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Con un forte grido

di fr. Alberto Degan dall'Ecuador

Con un forte grido

Lettera dall'Ecuador di fr. Alberto Degan

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Ecco un'altra lettera di fr. Alberto Degan che scrive ai giovani del GIM dall'Ecuador. Le lettere precedenti sono raccolte nella sezione Lettere dalle Missioni:

Nella terra del Vichada (lettera dalla Colombia)

Non era un indigente... (lettera dalla Colombia)

Convertirci all'impossibile (lettera dall'Ecuador)

CON UN FORTE GRIDO:

lettera agli amici

 

In mezzo al fango

Quando piove, e si cammina in mezzo al fango, mi domando sempre come fa la gente a non sporcarsi. Io, con tanto di stivaloni, arrivo sempre alla meta con i pantaloni sporchi, mentre Tomasa e Nola, dotate di un semplice paio di ciabatte, riescono ad arrivare in chiesa con i piedi e i pantaloni perfettamente puliti, come se fossero arrivate qui volando a mezz’aria. Non riesco a spiegarmi come fanno. Certo è che la gente della Malvinas ha sviluppato risorse incredibili.

E in effetti, in mezzo al fango si sono sviluppate varie forme di solidarietà, come quella dei ‘telefoni condivisi’. Estela, ad esempio, la nostra ‘promotora de salud’, non ha telefono, e cosí ogni volta che devo mandarle un messaggio, chiamo al telefono di Norma, la vicina che abita in fronte, e Norma corre ad avvisare Estela. Lo stesso succede quando devo chiamare Dominga: avviso Evelin, la cognata che abita tre case piú in lá; metto giú il telefono, richiamo dopo due minuti, e finalmente posso parlare con Dominga. Senza questa piccola forma di solidarietà, la comunicazione sarebbe molto piú difficile qui nel settore Malvinas, e la vita sarebbe molto piú dura. 

Leggere la Parola con gli ‘Afro’ 

Da circa due mesi fratel Roberto ed io dividiamo il nostro tempo tra la Malvinas e il Centro Culturale Afroecuatoriano. Qui ogni settimana teniamo tre incontri, due con adulti e uno con giovani afro: leggiamo la Parola, la condividiamo, e pianifichiamo piccole ‘missioni’ nei vari quartieri di Guayaquil abitati in maggioranza da afroecuatoriani. Per me è una vera grazia poter leggere la Parola con loro. Anche alla Malvinas abbiamo creato due piccoli gruppi di afro: uno nella parrocchia del “Buen Pastor” e l’altro nella parrocchia di “Nuestra Señora de la Salud”.

Per approfondire il tema degli afro,

vai ad altre sezioni del nostro sito:

gli Afro e le comunità di base

l'esperienza di un missionario

l'impegno di un vescovo

“Negra ma bella”

Uno dei principali elementi su cui bisogna lavorare - quando stai con gli afro - è quello dell’autostima. In effetti, l’autostima media del pueblo afro è molto bassa, perché la società continua a discriminarli e a considerarli uomini e donne di serie B. E cosí, quando un negozio richiede una commessa di ‘bella presenza’, una donna negra sa molto bene che - per bella che sia - non potrá mai soddisfare i canoni della ‘bella presenza’, perché donna di bella presenza significa donna bianca. “Sono negra, peró sono bella”, afferma la sposa del Cantico  (Ct1,5). È strano, tante volte avevo letto il Cantico dei Cantici, e non mi ero mai soffermato su questo particolare, che mi sembrava poco importante. Ma adesso posso capire bene questa frase: è la donna afroamericana - discriminata in molti modi - che cerca di convincere Dio di essere bella a dispetto del fatto d’essere negra. È una donna con una bassa autostima: la società la disprezza, alcuni abusano di lei, e forse non si sente degna dell’amore di Dio. Ma il Signore la rassicura: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa mia, tu mi hai rubato il cuore con un solo tuo sguardo” (Ct4,9). La donna che ha rapito il cuore di Dio, dunque, è una negra. Tradizionalmente la sposa del Cantico è sempre stata vista come un’immagine del popolo di Dio. Il popolo afro, dunque, ha conquistato il cuore di Yavé: il Signore vuole sposarsi con il popolo negro. È giunto il tempo che gli afroecuatoriani riscoprano la loro identità di popolo amato da Dio.

