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Ap (18, 2-5 ; 21, 1-7): Chiesa e Politica, da che parte sta Dio?

Gim Padova (gennaio 2002)

Chiesa e Politica:
da che parte sta Dio?

catechesi Primo GIM Padova,
13 gennaio 2002

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Quattro nomi, quattro punti cardinali per orientarci all’inizio di questa riflessione su chiesa e politica: non si può fare a meno di citarli. Larry Ellison, Warren Buffet, Paul Allen, William Gates.

Li conoscete? Sono le quattro persone più ricche del mondo: da sole, possiedono tanto quanto il PIL di 42 pesi poveri. In quattro possiedono come 600 milioni di persone.

 

E’ Babilonia, è la città in cui stiamo vivendo oggi. Babilonia è regolata da tre valori fondamentali: si chiamano, nell’ordine, dollaro, euro e yen. Insieme formano il nome di una delle divinità, che è “Mammona”.

Ma in realtà Babilonia, che ha la sua religione di sistema, si ispira ad una Trinità: Mammona, Mercato e Capitale. Sono tre idoli, più che dei, lo dice anche la Bibbia: “hanno occhi ma non vedono, orecchie ma non sentono, mani ma non toccano…”. Eppure dominano il nostro sistema religioso, e sono così organizzati da aver strutturato anche le loro chiese. Le cattedrali si chiamano ‘borseÂ’, e sono diffusi in tutto il mondo, nei luoghi più significativi e dove il controllo del potere religioso è maggiore. Poi ci sono i santuari, più piccoli, ed anche le chiesette di campagna: sono i  centri commerciali e i supermercati. EÂ’ in questi luoghi che si diffonde la religione predicata a Babilonia, fondata su alcuni principi etici fondamentali: egoismo, competizione, efficienza, produzione e crescita, consumo.

Come ogni vecchia religione ha i suoi sacrifici umani: le vittime da immolare perché il gruppo più fedele possa continuare a vivere sereno, nell’abbondanza e nella benedizione. I riti sacrificali oggi si chiamano aggiustamenti strutturali, operazioni chirurgiche, interventi umanitari.

E come ogni religione, ha i suoi eretici, che occorre perseguitare ed eliminare. Forme pericolose di eresia si sono diffuse a Seattle, Praga, Göteborg, Genova, Porto Alegre…

Questa è la chiesa, così come funziona a Babilonia. Una chiesa che è perfettamente integrata con la politica, poiché le due vanno a braccetto, l’adorazione della Trinità e le strutture attraverso cui adorarla. Sarà l’unico modo di far dialogare chiesa e politica? E Dio, da che parte sta?

 

Mettiamoci a cercare Dio. Dov’è? Basta aprire la Parola di Dio per capire da che punto di vista sta guardando alle nostre Babilonie: Dio sta sempre DALLA PARTE DELLE VITTIME!

E’ da lì che esprime giudizi sulla chiesa e sulla politica che abbiamo costituito.

Andiamo a controllare, leggiamo Ap 18, 2-5.

 

Tre cose Dio ci dice sulla nostra Babilonia:

-     finalmente ti sei rivelata per quello che sei: non certo ‘la grandeÂ’, ma un carcere! Non c’è libertà presso di te, ogni creatura immonda e aborrita è imprigionata dentro di te. La tua religione non ti libera, ma ti stringe, ti rimpicciolisce, non sei la città che Dio sogna!

-     sei una prostituta, perché ti sei venduta a tutti, a chi offriva di più, hai fatto concessioni del tuo potere a chi ti dava più soddisfazioneÂ… (pensiamo agli equilibri politici internazionali, per es.!)

-          il lusso dei tuoi mercanti è sfrenato, è vergognoso, grida vendetta al cospetto di Dio e dei tanti poveri che hai ridotto sul lastrico!

 

E quindi Dio, che ci parla sempre dal punto di vista delle vittime, ci lancia un triplice invito, riassunto in una sola fortissima parola: Uscite!

