Bari, 29 gennaio 2000

Presso Missionari Comboniani

Via Giulio Petroni, 101

Bari

Introduzione

A nome dell’Associazione "Un solo mondo", dell’Associazione "Oasi" e dei Missionari Comboniani vi do il più cordiale benvenuto.

La conferenza di questa sera, con il titolo: "Giubileo: Consacrazione o Critica della Globalizzazione Capitalistica?", vuole essere una provocazione per riflettere sul senso profondo del giubileo a partire dai poveri, dagli emarginati, dagli ultimi che il sistema neoliberista ha prodotto in in tutte le società, in modo particolare, nei paesi del Sud del mondo.

Richiamare alla nostra memoria il Giubileo, come forma di prossimità agli ultimi, è vivere, in prima istanza, un impegno per la giustizia e per la vita di tutti coloro che vita non hanno. Un impegno per:

Quindi, il giubileo, non potrà essere l’esaltazione di un certo cristianesimo, o semplicemente un insieme di visite e di celebrazioni liturgiche slegate dalle grandi problematiche che affliggono, oggi, l’umanità. Sarebbe un rinnegare la tradizione biblica e rendersi complici delle attuali logiche di oppressione che genera la globalizzazione.

Siamo conviti che se vogliamo essere alternativi dobbiamo organizzarci. Un’organizzazione che parta dal basso, dai movimenti popolari. E’ l’obiettivo della Rete di Lilliput. A questo punto vorrei spendere due parole per dire di che cosa si tratta.

Nel libro: "Contro il Capitale Globale", Jeremy Brecher e Tim Costello, attraverso la favola satirica: I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift -, parlano della strategia lillipuziana come un modo per opporsi e coordinarsi efficacemente dal basso, in modo da:

La strategia lillipuziana parte dal presupposto che, per controllare il saccheggio globale, è necessario che i molteplici fili d’azione siano capaci di unirsi a livello planetario. Vorrei lanciare, questa sera, l’invito a tutte le associazioni interessate a stendere con noi i fili della "Rete di Lilliput", il 23 febbraio, alle ore 21.00, presso questa stessa sede per iniziare a concretizzare questa strategia nella città di Bari in sintonia con le altre realtà nazionali.

Riteniamo che la presenza del Prof. Girardi, questa sera, possa dare, a partire dalla sua riflessione teologica e filosofica, e grazie alla sua esperienza tra gli ultimi, un valido contributo per aiutarci a vivere la giusta dimensione del "giubileo popolare".

Nato nel 1926 a Il Cairo (Egitto) da padre italiano e da madre sirolibanese.

Nel 1939, avendo chiesto di diventare salesiano, viene inviato in Italia.

A Torino e a Roma frequenta l’università di Filosofia e Teologia.

E’ ordinato sacerdote nel 1955.

Ha insegnato filosofia nell’università salesiana di Torino e Roma (19 anni), nell’università cattolica di Parigi (6 anni) e nell’istituto superiore Lumen Vitae di Bruxelles (4 anni).

Espulso da queste istituzioni e poi dalla congregazione salesiana, è sospeso a divinis per le sue scelte politiche e ideologiche.

Dal 1978 al 1996, è stato professore di filosofia politica presso l’università di Sassari (Sardegna).

E’ in pensione dal 1996.

Filosofo e teologo della liberazione, è impegnato da sempre nella solidarietà con l’America Latina, particolarmente con il Nicaragua, Cuba e il movimento indigeno.

E’ stato membro del Tribunale Russell II ed è membro del tibunale permanente dei popoli fin dalla sua fondazione nel 1976.

Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo:

Marxismo e cristianesimo. (Cittadella, 1966)

Credenti e non credenti per un mondo nuovo. (Cittadella, 1969)

Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe. (Cittadella, 1971)

L’ateismo comteporaneo. (SEI , Torino 1967-70)

Cristiani per il socialismo, perché? (Cittadella, 1975)

Educare: per quale società? (Cittadella, 1975)

Fede cristiana e materialismo storico. (Borla, 1977)

Coscienza operaia oggi. (De Donato, 1980)

La tunica lacerata. (Borla, 1986)

Il popolo prende la parola. Il Nicaragua per la teologia della liberazione. (Borla, 1990)

Comunità di S. Benedetto al Porto. Dalla dipendenza alla pratica della libertà. Una comunità di accoglienza s’interoga e interroga. (Coordinata da G. Girardi, Borla, 1990)

La conquista dell’America. Dalla parte dei vinti. (Borla, 1992)

Il Tempio condanna il Vangelo: il conflitto sulla Teologia della Liberazione fra il Vaticano e la Clar. (Edizioni Cultura della pace. San Domenico di Fiesole, 1993)

Gli esclusi costruiranno la nuova storia? (Borla, 1994)

Cuba dopo il crollo del comunismo. (Borla, 1995)

Cuba dopo la visita del papa. Marxismi, cristianesimi ,religioni afroamericane alle soglie del terzo millennio. (Borla, 1999)

Riscoprire Gandhi. La violenza è l’ultima parola della storia. (Anterem, 1999)

A questo punto non mi resta che lasciare la parola al Prof. Girardi.

 

GIUBILEO 2000: CONSACRAZIONE O DENUNCIA DELLA GLOBALIZZAZAIONE CAPITALISTA?

 

Professor Giulio Girardi

 

La domanda che ho posto al centro della riflessione sul giubileo, "consacrazione o denuncia della globalizzazione capitalista?" sorprenderà forse qualcuno. Giubileo e globalizzazione sembrano infatti appartenere a due ordini diversi, anzi incommensurabili. Il giubileo vuol essere una celebrazione essenzialmente spirituale, quindi apolitica; la globalizzazione capitalista è un processo economico e politico.Vorrei quindi chiarire il senso del dilemma approfondendo il rapporto fra questa celebrazione e questo processo.

Il primo problema che incontriamo su questa strada è appunto la definizione del giubileo cattolico. Di questo evento, Giovanni Paolo II ha compiuto una presentazione ufficiale nella Lettera apostolica, datata dal 10 novembre 1994, con cui ha avviato la sua preparazione.Essa vede il giubileo essenzialmente come una riaffermazione, a duemila anni dall’inzio della cosiddetta era cristiana, della centralità del cristianesimo nel passato e nel futuro del mondo: dove il cristianesimo viene identificato sostanzialmente con la chiesa cattolica romana.

