Le tre tentazioni
Inserto di "Rocca" 15 agosto/ 1 settembre 1996
Il
Concilio ha compiuto alcune grandi rivoluzioni o svolte
teologiche rispetto alla teologia dominante nei manuali - e in
tutti gli ambiti della Chiesa - dal XVII sec- fino agli ultimi
decenni del XX secolo: in questo senso si può ben dire che il
Concilio ha aperto alla Chiesa orizzonti nuovi con cui entrare
nel suo terzo millennio di presenza nel mondo. Occorre infatti
tener presente che l' impatto di un Concilio Ecumenico
sull'intero corpo sociale della Chiesa richiede sempre tempi
lunghi, talora dell'ordine di secoli (si pensi all'attuazione
della costituzione dei Seminari stabilita dal Tridentino, o alla
promulgazione del decreto "Tametsi", sempre del Tridentino,
avvenuta in alcune aree solo dopo 3 secoli e solo per ordine di
Pio X). Di queste svolte epocali noi prenderemo in
considerazione le due presenti in Gaudium et Spes (Gs): la
svolta sociale e quella ecclesiologica, almeno per i loro
aspetti più rilevanti in ordine a un profondo ripensamento della
vita concreta della Chiesa, e in specie della
chiesa locale-
La doppia riflessione teologica si articola dunque sul tema
della Chiesa e la sua missione " ad extra " (nel mondo) e sul
tema della Chiesa "ad intra", e cioè nelle sue istituzioni e
nello spirito che deve animarle: saranno queste le due parti di
questa nostra riflessione.
Tre cose vanno
tenute presenti:
- la nostra
esposizione sarà prevalentemente teologica; i riflessi pratici e
le applicazioni pastorali non rientrano nel mio compito e
neppure nelle mie specifiche competenze
- A questo scopo
riteniamo utile studiare prima la missione della Chiesa e il suo
statuto nel mondo: solo dopo potranno essere studiate le
caratteristiche strutturali e spirituali della Chiesa, che siano
funzionali a questa missione.
- lo scopo
diretto non è la critica dell'esistente, ma l'indicazione
positiva di nuovi orizzonti e di nuova auto-comprensione per la
Chiesa, sia locale che universale. Ciò è sempre e
inevitabilmente un atteggiamento critico: se possiamo e dobbiamo
andare oltre l'esistente vuol dire che l'esistente ci appare
limitativo e insufficiente.
Ciò non va
confuso con un andare contro l'esistente, ma aiutare la Chiesa
ad esser viva, ad adeguarsi ai nuovi orizzonti della missione
che lo Spirito apre man mano nel corso della storia della svolta
conciliare, e in specie di quella di Gs, chi scrive non è solo
uno studioso, ma un testimone direttamente coinvolto: e perciò
la sua lettura dell'evento conciliare da un lato è in qualche
modo non neutrale e quindi discutibile, dall'altro lato ha
presente la realtà dell'evento conciliare e della sua portata
storica meglio di chi lo ha conosciuto sui libri (anch' essi del
resto mai neutrali).
Privatizzazione della salvezza
La storia
dell'umanità nel suo cammino verso la pienezza del Regno, e
quindi tutta la vita di relazione nelle sue complesse e
variabili strutture - la tematica della vita sociale - è sempre
stata oggetto di riflessione propriamente teologica: basti
pensare al tema della pace o al tema del Regno nella Scrittura -
AT e NT - o al De Civitate Dei di S.Agostino, alle centinaia di
volte in cui il tema del bene comune appare in Tommaso, alle
grandi visioni della Seconda Scolastica (p.es. in Vitoria o
Suarez). Fra il XVI e il XVII secolo l'interesse diretto della
riflessione teologica e spirituale cristiana per la storia e il
sociale scompare: non possiamo qui studiare le cause di tale
sparizione, ma essa è un fatto- In nessun testo di teologia o di
spiritualità – con poche eccezioni senza seguito – si trova un
solo capitolo o paragrafo sulla
Pace. Nei trattati sul VII comandamento o sulla virtù della
giustizia l'unica cosa che interessa è la giustizia commutativa
(fra privati), mentre in Tommaso essa è un' applicazione
particolare della "giustizia generale", quella cioè che mira
primariamente al bene comune- Silenzio assoluto sul tema dei
diritti fondamentali della persona umana nei confronti del
potere politico: diritti la cui rivendicazione, ancora in Pio IX,
è considerata "deliramentum", follia. Solo verso la fine del XIX
secolo nasce un magistero sociale, ma esso non fa parte della
riflessione teologica ed è relegato nella filosofia sociale: in
pratica fino a dopo il Concilio il tema del sociale viene
studiato nei seminari prima dei corsi teologici, né i manuali di
morale se ne preoccupano molto.