Uscite non significa fuggite (che tentazione forte, anche tra molti nostri giovani!), ma realizzate una chiesa e una politica diversa, basata su questi tre principi:

“Resistere”, cioè starci, ma starci con coraggio, con speranza, con le idee chiare, senza farsi contaminare ma nella capacità di leggere i meccanismi che fan vivere Babilonia.

“Rifiutare”, cioè dire nettamente No a ciò che di Babilonia non condividiamo. La nostra scelta parlerà già da sola… l’eresia è nata così.

“Ripensare”, cioè proporre una politica nuova, alternativa, a partire dalle condizioni in cui ci troviamo, ma facendoci ispirare da altri valori. Quali? Lo dice di nuovo Chi guarda con gli occhi delle vittime: Ap. 21, 1-7.

 

·         Gerusalemme è città dellÂ’alleanza, non della prostituzione! Alleanza è fedeltà a ciò che vale, è principio dÂ’amore e non di interesse: Gerusalemme è la città del Dio-in-mezzo-a-noi. EÂ’ città in cui mi rendo conto che posso trovare Dio solo se mi pongo allÂ’incontro dellÂ’altroÂ… Non abbiamo un Dio-sopra-di-noi, ma nel mezzo delle relazioni della nuova città che ci chiede di costruire: Gerusalemme, “città della pace”.

·         Gerusalemme è città del dono, della gratuità (v.6), che è lÂ’esatto contrario dellÂ’accumulo, del capitale e dei suoi altri idoli. Cosa significa fondare una città sulla politica del dono?

·         Gerusalemme è città in cui il dolore scomparirà (v.4), se ci metteremo nella stessa posizione di Dio, chinato a ‘tergere le lacrimeÂ’. Cosa significa costruire una politica di reale solidarietà verso tutte le vittime?

 

I primi cristiani avevano capito bene la sfida di Gesù, quella di resistere e rifiutare, per ripensare una città della pace. E ci provarono: per mantenersi fedeli al Vangelo, si erano dati una struttura alternativa a quella dell’Impero, si erano costituiti in una rete, una società parallela, articolata nelle sue piccole comunità. Avevano chiamato questa struttura “chiesa”, cioè “assemblea”. Chiesa, quindi, è esattamente un sinonimo di politica, perché è un modo, seppur diverso, di strutturarci in società evangelica. Anche Apocalisse ce lo fa capire, quando scrive a 7 di queste comunità e dice loro di rendersi il più possibile simili a Gerusalemme, alla città ideale che Dio ci fa intuire.

 

Alcuni oggi però leggono che la Gerusalemme nuova dovrà “scendere dal cielo” (21,1), non capiscono che ci si riferisce al punto di vista di Dio (guardare alla città con occhi nuovi) e concludono che l’unico compito dei cristiani è attendere questa città in dono, in una vita che non sarà più qui su questa terra. Questi alcuni sono i più radicali a schierarsi contro le ‘eresie’ di cui parlavamo prima:

 


Certi cattolici stanno diventando sudditi di “ideologie e perfino di slogan di gruppi e movimenti politici che nulla hanno a che fare con la nostra fede”. Si dilungano a “discettare delle materie più varie”, ma senza “dire da nessuna parte che Gesù Cristo è l’unico salvatore dell’uomo e che questo annuncio è il loro fondamentale compito” (denuncia di 30 intellettuali e giornalisti, cattolici pure loro, in un documento di critica alle iniziative antiG8, luglio 2001).

 In loro c’è “un grave problema culturale, unÂ’infezione piuttosto estesa”, dovuta agli “strumenti di analisi”, alle “categorie utilizzate per interpretare la realtà”. (Panebianco, Corriere, 13.8.01)