Ma, ed è questo un segno dei tempi, è nata dalla base cristiana una interpretazione diversa e in larga misura opposta a quella ufficiale: questa interpretazione si diffonde tra le comunità cristiane, ispirando la loro riflessione e le loro iniziative, valorizzando gli spazi aperti dalle celebrazioni ufficiali, abitualmente però senza esplicitare il contrasto tra le due interpretazioni del giubileo. La domanda invece che abbiamo sollevato, consacrazione o denuncia della globalizzazione capitalista, ci impone di esplicitare tale contrasto nei suoi aspetti teologici e nelle sue implicazioni economiche e politiche.

In effetti, l’interpretazione "popolare" del giubileo assume come centro di

prospettiva e come progetto fondamentale per il terzo millennio la liberazione dei popoli oppressi. Ma riconoscere questa centralità alla luce della fede cristiana significa inevitabilmente denunciare le alleanze passate e presenti del cristianesimo con i poteri oppressori e quindi le sue complicità nella genesi dei rapporti di dominio che caratterizzano la civiltà occidentale, particolarmente i processi di globalizzazione neoliberale. Significa , in altre parole riconoscere che di fronte alla crisi di civiltà che attraversiamo, contrariamente a quanto proclamano le autorità ecclesiastiche, il cristianesimo gerarchico è parte del problema e non della soluzione.

Questo giudizio fortemente critico nei confronti del cristianesimo è però formulato da molti cristiani proprio in nome della loro fede; di questa fede rinnovata dal coinvolgimento nelle lotte di liberazione delle persone e dei popoli; di questa fede quindi che riscopre la sua sorgente nel messaggio sovversivo di Gesù e nelle testimonianze dei suoi primi discepoli. Per cui il giubileo popolare non vuol essere un’esaltazione del cristianesimo storico, ma da un lato, la denuncia del tradimento che esso rappresenta e dall’altro la riscoperta del movimento di Gesù, considerato non come la soluzione ai problemi del nostro tempo, ma come una ricca sorgente d’ispirazione della ricerca.

Abbiamo così chiarito, mi pare, il senso del dilemma che vorrebbe provocare la nostra riflessione: il giubileo 2000 consacrazione o denuncia della globalizzazione capitalista? Se infatti il giubileo istituzionale, esaltando il cristianesimo storico, diventa una consacrazione del processo di globalizzazione imperiale, in cui esso è coinvolto, il giubileo popolare rappresenterà un impegno straordinario dei cristiani per la riscoperta ed attualizzazione del cristianesimo originario e al tempo stesso, nella stessa logica, una loro mobilitazione , al fianco di tutti i combattenti per la libertà, per l’istaurazione di una nuova civiltà. Scopriamo così lo stretto legame fra interpretazioni del giubileo, concezioni del cristianesimo e progetti di civiltà.

 

Il quinto centenario, celebrazione o contestazione radicale?

Un punto di partenza molto illuminante per cogliere il senso di questo contrasto è il conflitto che esplose in occasione del V centenario della cosiddetta "scoperta dell’America" e della cosiddetta "prima evangelizzazione" del continente. Si contrapposero allora due interpretazioni: il centenario celebrazione e il centenario contestazione radicale. Propugnavano la celebrazione la Spagna, l’Italia e le altre potenze del Nord, che guardano la storia dal punto di vista dei conquistatori; che, pertanto, considerano la "scoperta dell’America" come un "incontro di culture" e come uno straordinario progresso nella storia della civiltà. Propugnava la celebrazione anche la gerarchia cattolica, che preparò il ’92 con un solenne novenario (di nov e anni). Essa infatti , guardando la storia dal punto di vista del suo proprio progresso, percepiva nella "prima evangelizzazione" l’apertura di orizzonti nuovi ed immensi alla diffusione del cristianesimo ed all’affermazione del potere ecclesiastico nel mondo.

Il punto di vista della gerarchia cattolica coincideva quindi con quello dei conquistatori di ieri e di oggi nel considerare quella svolta storica essenzialmente come un progresso. Anzi, Giovanni Paolo II proclamò allora apertamente la continuità tra la "prima evangelizzazione" , quella dei conquistatori, e la "nuova evangelizzazione", promossa dalla chiesa di oggi.

Inv ece, qualunque celebrazione fu respinta con indignazione dagli indigeni coscientizzati e ribelli. Essi innescarono la "campagna continentale 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare", proclamando: "Non abbiamo nulla da celebrare. Ciò che per i conquistatori rappresenta un grande progresso è stato per noi l’inizio del genocidio fisico, politico, economico, culturale e religioso." I cristiani, cattolici ed evangelici, che si ispirano alla teologia della liberazione, non ebbero dubbi nell’assumere, alla luce della loro scelta per gli oppressi come soggetti, il punto di vista della resistenza indigena, negra e popolare: questa presa di posizione si espresse in moltissime esperienze di base e particolarmente nel movimento macroecumenico denominato "assemblea del popolo di Dio". Al fianco della resistenza indigena, negra e popolare, noi denunciammo la conquista come un delitto di lesa umanità, destinato a perpetuarsi nei rapporti di dominio che hanno caratterizzato la modernità. Denunciammo anche la "prima evangelizzazione" per la sua complicità con questo crimine e per la mistificazione del vangelo che essa rappresentò, soffocandone la carica liberatrice e trasformandolo in strumento di colonizzazione, di asservimento e di rassegnazione.

Il conflitto esploso nel ’92 tra due orientamenti nei confronti del quinto centenario era quindi espressione di due contrastanti interpretazionidel messaggio cristiano, imperniate rispettivamente sulla centralità della chiesa gerarchica e la centralità dei popoli oppressi. Il segno di contraddizione tra i due modelli di cristianesimo era il diritto di autodeterminazione solidaria dei popoli oppressi, che la teologia della cristianità negava in nome del diritto sovrano di Dio , mentre la teologia della liberazione era impegnata a difenderlo., come espressione della sua scelta di campo per gli oppressi come soggetti.. Pertanto i due modelli di cristianesimo erano coerenti con due progetti antagonisti di civiltà, imperniati il primo su rapporti di dominio tra i popoli, il secondo sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione solidale.