Questo strano
fenomeno - che è un fatto incontrovertibile e non una nostra
interpretazione può essere indicato come privatizzazione della
salvezza. Occuparsi dei poveri, degli oppressi, è considerato
unÂ’opera buona per il singolo che vuole salvarsi lÂ’anima o
acquistare meriti particolari. Detto brutalmente tutta la
generazione di teologi e pastori con studi preconciliari ha
rimosso la storia dalle proprie preoccupazioni, ha rifiutato il
tema del sociale sia nella teologia sia nella spiritualità e
nella catechesi. Nel corso del secolo XIX, di fronte alla doppia
novità dello stato non confessionale e delle nuove miserie
generate dall'industrializzazione, nell'ambito europeo sono nate
forme nuove di assistenza ai miseri e ai perdenti del processo
economico, ed è nata la preoccupazione di salvaguardare
necessità e diritti fondamentali della Chiesa di fronte a
governi che non si sentivano in alcun modo soggetti alla Chiesa.
Ciò è avvenuto primariamente attraverso i concordati, a
cominciare da quello con la Repubblica Francese (cioè
Napoleone), lodato poi da Leone XIII nell'enciclica Nobilissima
Gallorum. Ma la Chiesa non era interessata alla forma di governo
con cui aveva a che fare - fosse esso dittatoriale, dispotico,
liberale o fascista: era interessata solo a mantenere la libertÃ
di azione richiesta per la salvezza delle anime, vale a dire
evangelizzazione e sacramentalizzazione. E, più in generale,
lÂ’impegno politico dei cattolici, anche dopo la II guerra
mondiale era mirato primariamente a difendere la Chiesa e i suoi
diritti. Con la Gs, questa complessa autocomprensione della
Chiesa circa la sua missione nel mondo è stata completamente
ribaltata. Testimonianza della radicalità del cambiamento è la
dura battaglia conciliare circa la struttura stessa del
documento e circa praticamente tutti i suoi singoli capitoli
operata dai circoli più conservatori e appoggiata da quasi tutta
la stampa liberale o fascista, che mal vedeva un diretto impegno
della Chiesa nella storia e nel sociale.
La battaglia fu
vinta con una larga maggioranza e con la sanzione del
papa Paolo VI, ma continuò fino all'ultimo giorno: la Gs è
l'unico documento conciliare la cui traduzione in lingue moderne
fu pubblicata a Concilio ormai chiuso.
La Chiesa nel mondo
La teologia della
Gs ha un suo punto centrale: "Il Signore è il fine della storia
dell'umanità " (Gs 45). Il titolo stesso non indica Chiesa e
mondo come due realtà esterne, non è "Chiesa e mondo" ma "la
Chiesa nel mondo". Il suo messaggio di salvezza fa sì che la
Chiesa si senta " realmente e intimamente solidale con il genere
umano e la sua storia" (Gs 1). L'umanità da salvare non è solo
la somma di tutte le singole anime, ma " la famiglia umana " nel
suo cammino nella storia: per questo cammino della famiglia
umana- e cioè per la storia - vi è un traguardo divino, un
progetto di Dio. La Chiesa è posta all'interno della famiglia
umana come lievito, come anima (è da ricordare la Lettera a
Diogneto), come fermento, posto da Dio per accompagnare
l'umanità intera e condividerne le vicende, così che la famiglia
umana possa giungere al traguardo assegnatole da Dio: rinnovarsi
in Cristo e trasformarsi in "famiglia di Dio" (Gs 40). Non
dunque la chiesa è, o è destinata ad essere, il Regno, ma la
famiglia umana: e proprio in quanto "famiglia". La vicenda
storica dell’umanità è perciò oggetto diretto ed irrinunciabile
della missione della Chiesa, continuazione della missione stessa
di Cristo (Gs 3, da confrontare con Gv 20,23). Da ciò segue il
carattere propriamente teologico dell'impegno della Chiesa nel
sociale: trasformarsi in famiglia di Dio vuol dire, per la
famiglia umana, trasformare tutto il complesso e mutevole
sistema di relazioni interumane a immagine della relazione
trinitaria, una relazione di puro dono reciproco (Gs 24). Come
il Figlio dell'uomo è venuto per servire e non per essere
servito (Mt 21…), così l'attenzione, il servizio, il dono
reciproco deve essere lo statuto del Regno verso la cui pienezza
la Chiesa deve condurre la famiglia umana. Qualunque forma di
relazione interumana, sia personale sia strutturale, deve esser
misurata sul principio fondamentale che "l'uomo non può
realizzare pienamente se stesso se non nel dono sincero di sé" (Gs
24).
