Clodovis Boff, brasiliano di
origine italiana (i nonni emigrarono dalla provincia di Belluno), è, con il
fratello Leonardo, uno dei più noti esponenti della
Teologia della liberazione.
«Una teologia», tiene subito a precisare, «che non è morta, come molti
desidererebbero. È più viva che mai, visto che è ormai integrata nel normale
insegnamento di molti Seminari e Facoltà teologiche». Prete dell’Ordine dei
Serviti, ha studiato a Rio e a Lovanio, ha fatto il missionario in Amazzonia, e
ora insegna allÂ’Istituto teologico francescano di Petropolis, allÂ’Iser
(Istituto di studi religiosi) di Rio de Janeiro, e, in questa stessa città ,
segue i "dottorandi" della Pontificia università cattolica. Tiene
molto anche allÂ’incarico di responsabile della pastorale nelle favelas della
parrocchia di Nossa Senhora das dores (dellÂ’Addolorata). Gli abbiamo
chiesto di aiutarci a comprendere lÂ’attuale stato della Chiesa in Brasile.
- Padre Boff, incominciamo dalla situazione sociale e politica in cui vive
questa Chiesa. Come la definirebbe?
«Nel linguaggio pastorale si può sintetizzarla con la parola
"esclusione". Perché sono sempre più numerosi i brasiliani che
perdono il lavoro e restano esclusi dal mercato. Cresce in maniera spaventosa il
lavoro informale: più del 60 per cento della forza lavoro è ormai in questo
settore, e più della metà dei lavoratori del mercato formale non è in regola
per quanto riguarda i diritti sociali e previdenziali. Accanto a questo e, in
parte, in dipendenza da questo, cresce la violenza: le città brasiliane hanno
un tasso incredibile di insicurezza. Dopo le dieci della sera è difficile
uscire di casa. Ogni notte nelle favelas ci sono sparatorie che durano anche
diverse ore, e ogni settimana ci sono, in città , decine di morti ammazzati in
scontri con la polizia o tra bande armate».
«La Chiesa imputa questa situazione al sistema neoliberista che domina nel
mondo intero e che da noi si pratica con particolare coerenza. Il Governo di
Fernando Henrique Cardoso è dominato dal Partito del fronte liberale (Pfl),
esplicitamente neoliberale e di destra, che favorisce il mercato e gira le
spalle al sociale. Di conseguenza, vediamo che non funzionano servizi essenziali
come la scuola, la sanità , la previdenza e la giustizia».
- Come reagisce la Chiesa, sia sul piano degli orientamenti sia su quello
della testimonianza?
«Nonostante vi siano, nella Chiesa universale, segni di restaurazione per
quanto riguarda lÂ’accentramento a Roma e il maggiore controllo sulle Chiese
locali, la Chiesa che è in Brasile mantiene, nel suo insieme, un chiaro impegno
sociale, una presenza tra i più poveri, e si fa voce degli esclusi. Gli esempi
sono tanti. Per citarne uno, penso alla manifestazione chiamata "Il grido
degli esclusi", arrivata questÂ’anno alla terza edizione, che mostra come
il popolo degli esclusi sente la patria. Nata dalle Comunità ecclesiali di base
e sostenuta dalla Conferenza episcopale, questa manifestazione è diventata
ecumenica, perché vi partecipano cristiani di altre Chiese e movimenti sociali,
come i "Sem Terra" e il sindacato. È stata lanciata l’iniziativa di
rendere continentale il "grido degli esclusi" del 1999, in vista del
terzo millennio».
- La Chiesa brasiliana è mobilitata per la terza Settimana sociale. Come
si sta svolgendo?
«Non si tratta di avvenimento ridotto a una settimana di conferenze e
dibattiti sul tema prescelto: "Il riscatto dei debiti sociali". È un
processo che dura un anno ed è decentrato in tutto il Paese: ogni diocesi, ogni
regione, ha i suoi momenti di riflessione sulla propria realtà sociale, sui
debiti che la società ha contratto verso i più emarginati e che, alla luce del
Vangelo, vogliamo impegnarci a pagare».
- Negli anni passati la Chiesa brasiliana ha sviluppato una serie di
"pastorali sociali" a favore dei più emarginati. Questo impegno
continua?
«Certamente, e con interventi molto concreti. Prendiamo, ad esempio, la
Pastorale del bambino, portata avanti soprattutto da donne, laiche e religiose.
Vanno al concreto, e quindi organizzano corsi e centri per migliorare
lÂ’alimentazione, combattere la disidratazione, prevenire malattie o curarle,
anche con la medicina popolare. In pochi anni si è registrato un calo della
mortalità infantile dal 30 all’8 per cento. È uno sforzo che si deve
continuare, tenuto conto che in Brasile, su centomila operatori sanitari,
sessantamila sono volontari che fanno capo alla Chiesa».
- Le altre pastorali sociali sono ugualmente attive?
«Molto. Il Centro indigenista missionario (Cimi), che opera
ecumenicamente,
continua a battersi in difesa degli indigeni. In Amazzonia, ad esempio, la
Chiesa è l’unico punto di riferimento per la protezione delle terre indigene
contro le invasioni delle industrie del legname. Lo stesso si deve dire della
Commissione pastorale per la terra (Cpt), dalla quale è nato, diversi anni fa,
il Movimento "Sem Terra", che è oggi il più significativo movimento
sociopolitico del Brasile».
- Se la Chiesa brasiliana continua il suo impegno con gli
"ultimi", a che si deve lÂ’impressione, abbastanza diffusa, dÂ’un
suo ripiegamento sugli aspetti più specificamente religiosi della sua missione?