Il giubileo 2000, esaltazione o contestazione del cristianesimo istituzionale?

Desidero ora mostrare come il conflitto esploso nel 92 intorno alla celebrazione del V centenario si stia riproducendo oggi a proposito della celebrazione giubilare e delle sue implicazioni.E’ infatti evidente la profonda continuità tra i due avvenimenti. Nel ’92 si trattava di celebrare i 500 anni di evangelizzazione dell’America Latina; nel 2000 si tratta di celebrare i 2000 anni di evangelizzazione del mondo: ora tra gli ultimi 500 anni e i 1500 che li hanno preparati esiste una sostanziale continuità, particolarmente evidente a partire dalla svolta costantininana. E’ inoltre naturale che i criteri , centralità della chiesa o centralità dei popoli oppressi, con cui venne formulata la valutazione cristiana dei 500 anni rimangano vigenti quando ad essere valutati sono i duemila anni di questa civiltà.

Abbiamo ora gli elementi per cogliere il senso della lotta ideologica e teologica in atto all’interno delle celebrazioni giubilari. Per Giovanni Paolo II, come abbiamo ricordato, esse sono destinate ad essere fondamentalmente un solenne riconoscimento della centralità storica dell’evangelizzazione e quindi , in particolare, della chiesa cattolica romana, che ne è la protagonista. L’afflusso a Roma , a Piazza San Pietro, di pellegrini di tutto il mondo, è l’espressione reale e simbolica di questo riconoscimento. A Roma si celebrerà il congresso eucaristico mondiale; a Roma e intorno a Roma si compiranno le più importanti manifestazioni di ecumenismo.

L’evangelizzazione di cui si tratta di riconoscere la centralità e che viene assunta come criterio nella valutazione delle civiltà è quella che la chiesa ha compiuto storicamente, sulla base delle sue alleanze con il trono: con l’impero romano prima, con i vari imperi cristiani lungo il medio evo, con i conquistatori e colonialisti dell’età moderna, con le potenze occidentali nella lotta anticomunista contemporanea.

Secondo Giovanni Paolo II, le grandi tappe della storia umana sono segnate in ogni popolo e continente dal "cammino di Cristo", cioè dall'evangelizzazione; in funzione della loro fedeltà o infedeltà all’evangelizzazione vengono valutate le varie civiltà. Essa è sempre considerata un grande progresso, anzi una nuova nascita, come è avvenuto tipicamente, pensa il papa, per quanto riguarda l'America Latina. In nessun momento egli allude al fatto che l' evangelizzazione ha spesso coinciso con la conquista e la colonizzazione; che essa quindi non è stata allora un annunzio di liberazione, ma uno strumento di asservimento e di soffocamento dei popoli. Nessun accenno egli dedica, nel bilancio dei due millenni, al ruolo storico assolto dal cristianesmo come legittimazione dei rapporti di dominio e quindi nella genesi dell'attuale divisione del mondo. In nessun momento pertanto egli prospetta la necessità che la stessa evangelizzazione sia sottoposta, dal punto di vista etico e religioso , dal punto di vista evangelico, ad un giudizio critico.

Valutata con il criterio ecclesiocentrco, la storia occidentale, attraversata da luci ed ombre, è però fondamentalmente luminosa, perché illuminata dalla "luce di Cristo"; così la storia di ognuno dei popoli occidentali, al cui centro si trova il momento nel quale essi vennero investiti da questa luce. Con tale criterio, il papa, in occasione della sua visita a Cuba, ha interpretato la storia di quel popolo, dimenticando il fatto, discretamente segnalato da Fidel Castro nel suo discorso di benvenuto, che la cosiddetta "luce di Cristo"aveva accompagnato e in qualche modo giustificato il genocidio delle popolazioni originarie dell’isola.

Inoltre, la prospettiva cristianocentrica induce papa Wojtyla a dimenticare che la civiltà occidentale cristiana è una piccola regione della storia, cui rimane estranea la maggior parte dell’umanità. Come applicare il criterio dell’evangelizzazione nella valutazione della storia di quei popoli che, come per esempio l’India, non l’hanno ricevuta o che l’hanno rifiutata perché la consideravano e la considerano strumento di colonizzazione?

I cristiani che rifiutano oggi il giubileo come esaltazione del cristianesimo e della sua centralità storica si muovono nella stessa logica che nel ’92 li aveva indotti a respingere, al fianco della resistenza indigena, negra e popolare, le celebrazioni del V centenario. E’ infatti evidente ai loro occhi, come abbiamo ricordato, la continuità tra gli ultimi 500 anni ed i 1500 che li hanno preparati. E’ anche evidente, che il criterio per valutare i duemila anni non può essere fornito dai "progressi dell’evangelizzazione".

Questo criterio è invece fornito dal riconoscimento degli oppressi come soggetti storici: il quale impone di convolgere nello stesso giudizio e nella stessa condanna gli ultimi 500 anni ed i 1500 che li hanno preceduti, segnati in larga misura da rapporti di dominio. Tale criterio detterà un giudizio fortemente critico anche nei confronti di quel cristianesimo, che , alleandosi con i poteri imperiali, è stato coinvolto nella genesi e la legittimazione dei rapporti di dominio, ed ha ritenuto di dover riprodurre nella sua organizzazione i rapporti gerarchici ed autoritari che caratterizzano le potenze imperiali.

Questo stesso criterio imporrà ai discepoli di Gesù di far esplodere la contraddizione fra il cristianesimo costantiniano e quello delle origini; fra la chiesa gerarchica e il movimento di Gesù; imporrà quindi loro di trasformare il giubileo in un impegno collettivo per la riscoperta , la rivalutazione e l’attualizzazione di quel movimento.