Additare questo
traguardo per la convivenza umana, in qualunque forma e in
qualunque epoca tale convivenza sia strutturata, è perciò ancora
compito diretto e irrinunciabile della Chiesa.
Il tema della
storia e il tema del sociale ritornano così nella riflessione
propriamente teologica, nell'annuncio, nella catechesi, nella
prassi costante della Chiesa- È volontà di Dio, per cui Cristo è
morto sulla croce, che il mondo - l'umanità e la sua storia -
divenga "spazio di vera fraternità "; ma "sconvolto l'ordine dei
valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi
guardano solo alle cose proprie (agli interessi propri: quae
propria sunt considerant), non a quelle degli altri" (Gs 37). Il
progetto di Dio è tradito, è continuamente ostacolato dal
peccato: è questa una battaglia contro le potenze delle tenebre,
battaglia tremenda che durerà fino all'ultimo giorno e in cui il
cristiano è ineludibilmente inserito (ivi). Chiesa universale,
chiesa locale, singoli cristiani, a nessun livello possiamo
chiamarci fuori da questo impegno, coessenziale al nostro esser
cristiani e al nostro esser chiesa. Si può sintetizzare tale
impegno in due principi morali validi in ogni tempo e in ogni
luogo:
1 - l'impegno
contro ogni stato di cose oppressivo (III Sinodo dei vescovi), e
perciò contro ogni forma di oppressione, prepotenza,
prevaricazione, conflittualità a fini egoistici, sia nei singoli
che nei gruppi che negli stati;
2 - l'impegno per
una fraternità universale (Gs 92), e perciò per una solidarietÃ
e una vera corresponsabilità verso ogni essere umano, quale che
sia la razza, la cultura, la religione, il sesso.
Questo impegno
che deriva immediatamente dalla nostra fede, dalla
Parola, vale in ogni tempo e in ogni luogo. Ma la storia è
un continuo fluire di situazioni relazionali, e l'umanitÃ
conosce al suo interno culture e tradizioni diverse: occorre
perciò per ogni tempo, e anche per ogni area culturale cercare
come meglio questo impegno possa concretizzarsi. E a questo
scopo la Chiesa deve essere sempre in ascolto attento e amoroso
delle tante voci che si levano all'interno della famiglia umana.
Così, dice la Gs
(n.46), occorre sempre procedere "alla luce del Vangelo e
dell'esperienza umana". È dovere gravissimo di tutti,
specialmente dei pastori e dei teologi, ascoltare tutte queste
voci (Gs 44) e saper discernere alla luce del vangelo che cosa
esse possano dire alla chiesa e anche come esse possano aiutare
la chiesa a meglio comprendere la Verità Rivelata. (ivi) e il
progetto e le attese di Dio per essa in un preciso momento
storico (è la dottrina dei segni dei tempi esposta in Gs 11).
L'amore, il servizio, non è mai disincarnato e non può essere
reale se si limita a una proclamazione astratta: "non tutti
infatti quelli che dicono ‘Signore, Signore' entreranno nel
Regno dei cieli, ma quelli che fanno la volontà del Padre e
danno mano all'opera" (Gs 93).
Perva dell'umanitÃ
La Chiesa dunque
deve sentirsi e comprendersi serva dell'umanità : la chiesa col
grembiule, diceva il caro e compianto
mons. Tonino Bello. Nessuna preoccupazione per il proprio
trionfo e neppure per la propria sicurezza o tranquillità deve
dettare le scelte della Chiesa: a difendere la Chiesa ci penserÃ
il Signore. Tutte le espressioni esterne di autocompiacimento,
di reclamizzazione o promozione dellÂ’immagine, di trionfo
ecclesiastico devono essere senza esitazione bandite, in
Vaticano come nella piccola parrocchia: esse annunciano un
vangelo falso, e rendono non credibile lÂ’autentico annuncio
cristiano. La comunità dei credenti in Cristo deve essere essa
stessa vangelo, sia nell'attività ad extra sia nella sua vita
interna: ogni forma anche remota di autoglorificazione è in
aperto contrasto con la glorificazione del Signore sulla croce,
così come ogni compromissione col potere al suo esterno, o
esercizio del potere al suo interno sono in aperto contrasto con
un Signore che passò in mezzo a noi come colui che serve.