«È un’impressione ingannevole. Si pensa che quanto più la Chiesa si
impegna nel sociale, tanto meno si interessa del religioso e viceversa. È
sbagliato sia teologicamente sia dal punto di vista della nostra esperienza. Qui
si è sempre affermato che la radice dell’impegno profetico della Chiesa nel
sociale è spirituale, mistica: quanto più è spirituale, tanto più la Chiesa
si impegna nel sociale. Se oggi l’impegno spirituale, religioso, è più
evidente, è perché esso è anche un problema sociale serissimo. La ricerca di
senso, la sete di Dio, stanno diventando sempre più un’istanza della cultura
moderna».
- Dipende da questo la crescita dei nuovi movimenti religiosi o sètte?
«Certamente. Come ne dipende la crescita dei movimenti di spiritualità e di
preghiera all’interno della Chiesa cattolica».
- Non è invece che la Chiesa, temendo la concorrenza delle sètte, tenti
di mutuarne stile, mezzi e metodi?
«Questo è un problema complesso. Bisogna anzitutto capire perché le
cosiddette sètte crescono. Secondo me, perché offrono una risposta
all’esclusione sociale. Una risposta che non è puramente illusoria, come
credono i sociologi di stampo marxista. I nuovi movimenti religiosi, rafforzando
la soggettività dei loro seguaci, ne rafforzano anche la capacità di reagire
alle situazioni difficili. Inoltre, agli esclusi, che si sentono abbandonati,
non amati, anonimi, le sètte dicono: voi siete eletti da Dio, siete salvi.
Questo dà una grande forza, tant’è vero che, attraverso un’etica rigorosa,
molti degli adepti delle sètte lasciano comportamenti negativi, come
l’alcolismo, la tossicodipendenza, la violenza, l’infedeltà coniugale».
- La crescita così impetuosa dei nuovi movimenti religiosi non dipende
anche da una pastorale inadeguata della Chiesa cattolica, a causa della scarsitÃ
di mezzi e di personale disponibili?
«È vero anche questo. La Chiesa deve rivedere la propria pastorale,
particolarmente su due linee, che sono quelle che determinano il successo delle
sètte. Anzitutto, occorre approfondire la dimensione spirituale per valorizzare
la soggettività delle persone. In altre parole, la fede dev’essere anche una
scelta e un’esperienza di vita che faccia esprimere la totalità della persona
(c’è molto da rivedere nella nostra liturgia, ad esempio). In secondo luogo,
la Chiesa deve imparare dalle sètte l’uso dei mass media al servizio
dell’evangelizzazione. È necessario il ricorso a questi mezzi, se si vuole
essere presenti nell’agorà di oggi. Va da sé che, contrariamente a
quanto fanno alcuni di questi nuovi movimenti, lÂ’uso dei media devÂ’essere
sempre improntato a spirito ecumenico».
- È possibile un dialogo religioso con le sètte?
«Sono convinto di sì, e già lo si sta realizzando in alcuni casi. Ad
esempio, nel Movimento "Sem Terra" ci sono gruppi di neopentecostali
che, lottando con altri cristiani, hanno superato pregiudizi e false immagini
nei confronti dei cattolici. E viceversa. Penso che si dovrebbe promuovere in
ogni modo il dialogo tra la Chiesa cattolica e le cosiddette sètte, perché
costituiscono il movimento religioso maggiormente in crescita e rappresentano
una sfida alla nostra missione».
«Ma perché ci provocano con la loro predicazione esplicita del Vangelo alle
masse popolari brasiliane disaggregate, disorientate, atomizzate in un contesto
urbano caotico. La Chiesa cattolica dovrebbe avere più coraggio di lanciarsi
nellÂ’annuncio esplicito e diffuso del nucleo kerigmatico della nostra fede:
Gesù Cristo è morto e risorto per la nostra salvezza».
- AllÂ’inizio di questa conversazione ha detto che la Teologia della
liberazione è tutt’altro che morta. In quali campi sta dimostrando la sua
vitalità ?
«Senza tralasciare i problemi più specificamente sociali, si stanno
scandagliando nuovi campi, come la visione cristiana dellÂ’ecologia (penso ai
lavori di mio fratello Leonardo), la "teologia di genere", la teologia
femminista (notevoli i contributi di Ivone Gebara), la teologia etnica (india e
afrobrasiliana). Anche le nuove ricerche non trascurano mai la dimensione
sociale, cioè la dimensione dei conflitti e della loro soluzione nella
prospettiva della liberazione. Inoltre, questa teologia continua a essere vitale
perché è organica alla Chiesa, nel senso che è direttamente coinvolta nel
servizio pastorale dei vescovi e nel cammino quotidiano delle nostre comunità .
Mi spiego con un esempio. Alle assemblee delle diocesi e delle altre realtÃ
ecclesiali partecipano il vescovo con il suo presbiterio, le "basi" e
gli "assessori", cioè gli esperti, tra cui i teologi. La dinamica
dellÂ’incontro si svolge secondo il metodo di "vedere, giudicare e
agire". Quando si tratta di "vedere", sono le "basi"
cristiane che parlano di più, indicando i problemi concreti. Nel
"giudicare" intervengono di più i teologi, per chiarire, provocare,
aprire orizzonti. Indicare lÂ’azione tocca agli agenti pastorali: vescovo,
preti, religiosi e laici impegnati a tempo pieno nella pastorale. Come si vede,
c’è una simbiosi, una stretta collaborazione tra teologia, direzione
pastorale e pratica della fede. Non può morire una teologia che ha un piede
nelle Facoltà , nell’Accademia, e l’altro nella vita delle comunità ».
Renzo Giacomelli
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