L’immagine infatti, che stiamo riscoprendo, del movimento di Gesù, contraddice radicalmente l’immagine dei cristianesimi isituzionali di oggi, cattolici ed evangelici, segnati in forme diverse dalle loro alleanze con i poteri oppressori e pertanto coinvolti nella genesi e la giustificazione del processo di globalizzazione capitalista. Contraddice la teologia della cristianità elaborata a partire da queste alleanze e riaffermata dalla chiesa cattolica e da altre chiese nel contesto della secolarizzazione. Contraddice la struttura monarchica e gerarchica,sacerdotale e maschilista che le chiese dette cristiane sono venute assumendo lungo i secoli, riproducendo nella loro organizzazione l’autoritarismo dei poteri con cui si erano alleate. Contraddice la concezione della comunione ecclesiale prevalente oggi nelle chiese, dove la centralità dell’obbedienza e del’ortodossia ha sostituito la centralità dell’amore liberatore. Contraddice i metodi di evangelizzazione a partire dal potere con cui le chiese sono andate imponendosi e continuano a diffondersi oggi.

Queste ed altre contraddizioni sollevano delle domande drammatiche: Si tratta solo, in questa evoluzione , della normale trasformazione di un movimento in una istituzione o non piuttosto di una rottura profonda tra l’uno e l’altra? Che cosa c’è di comune tra le istituzioni ecclesiastiche di oggi e il movimento di Gesù? Con che diritto le chiese di oggi si denominano cristiane? Con che diritto vincoliamo oggi la nostra qualità di cristiani all’appartenenza a queste istituzioni?

Giubileo e globalizzazione capitalista

Abbiamo ora tutti gli elementi, mi pare, per esplicitare il rapporto fra giubileo e globalizzazione capitalista. Parlo di globalizzazione capitalista e non di globalizzazione neoliberale, perché mi sembra che quest’ultima espressione si presti ad un equivoco. Denunciando le stragi perpetrate dal neoliberalismo, si può dare l’impressione che la critica colpisca le attuali deviazioni del sistema e non la sua stessa logica. Analizzando invece la globalizzazione "capitalista", intendo considerare il neoliberalismo come uno sviluppo coerente del liberalismo nel nuovo contesto mondiale e renderne evidente il carattere antipopolare

Quale allora il rapporto fra giubileo e globalizzazione capitalista? Il giubileo ecclesiocentrico e romanocentrico, esaltando il cristianesimo costantiniano, rappresenta, in definitiva, una legittimazione, anzi una consacrazione dei poteri politici ed economici con i quali esso è venuto alleandosi attraverso i secoli. Afferma, in altri termini, la persistente attualità del progetto di cristianità e della teologia che lo fonda.

Il pontificato di Giovanni Paolo II, incentrato sulla battaglia anticomunista, ha rafforzato l’alleanza con i poteri del capitalismo centrale, particolarmente con gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Dopo il crollo del comunismo europeo, egli ha rinsaldato questa alleanza con l’enciclica programmatica Centesimus annus. In essa il crollo del comunismo viene celebrato come una vittoria di Dio, il quale si trova così coinvolto, suo malgrado, nei fasti del capitalismo. Per quanto poi riguarda il futuro dell’umanità, la Centesimus Annus teorizza un capitalismo dal volto umano e cristiano: un sistema cioè che subordina la sua dinamica politica ed economica alla dottrina sociale cristiana, che il papa vede realizzato nei paesi del capitalismo centrale.

E’ certo che negli anni ’90 il magistero di Giovanni Paolo II ha spesso formulato

critiche severe.dell’economia mondiale, tanto che alcuni analisti sono giunti a parlare di una svolta anticapitalista. Si tratta in realtà solo di nuovi accenti, provocati dalle tragiche conseguenze delle misure neoliberali sulla vita delle grandi maggioranze, cui il papa e molti vescovi sono indubbiamente assai sensibili. Ma queste denuncie non colpiscono mai la logica del capitalismo come tale; non giungono mai a dichiararlo "intrinsecamente perverso", come il magistero pontificio aveva fatto nei confronti del comunismo. Esse colpiscono le deviazioni del capitalismo; o, come dicono a volte, il "capitalismo selvaggio", lasciando supporre che ne esista un altro, civilizzato o dal volto umano. Dimenticano così il fatto che oggi più che mai, all’epoca della mondializzazione, il capitalismo è uno solo, e proprio la diversità delle sue espressioni nel Nord e nel Sud attesta il suo carattere discriminatorio e disumano.

Quindi il progetto per il terzo millennio che ispira il giubileo ecclesiocentrico è in definitiva quello di un capitalismo dal volto umano e cristiano; di un capitalismo cioè che riconosca l’egemonia del cattolicesimo sul terreno etico. Con tale scelta di campo la gerarchia cattolica conferma la sua collocazione storica all’interno della globalizzazione capitalista. Con questo progetto di società essa annunzia anche un progetto di cristianesimo modernizzato ed aggiornato, in modo da poter convivere armonicamente con la società capitalista.

Un giubileo alternativo sarà invece imperniato sulla liberazione dei popoli. oppressi. Presterà particolare attenzione alla liberazione ed alla valorizzazione dei popoli indigeni, la cui insurrezione a partire dal ’92 sta agendo come detonatore di una mobilitazione mondiale, per una ricerca dell’alternativa di civiltà e per la rifondazione della speranza.

Assumendo come opzione fondamentale il riconoscimento del diritto di autodeterminazione solidaria dei popoli oppressi, e facendo proprio così il grido degli esclusi di tutto il mondo, il giubileo popolare svilupperà una contestazione radicale del processo di globalizzazione capitalista, imperniato sull’autodeterminazione dei mercati e sul dominio mondiale delle grandi potenze.

In questa prospettiva, il centro dell’evento giubilare non sarà Roma, ma la periferia del mondo. I pellegrinaggi che sarà necessario organizzare non muoveranno dalle varie parti del mondo verso Roma, ma saranno marce di riparazione e solidarietà dai paesi del capitalismo centrale verso i popoli colonizzati di ieri e di oggi. Il movimento ecumenico e macroecumenico non si svilupperà intorno a Roma, ma intorno ai popoli oppressi in lotta per la loro liberazione.

Se il Giubileo ecclesiocentrico coinvolgerà solo il mondo cattolico, anzi una parte di esso, il giubileo popolare diventerà un movimento ecumenico e macroecumenico, che coinvolgerà le componenti liberatrici di tutte le religioni , stabilendo fra di esse rapporti di reciprocità e di fecondazione mutua; ma diventerà anche un movimento laico, cioè un anno di coscientizzazione e mobilitazione di massa, per la istaurazione di un modello alternativo di società.

