restare e r…esistere qui in modo costante, caparbio e
tenace. Non si corre con la frenesia delle città e
metropoli occidentali. Impossibile, sia per l’altezza dei 4.380 m,
sia per il clima freddo. Però quassù tutto è intenso, perfino il
respirare. La vita a Cerro de Pasco è una cultura prima di tutto:
una cultura che si
scontra con la morte e la violenza, che produce resistenza.
Perché Cerro
de Pasco è speranza che in altre parti già si è persa,
visto che per vivere quassù ci vuole molta speranza nel cuore.
Cerro de Pasco è infine un incontro, continuo, insistente,
obbligatorio, con la vita per chi ha sfidato la natura stessa.
E
Cerro de Pasco è anche una scuola permanente. “Qui si impara a vivere”:
il messaggio esplicito che si legge sui volti e nell’agire della
gente. Qui si insegna a vivere, ad ascoltare, ad umanizzare la vita,
e il colore del grido assume caratteristiche reali che si
manifestano come eterni slogan: “Lasciateci
vivere, siamo persone, siamo
utopia, siamo un popolo e quotidianamente benediciamo
l’esistenza”. “No! Non stiamo morendo, stiamo vivendo. Qui si offre la vita”.
Perché
Cerro de Pasco è prima di tutto una cultura di vita che si scontra
quotidianamente con la morte e la violenza, che ti obbliga a
resistere perché questa città è una speranza, visto che vivere qui richiede molta umanità.
Cerro
de Pasco è un campo di
incontro continuo, insistente, obbligatorio per chi ha sfidato la
natura stessa. Si arriva a Cerro de Pasco nudi, anche se fa freddo,
per metterti di fronte agli altri che ti provocano, che mettono in
discussione il tuo stile di vita, il tuo modo di pensare, le tue
sicurezze e i tuoi punti saldi. Non
si viene quassù per “vedere qualcosa”, ma per imparare
ad essere “qualcuno”. Qui puoi solo imparare
ad essere, o anche solo ad esistere. Di fronte ad una mentalità di
produzione, questa città ti ridona la dignità. Di
fronte alla violenza del vivere, questa città ti offre il fatto che
siamo importanti, esistiamo, abbiamo un’utopia, siamo volti,
storie, luoghi di vita, di pellegrinaggi interiori, di cammini di
dignità e non di schiavi, luoghi di dignità e di amore, positivi
perché tutto è teso a scoprire la vita.
Questo
è Cerro de Pasco. Questa è la città che ho visto e respirato. Per
questo sento forte il dovere e allo stesso tempo la responsabilità di imparare a VEDERE, ASCOLTARE,
SENTIRE. Percorrere le strade, incontrare la gente,
comprare i suoi prodotti , riconoscere la sua storia e tradizione,
avere il suo coraggio, respirare la sua polvere, imbrattarsi dello
stesso fango…tutto ci espone alla prova della vita.
Questo è un laboratorio dell’utopia
e le tre parole che ti lascio sono quelle “chiave”
per me:
BUTTARSI:
essere straordinari
nel quotidiano, nelle piccolo cose della vita, in modo
che le paure non siano più grandi dell’amore. Le paure che ci attanagliano, in Cerro de Pasco si
trasformano in azioni, in gesti solidali, in porte e
finestre che si aprono, in braccia che ti stringono. Se sei onesto
con te stesso, i pregiudizi, le reti, le barriere, le maglie che ci
si mette come protezione non possono vincere la forza della vita.
Buttarsi per vivere.
Un TEMPO: ora e non domani, in questo preciso istante,
senza posticipare per il giorno che verrà. Vivere il presente,
scoprire ciò che offre questa città, le sue possibilità, e le sue
opzioni.
NUOVO:
occhi
nuovi, cuore
nuovo, mentalità
nuova, diversi.
Tutto ci obbliga ad una trasformazione partendo da un gesto di
fedeltà a questa città e al suo popolo. Coerenti con la vita che ci chiama a riconoscere,
a scegliere, a spezzarci, a condividere. Essere capaci di vivere. È
la tua ora, è il tuo tempo. E ora tocca a te.
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