Ma non tutti accettano di stare in silenzio e semplicemente attendere. Lo stesso card. Martini si schiera, su questo aspetto, in un documento dal titolo significativo: “La chiesa non può più tacere”:

la chiesa non può più tacere, di fronte a questa politica, poiché c’è “un privilegio di fatto per chi sa rivendicare, con la forza del suo peso economico e sociale, i propri diritti individuali o di gruppo. (…) Si contesta la funzione dello stato nella tutela dei più deboli”, perché è più facile “piegarsi alle convenienze e alle maggioranze del momento”. “La logica decisionistica non rispetta le esigenze di una paziente maturazione del consenso e cerca di estorcerlo con il plebiscito generalizzato, si illude di operare con il sondaggio dei desideri”. Si fa strada “un liberismo utilitaristico che non mette ordine nelle attese e nei bisogni secondo una gerarchia di valori, ma eleva il profitto e l’efficienza o la competitività a fine, subordinando ad essa le ragioni della solidarietà”. Una politica “fatta spettacolo, fatta scontro verbale accompagnato anche da minacce; luogo del successo e palcoscenico di personaggi vincenti, che richiedono deleghe a governare non sulla base i programmi vagliati e credibili, bensì sulla base di promesse o prospettive generiche…”. (Discorso di S. Ambrogio, Milano 1995)

 

E’ incredibile l’attualità di queste frasi.

Non possiamo più tirarci indietro, quindi, perché siamo coscienti: viviamo a Babilonia, ma Dio ci chiede, dal basso, con voce sempre più flebile, di ricostruire Gerusalemme.

 

“…dopo il sogno, andarono cercando quella città. Non la trovarono…

Ma si trovarono tra di loro. Decisero allora di costruire una città come nel sogno…” (I. Calvino)

 

 

AGIRE   (trovare il mio posto)

 

Di fronte a tutte queste provocazioni, sono innumerevoli gli ambiti per la nostra azione. Non c’è spazio qui per commentare. Ci limitiamo a lasciarci provocare, allora, da un testimone che ha lasciato (e non da solo) un segno incisivo e indelebile: don Milani. Lui ci dimostra come, partendo dallo spirito di indignazione individuale contro i cappellani militari che criticavano l’obiezione di coscienza, si possa generare riflessione e impegno politico a livello locale, con riflessi che avranno un seguito sia sul piano nazionale che globale. A noi raccoglierne l’esempio.

 

(dalla Lettera ai giudici, Barbiana 1965)

“La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati.

Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così, da undici anni in qua, la più parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l’anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana a cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire.

Ora che quellÂ’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. (Â…)

 

Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un “Comunicato dei cappellani militari in congedo della regione toscana”. (…)

Dovevo ben insegnare (ai miei ragazzi) come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ciascuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. E’ il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”. (…)

 

Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca di una “guerra giusta”. D’una guerra che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata. Da quel giorno abbiamo avuto molti dispiaceri. Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio. (…)

 

La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). (…) E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. (…)

 

In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.

La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”.

 

 

PER COMINCIAREÂ…

Lettera di Rubem Alves per sedurre i giovani alla vocazione politica                 (Folha de São Paulo, 19.05.00)

 

 

Tra tutte le vocazioni, quella politica è la più nobile. Vocazione, dal latino vocare, significa chiamata. Vocazione è una chiamata interiore di amore: chiamata di amore per un ‘fare’. Al posto di questo fare, il chiamato vuole ‘fare l’amore’ con il mondo. Psicologia d’amante: lo farebbe, anche se non ci guadagnasse nulla.

 

‘Politica’ viene da polis, città. La città era, per i greci, uno spazio sicuro, ordinato e calmo, dove gli uomini potevano dedicarsi alla ricerca della felicità. Il politico sarebbe colui che si prende cura di questo spazio. La vocazione politica, così, starebbe a servizio della felicità degli abitanti della città.

 

Forse per essere stati nomadi nel deserto, gli ebrei non sognavano città: sognavano giardini. Chi abita nel deserto sogna le oasi. Dio non ha creato una città. Ha creato un giardino. Se chiedessimo a un profeta ebreo “cos’è la politica?”, lui ci risponderebbe “l’arte del giardinaggio applicata alle cose pubbliche”.

 

Il politico per vocazione è un appassionato per il grande giardino di tutti. Il suo amore è così grande che rinuncia al piccolo giardino che potrebbe piantare per se stesso. A cosa serve un piccolo giardino se tutt’attorno c’è il deserto? Occorre che tutto il deserto si trasformi in giardino.