 

Il giubileo e la battaglia contro il debito estero del terzo mondo

Vi è un tema sul quale giubileo istituzionale e giubileo popolare sembrano convergere, ed è la lotta contro il debito estero del terzo mondo. Essa sta coinvolgendo movimenti, istituzioni, chiese, governi ecc. nel Sud e nel Nord del mondo.

Ma credo importante, alla luce della scelta di campo che stiamo proponendo nell’interpretazione del giubileo, distinguere nettamente le due linee con cui è condotta oggi questa battaglia contro il debito estero: la rinegoziazione e il rifiuto del debito. Esse determinano anche due diversi orientamenti nella nostra solidarietà con i popoli del Sud.

 

La linea della rinegoziazione

La linea della rinegoziazione è seguita dalle autorità politiche di vari paesi debitori. Essa conta sull’appoggio delle autorità ecclesiastiche, cattoliche ed evangeliche. Ma è particolarmente significativo il fatto che tali iniziative siano oggi autorevolmente promosse dagli organismi finanziari multilaterali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale: è nota particolarmente l’azione di tali organismi per il condono del debito ai paesi fortemente indebitati.

Queste iniziative presentano le seguenti caratteristiche:

1) Si propongono di abolire, totalmente o parzialmente il debito, ma non la causa dell’indebitamento, che è lo stesso modello economico; anzi , le concessioni sul terreno del debito sono sempre condizionate da impegni che il paese debitore debe assumere per consolidare il sistema applicando rigorosamente le misure di ristrutturazione impostegli

2) Esse implicano un riconoscimento del debito e del dovere di pagarlo; si propongono di contribuire alla soluzione dei problemi suscitati dal debito con atti di generosità da parte dei paesi ricchi. Riconoscere il debito e il dovere di pagarlo significa riaffermare la validità e legittimità del modello economico, generatore del debito.

3) Si propongono di abolire il debito, ma non la dipendenza di cui esso è espressione: questa si trova anzi rafforzata dalle misure economiche che il paese debitore si impegna ad applicare.

Quindi il giubileo che promuove queste forme di lotta contro il debito estero dei paesi del terzo mondo non contesta in nessun modo la logica del sistema capitalista; contribuisce piuttosto a legittimarla, suscitando la convinzione che un capitalismo dal volto umano è possibile e coinvolgendo i credenti nella sua umanizzazione: contribuisce, in altre parole, ad avallare quel ritorno della "terza via" che consente alle sinistre europee ed internazionali di occultare l’abbandono delle loro scelte originarie.

La linea del rifiuto

La linea del rifiuto si fonda invece su un giudizio etico e politico molto chiaro: il cosiddetto debito non esiste; non vi è quindi nessun dovere di pagarlo; vi è piuttosto il dovere di non pagarlo. Perché? Il popolo non ha assunto in merito nessun impegno: il debito è stato contratto in margine alla sua volontà e contro i suoi interessi. Il popolo non ha ricavato nessun beneficio da tali prestiti, i quali sono tornati ai paesi creditori attraverso la fuga di capitali o in forza dello scambio disuguale. Il popolo è stato piuttosto vittima di quei prestiti , che sono serviti a finanziare la militarizzazione dello stato e la repressione. Il debito è comunque impagabile: nessuna persona e nessun popolo possono essere obbligati a fare qualcosa di impossibile. I prestiti poi che i paesi del Sud hanno ricevuto e ricevono sono in ultima analisi il frutto delle spoliazioni perpetrate da secoli di conquista e dai meccanismi di un sistema economico e politico immorale. Per cui non solo è legittimo e doveroso il rifiuto di pagare il debito; ma è legittimo e doveroso esigere indennizzi per le spoliazioni dei quali sono state vittime i popoli del Sud. In una parola: il debito non si deve pagare perché non esiste. Ciò che esiste e debe essere pagato è piuttosto il debito delle potenze del Nord.

Forse però l’argomento più decisivo per il rifiuto del debito è il dilemma di fronte al quale si trovano oggi i paesi del Sud: continuare a pagare il debito, rafforzando la propria dipendenza , orientando l’economia nazionale al servizio dei paesi ricchi e condannando il proprio popolo alla miseria; oppure spezzare la catena del debito, riaffermare la sovranità nazionale, orientare l’economia al servizio della grande maggioranza e quindi alla difesa della vita.

Ma non dobbiamo illuderci. Questa strategia non può contare in questo momento sull’appoggio di nessun governo. Essa si sviluppa solo sulla b ase di mobilitazioni popolari: perché implica non solo il rifiuto del debito, ma di tutto il sistema capitalista del quale esso rappresenta un ingranaggio-chiave. Essa mette in questione tutta la storia dei rapporti fra il Nord e il Sud del mondo, i secoli di sfruttamento e di rapina, che hanno generato la ricchezza e il cosiddetto progresso dei paesi del Nord.

Ma questa scelta radicale, che si caratterizza per la sua coerenza, sembra mancare di realismo ed essere quindi votata fatalmente alla sconfitta. A giudizio di molti, il debito sarà pure immorale ed impagabile, ma è anche inevitabile, come il sistema capitalista.

Indubbiamente, una decisione così grave come quella del rifiuto del debito non si prenderebbe impunemente. Le rappresaglie da parte dei paesi "creditori" sarebbero immediate e spietate. I paesi "debitori" si vedrebbero negare ogni nuovo prestito; e sarebbero boicottati nelle loro esportazioni ed importazioni. Inoltre , il rifiuto del debito eliminerebbe certo il principale ostacolo alla soluzione dei problemi economici del paese, ma i problemi dell’alternativ a economica e politica rimarrebbero drammaticamente aperti.

In definitiva, il rifiuto del debito sarebbe, nell’ambito del giubileo, una scelta realista e non demagogica, solo se viene assunta con la coscienza delle difficoltà e delle lotte di lungo periodo che sarà necessario affrontare per sostenerla coerentemente. Sarà inoltre una scelta realista e non demagogica solo se fa parte di un progetto e di una strategia globale, fondata sul protagonismo del popolo e orientata a ristrutturare l’economia per metterla al servizio delle grandi maggioranze. Per i paesi del Nord, impostare in questi termini la campagna contro il debito estero del Terzo Mondo significa impegnarsi a lottare al loro fianco per l’istaurazione di un nuovo modello economico, imperniato sull’autodeterminazione solidale del popolo e dei popoli.