 “Aprire buchi”

Quando abbiamo letto l’episodio del paralitico curato da Gesú (Mc2,1-12), mi sono soffermato soprattutto su questi versetti: “Mentre Gesú annunciava loro la Parola, quattro uomini si diressero verso di lui per portargli un paralitico. Tuttavia, poiché non potevano avvicinarlo a Gesú a causa della grande folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico”. Mi immagino la scena. Queste quattro persone vogliono portare il loro amico ammalato da Gesú, ma incontrano la strada sbarrata: di fronte a tutta quella gente ammassata come sardine, sarebbe assurdo pensare di poter entrare in quella casa. Umanamente, i quattro avevano fatto tutto quello che era possibile, ma adesso sembrava che non ci fosse altro rimedio che arrendersi all’evidenza e rinunciare al proposito. E invece la fede di quei quattro non si dá per vinta: non è possibile entrare per la porta, secondo le vie ‘normali’? E allora, con uno sforzo di creatività, cerchiamo un’altra soluzione, facciamo un buco nel tetto e apriamo un varco laddove sembrerebbe non esserci nessuna possibilitá di entrata. La fede dei quattro amici rende possibile ció che sembrava impossibile.

Anche gli afro - quando annunciano il vangelo della fraternitá e dell’uguaglianza - incontrano molti ostacoli, alcuni dei quali apparentemente insuperabili. Anche noi, allora, con uno sforzo di creatività, dobbiamo cominciare ad aprire buchi…

 ‘Transfiguración’ y ‘desfiguración’

Due settimane fa la liturgia proponeva la lettura della Trasfigurazione di Gesú. Alcuni pacifisti hanno fatto notare che il giorno in cui si lanció la bomba atomica su Hiroshima coincise con la festa della Trasfigurazione, che si celebra tutti gli anni il 6 di agosto. E cosí, mentre Gesú si trasfigurava in una luce di vita, gli uomini gettavano una bomba che creava una luce di morte, un fungo che in un solo giorno ‘evaporó’ 100.000 esseri umani, sfigurando il volto e il corpo di molti altri sopravvissuti.

Ancora oggi, assistiamo alla lotta tra questi due progetti: da un lato la Trasfigurazione, il progetto di Dio che vuole trasfigurare il mondo, trasformarlo in un Regno di giustizia e di pace; e dall’altro la ‘Sfigurazione’, il progetto di alcuni potenti concentrati unicamente sui loro interessi economici, per realizzare i quali sono disposti ad uccidere, a massacrare, a sfigurare il volto e il corpo di tanti fratelli e sorelle. E proprio ieri venivo a conoscenza di alcune immagini che non saranno mai pubblicizzate dalla CNN: il cadavere di un ragazzo iracheno cui una bomba aveva staccato la testa, mandandola a pochi metri piú in lá del corpo, e un cane che gironzolava tenendo fra i denti un braccio e una mano.

 Gesú vittima di guerra

“I soldati romani condussero Gesú nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Lo spogliarono… poi intrecciarono una corona di spine e gliela posero in testa… E sputandogli in faccia, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo” (Mt27,27-30). Secondo John Dear, questo è il passo piú antimilitarista di tutti i vangeli, perché qui si denuncia l’essenza e la finalitá della struttura militare, che è quella di torturare e uccidere. In particolare, mi colpisce molto la sproporzione tra la forza spiegata dall’esercito romano e la debolezza della vittima indifesa: “tutta la coorte”, un intero corpo dell’Esercito imperiale, è chiamata a torturare un solo uomo disarmato. Mi viene naturale guardare alla guerra in Irak e pensare in tutto l’armamentario di morte (aerei B-2, Missili Tomahawk, bombe a grappolo, bombe-laser) lanciato contro gente inerme, como i 53 civili iracheni uccisi nel mercato Suq Nasser di Baghdad.