 

Amo la mia vocazione, che è scrivere. La letteratura è una vocazione bella e debole. Lo scrittore ha amore, ma non ha potere. Ma il politico ce l’ha. Un politico per vocazione è un poeta forte: ha il potere di trasformare poesie sui giardini in giardini veri. La vocazione politica è trasformare sogni in realtà. E’ una vocazione così felice che Platone ha detto che i politici non hanno bisogno di possedere nulla: gli basterebbe il grande giardino di tutti. Sarebbe indegno che il giardiniere avesse uno spazio privilegiato, migliore e diverso dallo spazio occupato da tutti. Ho conosciuto e conosco molti politici per vocazione. La loro vita è stata e continua ad essere un motivo di speranza.

 

Vocazione è diverso da professione. Nella vocazione la persona trova la felicità nella sua azione. Nella professione il piacere si trova non nell’azione. Il piacere sta nel guadagno che viene da essa. L’uomo mosso dalla vocazione è un amante. Fa l’amore con l’amata per la gioia di fare l’amore. Il professionista non ama la sua donna. Ama i soldi che riceve da lei. E’ un gigolô.

Tutte le vocazioni possono essere trasformate in professioni. Il giardiniere per vocazione ama il giardino di tutti. Il giardiniere per professione usa il giardino di tutti per costruire il suo giardino privato, malgrado che, per farlo, attorno a sé aumenti il deserto e la sofferenza.

 

Così è la politica. Sono molti i politici professionisti. Perciò posso affermare la mia seconda tesi: tra tutte le professioni, la professione politica è la più vile. Il che spiega la disillusione totale della gente, a proposito della politica. Guimarães Rosa, quando gli chiesero se si considerava politico, rispose: “Non potrei mai essere politico con tutti questi ciarlatani in giro… al contrario dei politici ‘legittimi’, credo nell’uomo e desidero un futuro per lui. Il politico pensa solo ai minuti. Io sono scrittore e penso all’eternità. Io penso alla resurrezione dell’uomo”. Chi pensa ai minuti non ha la pazienza di piantare alberi. Un albero impiega molti anni per crescere. Rende di più tagliarli.

 

Il nostro futuro dipende da questa lotta tra i politici per vocazione e i politici per professione. Il fatto triste è che molti di quelli che sentono la chiamata della politica non hanno il coraggio di rispondervi, per paura della vergogna di essere confusi con gigolô e di dover vivere con gigolô.

 

Scrivo a voi, giovani, per sedurvi alla vocazione politica. Forse ci sono giardinieri addormentati dentro di voi. L’ascolto della vocazione è difficile, perché è disturbata dal grido delle scelte prevedibili, normali, medicina, ingegneria, informatica, diritto, scienze. Tutte legittime, se sono vocazioni. Ma tutte vi restringono: vi piazzano in un angolo ristretto del giardino, molto lontano dal luogo in cui si decide il destino del giardino. Non sarebbe molto più affascinante partecipare al destino del giardino?

 

Abbiamo appena finito di celebrare i 500 anni di scoperta del Brasile. Gli scopritori, arrivando, non trovarono un giardino. Trovarono una selva. Selva è diverso da giardino. Le selve sono crudeli e insensibili, indifferenti alla sofferenza e alla morte. Una selva è una parte della natura ancora intoccata da mano d’uomo. Quella selva avrebbe potuto essere trasformata in un giardino. Non lo fu. Quelli che agirono su di essa non erano giardinieri. Erano raccoglitori e venditori di legna. E così la selva, che sarebbe potuta diventare giardino per la felicità di tutti, fu trasformata in deserti macchiati di giardini privati lussureggianti, dove pochi godono della vita con piacere.

 

Ci sono scoperte di origini. Più belle sono le scoperte di destini. Forse, allora, se i politici per vocazione si impossessassero del giardino, potremmo cominciare a tracciare un nuovo destino. E invece di deserti e giardini privati avremmo un grande giardino per tutti, opera di uomini che hanno avuto l’amore e la pazienza di piantare alberi alla cui ombra non si siederanno mai.

 

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