 

Il giubileo popolare e la costruzione dell’alternativa

Un giubileo imperniato sulla liberazione dei popoli oppressi e quindi orientato all’ elaborazione di un progetto alternativo di civiltà, dovrà , a mio giudizio, muoversi a due livelli, per altro strettamente connessi fra di loro: quello della strategia etico-politica e quello del rinnovamento cristiano. Desidero suggerire qualche pista per ognuno di questi livelli.

Per quanto riguarda la strategia etico-politica, ritengo che essa debba proporsi e oggi come compito centrale quello di cosrtruire una nuova articolazione tra macroalternativa e microalternative. Alternativa infatti non significa più per noi l’istaurazione repentina di un nuovo sistema economico e politico globale, provocata magari dalle contraddizioni fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione e dal crollo del capitalismo come conseguenza di questa contraddizione. Questa versione dell’ottimismo storico, fondata su una lettura oggettivista dello sviluppo . è stata smentita dalla storia. La caduta di tale certezza ha contribuito a generare o ad acuire in molte persone una crisi di militanza, suscitando la convinzione che realmente il sistema non ammette alternative.

Il progetto di alternativa popolare che vorrei proporre è invece un processo lungo e faticoso, ordinato ad invertire la tendenza storica. Questo processo non parte dall’alto, come sono le inziative assunte da istanze globali, come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Interamericana dei sviluppo; ma dal basso, cioè da un contropotere locale, che si tratta di costruire con il contributo di tutti i settori emarginati ed esclusi dal mercato mondiale; esso non si propone primariamente obbiettivi glob ali, ma locali, perseguiti attraverso l’elaborazione e la realizzazione di microprogetti; contraddice la logica dominante del mercato mondiale, ma non è incompatibile con essa, perché si fonda in spazi di resistenza e di autonomia che riesce a conquistare progressivamente.

Il paradigma di uno sviluppo sostenibile è una economia comunitaria, che sia espressione di una comunità autonoma, autogestita,egualitaria, solidale al suo interno e con le altre comunità. Questa economia si caratterizza essenzialmente per il fatto che ha la comunità come protagonista e fine del progetto e la solidarietà come suo motore. Per questa sua ispirazione etica, l’economia comunitaria si contrappone all’economia autoregolata del neoliberalismo.

Il metodo di costruzione dell’alternativa dal basso è antitetico al metodo neoliberale che parte dal globale e pretende giungere su questa base a risolvere i problemi locali Pretesa che, per altro, si rivela ogni giorno più illusoria, perché . la logica del globalismo neoliberale lo subordina agli interessi delle minoranze privilegiate.

Tuttavia, non è sufficiente che un progetto di sviluppo sia locale, perché si iscriva in una logica economica e politica alternativa. In effetti, lo stesso neoliberalismo promuove il decentramento , per scaricare su poteri e iniziative locali i problemi che il processo macroeconomico lascia insoluti. Promuove quindi un grande numero di progetti locali, che però non mettono in questione il potere centrale e centralizzato nè i valori che lo ispirano; che risolvono i problemi individuali di alcune persone o gruppi, senza per questo istaurare una logica solidaristica e liberatrice. Il segno più evidente della coerenza tra questi progetti e la logica del sistema è l’isolamento in cui essi permangono.

Ma l’isolamento minaccia anche i progetti locali che nascono, come quelli

che abbiamo delineato precedentemente, nello spirito di una solidarietà liberatrice. Li minaccia, perché, nel clima individualista e consumista istaurato dal neoliberalismo, lo spirito di solidarietà non si può mai considerare definitivamente stabilito in un collettivo o in una comunità. E’ necessario tornare costantemente a motivarlo e rafforzarlo. Ora questo si ottiene creando nella comunità spazi di riflessione collettiva, con scambi di idee, di esperienze e di testimonianze; favorendo tra i credenti momenti collettivi di preghiera e di riscoperta della loro ispirazione. Si ottiene anche tessendo vincoli di comunicazione e di solidarietà fra tutti i progetti e poteri locali che operano in una prospettiva liberatrice.

Per altro un progetto economico e politico che voglia essere realmente alternativo non può concentrarsi sul livello locale, abbandonando al neoli beralismo l’orientamento dell’economia e della politica mondiali. Per essere realmente alternativi i progetti locali devono iscriversi in un processo globale di lungo periodo, antagonista rispetto alla logica neoliberale e segnati dal protagonismo crecente del popolo e dei popoli nella politica e nell’economia. Il rafforzamento del potere popolare a livello globale sarà appunto il frutto delle reti di comunicazione e solidarietà tra un’infinità di poteri e progetti locali alternativi disseminati in tute le parti del mondo.

Le reti di comunicazione possono oggi svilupparsi su scala mondiale, grazie ai progetti vertiginosi dell’informatica. Questa può contribuire anzittutto allo smascheramento ed alla contestazione della logica neoliberale, denunciando tutti i giorni immediatamente tutti i giorni e a tutte le ore i suoi delitti e promovendo in questo modo la globalizzazione della resistenza e della solidarietà. Ma l’informatica apre degli orizzonti insospettati esplorando il terreno straordinariamente fecondo della solidarietà locale e scoprendo così una faccia praticamente sconosciuta della storia. Ci consente così di scoprire aspetti sconosciuti del nostro paese, della nostra città, del nostro popolo; aspetti sconosciuti di tutti i paesi e di tutti i popoli del mondo. Questa scoperta diventa una fonte incessante di motivazione e di ispirazione del nostro impegno; diventa inoltre un solido fondamento della speranza.

Le reti che si stanno tessendo e che dovremo tessere sempre maggiormente non sono quindi solo di comunicazione, ma anche di solidarietà. Una seconda tappa nella costruzione dell’economia alternativa è appunto la creazione di reti , nazionali e internazionali di alternative locali, che convivono autonomamente con il capitalismo mondiale e che per cià stesso acquistano il potere di regolarlo e di ridurre i suoi effetti tragici. Queste reti fanno parte di processi di globalizzazione popolare, antagonisti nella loro logica rispetto alla globalizzazione neoliberale; di globalizzazione della solidarietà, antagonista rispetto alla globalizzazione del capitale. Esse sono la componente economica del nuovo internazionalismo popolare, dell’ "internazionale della speranza" che gli indigeni zapatisti stanno promovendo "per l’umanità e contro il neoliberalismo". La globalizzazione popolare, che per adesso cerca di conquistare spazi di autonomia , per convivere con la globalizzazione capitalista ha come obbiettivo di lungo periodo quello di diventare la logica prevalente di un ordine mondiale realmente nuovo.