Nella parabola del Giudizio Finale (Mt25,31-46), Gesú si identifica esplicitamente con l’affamato e l’assetato, e ci chiede di amarLo con opere di misericordia. Ma durante la guerra è impossibile essere misericordiosi con quelli del fronte opposto; la guerra, dunque, costituisce una specie di moratoria su quello che il vangelo considera centrale e irrinunciabile, ossia, l’esercizio dell’amore al prossimo, e in particolare dell’amore alla vittima. E in realtà durante un conflitto armato non solo non è possibile fare il bene, ma si esige che facciamo il male. Ad esempio, Gesú ci dice che bisogna dare da bere agli assetati; peró in guerra non solo non dissetiamo chi era giá assetato, ma addirittura creiamo nuovi assetati, riducendo alla sete chi poteva bere senza alcun problema. E cosí in Irak i bombardamenti degli angloamericani - distruggendo il sistema elettrico che assicurava la potabilizzazione - ha reso imbevibile l’acqua di Baghdad e di tante altre cittá irachene. Per sopravvivere, allora, la gente è obbligata a bere acqua contaminata; e dopo aver bevuto quest’acqua molti - soprattutto i piú deboli, bambini e anziani - muoiono. In questo modo una nazione ‘cristiana’ - gli Stati Uniti - invece di dar da bere agli assetati, fa morire di sete migliaia di essere umani.

Gesú dice anche: “Ero straniero e mi hai accolto”, cioè, mi hai dato una casa. In questa guerra in Irak, invece, non solo non si dá la casa a chi non ce l’ha, ma si distrugge la casa a chi ce l’aveva.

La guerra, dunque, rappresenta un completo capovolgimento del precetto dell’Amore predicato da Gesú: Cristo dice che bisogna dar da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, accogliere lo straniero che non ha casa, etc.; la legge della guerra, invece, esige che si riduca alla fame chi aveva da mangiare, che si distrugga la casa di chi aveva un tetto sotto cui vivere, che si riduca alla sete chi aveva acqua potabile da bere, etc.

La cosa piú grave è che dicendo “Avevo fame… Avevo sete… Ero senza casa, etc.”, Gesú si identifica esplicitamente con le vittime di tutte le guerre, che sempre soffrono queste privazioni. I cristiani che partecipano in un conflitto armato, dunque, accettano come perfettamente legittimo che si riduca alla sete e si distrugga la casa allo stesso Gesú. È impressionante pensare quanti soldi, quanto tempo, quanta intelligenza e quante energie i cristiani hanno speso, e continuano a spendere, per ferire Gesú, per mutilarlo, per affamarlo, per lasciarlo senza tetto, per torturarlo, per ammazzarlo…

 Con un forte grido

Nel vangelo di Marco l’ultima parola pronunciata da Gesú è un grido: “Uno di loro corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna,  gli dava da bere, dicendo: - Vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce -. Ma Gesú, dando un forte grido, spiró” (Mc15,37).

Il grido con cui Gesú si congeda da questo mondo contrasta con il silenzio che aveva mantenuto di fronte agli oltraggi e agli insulti dei soldati, dei sacerdoti e dei passanti. È come se Gesú, prima di morire, avesse voluto raccogliere tutte le sue energie, lanciandoci - con questo forte grido - un messaggio importante. Di fronte a un’ingiustizia tanto evidente, di fronte ad una macchina di morte e di tortura cosí disumana e crudele, ormai non valgono piú le parole: l’unico modo con cui la vittima puó lanciare la sua protesta è con un forte grido. A questo punto, l’unico suono che puó ancora scuoterci è questo urlo disperato, con cui Gesú cerca di raggiungere e penetrare il nostro orecchio distratto e mezzo sordo. Lasciamoci raggiungere da questo grido! Non assuefacciamoci ai massacri decretati dall’Imperatore di turno! Non lasciamo solo il Cristo massacrato e crocifisso in Irak!

E che questo grido ci converta, che non ci lasci in pace, che continui a risuonare dentro di noi con tutta la forza della sua disperazione! E che ci costringa ad uscire allo scoperto, a gridare anche noi contro questa follia, contro questo criminale progetto di morte!

 


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