 

 

Il giubileo popolare e la riscoperta dei cristianesimi originari

Il giubileo popolare, nello spirito di quello prospettato nell’Antico Testamento e di quello promulgato da Gesù stesso, implica, sul terreno religioso, due aspetti , la denuncia del tradimento e la riscoperta del progetto originario. Vorrei ora sviluppare rapidamente questo secondo aspetto, della riscoperta del cristianesimo o meglio dei cristianesimi originari, che potrebbe diventare un compito dei cristiani di base in questo anno giubilare; ma sempre in stretto collegamento con l’impegno politico per la liberazione degli oppressi e delle oppresse del paese e del mondo.

Riconoscere la centralità di questa ricerca significa anzittutto attribuire una importanza vitale agli studi biblici e sociologici, che si stanno moltiplicando ai giorni nostri, sui cristianesimi originari. Essi ci consentono infatti di riscoprire, su base storica e non ideologica, i tratti originari del movimento di Gesù, e di identificare al tempo stesso i meccanismi che prepararono la sua alleanza con l’impero e la sua trasformazione in religione del tempio: cioè in una istituzione simile per tanti aspetti a quella che Gesù aveva affrontato e che lo aveva scomunicato e condannato.

Come esempio di questa ricerca, desidero citare due volumi della Revista de interpretación bíblica latinoamericana coordinati da Jorge Pixley: Cristianismos originarios (30-70 d.C.) del 1996, e Cristianismos originarios extrapalestinos (35-138) del 1998..

Nell’editoriale del primo volume, Jorge Pixley scrive: "Eduardo Hoornaert, nel suo libro La memoria del pueblo cristiano della serie Teología y liberación faceva una rilettura drammatica della "Patristica". Segnalava il fatto che la nostra visione della chiesa dei primi tre secoli è dominata dall’immagine creata da Eusebio, vescovo di Cesarea,nella sua storia ecclesiastica, e che egli creò nell’euforia della conversione di Costantino e della "vittoria" della chiesa, prima perseguitata dall’impero e ora da esso riconosciuta come alleata. Pertanto, il vescovo presenta la visione di una chiesa ben ordinata, con una struttura di governo che la subordina ai vescovi. E’ una chiesa che fin dal principio va preparandosi ad esercitare il potere nella società. Ma Hoornaert affermava che questa fu una distorsione della realtà, perché le chiese , in quei secoli di persecuzione,erano comunità di fedeli organizzate dalla base, e guidate da pastori scelti dagli stessi fedeli all’interno della loro assemblea. Si richiede dunque, conclude Pixley, per amore della verità, una rilettura dell’immaginario storico, che corresponda maggiormente sia alla verità storica sia alle nostre necessità pastorali."(p.5)

Nello stesso senso imposta il suo articolo Pablo Richard: "Nelle nostre chiese esiste attualmente una visione errata delle origini del cristianesimo.Normalmente proiettiamo nel passato le strutture e i dogmi ecclesiali del presente. Esiste anzi una consolidata visione costantiniana delle origini del cristianesimo, che dobbiamo ad Eusebio di Cesarea (263-339), vescovo di Cesarea in Palestina, il quale scrisse una storia ecclesiastica in dieci libri. Questo storico fu il teologo di Costantino e scrisse la sua storia della chiesa per giustificare la costruzione della cristianità costantiniana. Quest’opera contiene indubbiamente un’importante informazione storica ed è oggi indispensabile per la storia della chiesa. Ma la sua "ideologia costantiniana" perverte radicalmente le origini del cristianesimo. Il suo scopo non è stato di scrivere la storia reale e bbiettiva del cristianesimo, ma la "storia ufficiale" per fondare teologicamente la cristianità costantiniana. L’immagine che abbiamo oggi normalmente delle origini del cristianesimo è l’immagine eusebiana e costantiniana. Riscoprire le nostre origini significa riscoprire la nostra identità storica fondata su Gesù di Nazaret e sull’autentica tradizione apostolica. Questa riscoperta è fondamentale per la riforma delle nostre chiese al giorno d’oggi."

I due volumi che ho segnalato si propongono appunto di ricostruire, aldilà delle versioni ideologiche ed apologetiche, la verità storica. Desidero segnalare le più rilevanti indicazioni metodologiche:del loro approccio:

1)Le fonti di cui si avvale questa ricostruzione non sono solo quelle consacrate dal canone del nuovo testamento. Sono anche quelle della cosiddetta letteratura apocrifa, ingiustamente squalificata, in nome dell’ortodossia, dalla corrente cristiana che prevalse sulle altre; ma che è spesso almeno tanto veritiera quanto i libri canonici. Ttra gli apocrifi più significativi vengono citati il vangelo di Tommaso, il vangelo degli ebrei, il vangelo degli egiziani.

2) Le fonti canoniche debbono essere rilette e interpretate tenendo conto (come pe la storia ecclesiastica di Eusebio) della loro impostazione teologica ed apologetica. Il loro obbiettivo non è di raccontare oggettivamente i fatti, ma di ricostruirli in funzione di tesi teologiche, ispirate all’ortodossia che si stava affermando.

3)Deve essere superato il pregiudizio, secondo cui il cristianesimo originario era unitario e le div ersità sono nate posteriormente. In realtà vanno riconosciute e riscoperte molte e diverse interpretazioni del messaggio di Gesù fin dai primi decenni dopo la sua morte, quindi molti e di versi cristianesimi originari. Questi vanno ricostruiti sia a partire dalle diverse fonti sia tenendo conto dei diversi contesti geografici,politici e culturali in cui si sviluppano i movimenti di Gesù.E’ importante rilevare che questa diversità è anteriore alla fase di organizzazione ecclesiastica, nella quale nasceranno i concetti di ortodossia e di unità fondata su di essa; ed in cui si affermerà quindi la pretesa degli ortodossi di squalificare ed emarginare gli eretici.

  1. A questo periodo della storia cristiana non appartiene la struttura

gerarchica e monarchica della coòun itè cristiana. Non risulta che in una comunità, per esempio in quella di Roma, vi fosse un solo vescovo, ve n’erano vari che operavano simultaneamente. Non risulta che Pietro, v escovo a Roma, sia stato vescovo di Roma. Il centralismo e il romanocentrismo cattolici sono frutto di una evoluzione, o meglio di una involuzione posteriore.

Gesù quindi non ha comunicato ai suoi discepoli un messaggio di ortodossia né uno schena organizzativo, ma una passione per la libertà e per l’amore, che essi hanno poi espresso nelle più div erse direzioni. Per la riscoperta dell’identità cristiana è molto più importante lo studio di questo periodo,in cui lo Spirito si dispiega in libertà, che non quello dell’istituzionalizzazione. Si tratta quindi per noi di spezzare le catene delle istituzioni e di ritrovare nei confronti della persona e del messaggio di Gesù quella libertà d’interpretazione e di creazione che ha caratterizzato i primi discepoli e che certamente faceva parte dell’essenza del suo legato: non una tavola di leggi, non una lista di dogmi, ma una passione per la libertà e per l’amore, capace di sviluppare creativamente le intuizioni del maestro, dell’amico, del compagno.

Con questo spirito, e con fiducia nella presenza ispiratrice dello Spirito, siamo chiamati oggi, valorizzando il clima di mobilitazione del giubileo popolare, a ricostruire dal basso la nostra identità di cristiani. Il cristianesimo di oggi non sarà una semplice riproduzione dei cristianesimi originari, ma un suo sviluppo coerente e creativo nel nuovo contesto geopolitico; ma anche nei molteplici contesti politici culturali e religiosi in cui il movimento originario di Gesù è chiamato a rinnovarsi.

Questa riscoperta ed attualizzazione, di cui abbiamo l’esaltante responsabilità, ci impegna ad elaborare comunitariamente una nuova sintesi , valorizzando i contributi per noi più significativi dei cristianesimi originari. Tra questi desidero segnalare: il radicamento comunitario e locale in uno spirito di amicizia liberatrice; la solidarietà economica espressa nella condivisione dei beni e oggi nella formazione di un nuovo modo di produzione; il carattere autogestionario, che riconosce nella comunità e non nelle gerarchie il soggetto del movimento e del potere; il carattere laicale, che considera il sacerdozio come un ministero della comunità e non di una casta separata; il carattere antagonista nei confronti dei valori dominanti sia nella società sia nella religione istituzionale; in particolare l’atteggiamento autonomo ed antagonista nei confronti dell’impero romano e quindi di tutti gli imperi; il protagonismo delle donne, vissuto come alternativa militante alla società patriarcale; il metodo di diffusione del movimento dal basso, per la forza della verità e il contagio della solidarietà e non per conformismo sociale.

Questa riscoperta ed attualizzazione non sarà compito delle gerarchie né del clero nèe dei teologi, ma del popolo cristiano coscientizzato ed organizzato nelle comunità di base, nei gruppi di riflessione, nella lettura popolare della bibbia, ecc. Il movimento di Gesù continua a ricercare nella storia i segni della presenza di Dio Amore Liberatore; continua ad attestare questa presenza con il suo impegno militante per la liberazione degli oppressi e con la sua creatività.

CONCLUSIONE

Nel giubileo 2000, come già nel 92, l’affermazione della centralità dei popoli oppressi nella valutazione della civiltà occidentale e nella progettazione di una nuova civiltà non sarà espressione di gerarchie ecclesiastiche, ma di una vasta mobilitazione popolare.

Il suo principio ispiratore sarà la fiducia nelle risorse morali, intellettuali e politiche inesplorate degli esclusi e delle escluse di tutto il mondo; il suo terreno privilegiato di impegno sarà l’articolazione fra progetti locali alternativi e prospettive di trasformazione globale; tra poteri locali alternativi e costruzione di un contropotere popolare continentale e, in prospettiva, mondiale.

Vivere la solidarietà liberatrice a livello locale significa scoprire che essa è possibile e feconda, che la sua pratica cambia il senso della vita personale e collettiva. Sorge così una convinzione: ciò che è possibile e fecondo a livello locale deve essere possibile e fecondo a livello globale, nazionale e internazionale. Così lo sviluppo locale sostenibile opera come luogo di articolazione tra il possibile e l’impossibile; come itinerario per spostare ogni giorno le frontiere del possibile.Ci stimolerà a ritrovare l’audacia di credere e di sperare anche il messaggio del rivoluzionario russo Bakunin, il quale diceva: " è scommettendo sull’impossibile che attraverso la storia gli uomini sono venuti scoprendo e realizzando il possibile; e tutti coloro che si sono saggiamente trincerati nel possibile, non hanno avanzato di un solo passo."

Dovrà verificarsi poi, in questa mobilitazione popolare, una confluenza fortemente ispiratrice tra la ricerca di alternative economiche e politche e la riscoperta dello spirito comunitario delle origini cristiane.Il cristianesimo, che ha avuto una tragica responsabilità nella genesi e la legittimazione della globalizzazione imperialista potrebbe diventare oggi una sorgente d’ispirazione e di creatività nella ricerca e la realizzazione di alternative locali orientate ad invertire la tendenza storica. Nello stesso tempo questo impegno, ispirato dall’amore liberatore, diventerebbe per le comunità e le chiese cristiane un cammino autentico di rinnovamento e di conversione.

Desidero concludere questa riflessione manifestando e comunicando il sentimento di gioia e di speranza che suscita in me la scoperta esaltante di questa possibile confluenza tra la valorizzazione della solidarietà liberatrice nelle sue innumerevoli espressioni locali, germe ed annuncio di una globalizzazione popolare e l’impegno per riscoprire le origini del cristianesimo e il suo messaggio comunitario sovversivo. Il sentimento di gioia e di speranza che suscita la confluenza , nel progetto di giubile popolare o e di nuova civiltà, tra la costruzione della famiglia umana e la costruzione della famiglia di Dio. Una civiltà quindi che sia la rivelazione e l’incarnazione storica di quella amicizia liberatrice fra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che è il Dio di Gesù.