Usiamo qui il
termine "potere" non nel significato specifico di legittima
autorità , ma nel senso generale di potere dell'uomo sull'uomo,
sia esso politico o economico o culturale o mediale o che altro:
in questo senso potere equivale ad oppressione. E è tale anche
l'esercizio della legittima autorità quando non sia motivato da
esigenze del bene comune, o avvenga - anche a fin di bene - in
forme incompatibili con la dignità e i diritti inalienabili
dell'uomo (si veda Gs 27). La povertà evangelica indica in primo
luogo l'affidarsi totalmente a Dio e non ai poteri terreni,
confidare in Dio e non nella ricchezza (si ricordi " la superbia
della ricchezza" di 1 Gv 2,16: la traduzione Cei, che recita "la
superbia della vita", è errata). Il non-potere, nel senso ora
indicato, deve dunque essere un modo primario con cui la chiesa
si presenta; con cui la comunità dei credenti si presenta al
mondo e annuncia il vangelo proprio nel suo modo di essere
comunità . E qui si apre la seconda parte della nostra
riflessione: come essere Chiesa nel mondo, perche
l'annuncio del Vangelo sia credibile.
La Chiesa è oggi
presente ovunque nel mondo, in ogni continente, in ogni Stato,
in ogni area culturale: è perciò inevitabile - e anche
necessario - che
abbia rapporti coi poteri politici in cui ciascuna chiesa
locale risiede. Ma altrettanto inevitabili sono i rapporti coi
poteri economici, culturali, della comunicazione di massa. È
condizione della Chiesa di vivere in tale complessa rete di
rapporti: la Chiesa è nel mondo. e perciò deve render presente e
operante una Parola che non passa, all'interno di una realtÃ
sociale e strutturale che invece è in costante e continuo - e
talora discontinuo - fluire. Nell'adempiere a questo suo dovere
la Chiesa è sempre, ed è sempre stata, esposta alla tentazione
di collusione coi poteri terreni. Una collusione che vuol dire
sostegno ai, o patteggiamento coi, poteri terreni che mantengono
o generano oppressione: che ciò avvenga a fin di bene (per poter
meglio evangelizzare) o avvenga purtroppo talora a fini di
interessi che nulla hanno a che vedere col Vangelo, si tratta
sempre di una testimonianza negativa, anche se certo i due casi
meritano una qualifica morale molto diversa. Il dato comune è
che la Chiesa come tale, come comunità , può forse annunciare la
verità a parole o dare la grazia coi sacramenti, ma non fa la
verità e non è arricchimento di grazia per la famiglia umana. E
questa tentazione di collusione è sempre incombente sia sulla
Chiesa universale, sia sulla chiesa locale (nazionale,
diocesana, parrocchiale). Accenniamo molto rapidamente a tre
forme di collusione col potere che oggi inducono in tentazione
la Chiesa.
Il potere politico ed economico
È ovvio che la
Chiesa operante all'interno di uno Stato si trovi a contatto col
potere politico e coi governi di quello stato. EÂ’ anche
ragionevole che la chiesa cerchi interesse col potere per
assicurarsi le condizioni necessarie allÂ’esercizio della sua
missione: a questa funzione è in genere dedicata la figura del
nunzio apostolico (o figure equivalenti) che rappresenta
direttamente la Santa Sede presso un governo. Ma qui sorgono due
problemi. Il primo problema è che il nunzio cercherà sempre e
per principio un buon rapporto col potere politico: se non ci
riuscisse potrebbe aver paura di aver fallito la sua missione, e
anche di perdere il posto se il governo, come è sua prerogativa,
lo dichiarasse persona non grata. Il secondo problema è
costituito dalle esigenze della chiesa locale: sono esigenze che
vanno colte alla base secondo la dottrina dei segni dei tempi,
esigenze di impegno contro ogni oppressione e per una crescente
solidarietà , e tali esigenze possono variare molto da Stato a
Stato per motivi di strutture economiche, di tradizioni
culturali, di sensibilità religiose vigenti in ciascun popolo.
Chi deve farsi espressione di queste esigenze evangelicamente
irrinunciabili, ed emergenti dalla base, è il vescovo o la
conferenza episcopale. Da qui hanno trovato, e trovano ancora
oggi, origine o contrasti fra nunzi ed episcopati, e anche
all'interno di singoli episcopati fra vescovi che tendono a non
ostacolare il nunzio e vescovi che tendono a accogliere le
attese, le sofferenze e le esperienze, spesso innovative, della
chiesa locale.
Ma il problema si
pone anche, e spesso duramente, all'interno di una diocesi o di
una parrocchia. I contatti col potere politico (qui il termine
indica anche il potere amministrativo e ogni specie di potere
pubblico) sono spesso inevitabili, ma non è inevitabile che tali
contatti divengano collusioni: e tali sono anche modesti favori
o prevaricazioni del potere in cambio di sostegno ecclesiastico.
Anche quando sono modeste e a fin di bene, tali collusioni
offuscano lÂ’immagine della chiesa; ma non sempre sono operazioni
modeste e a fin di bene. La chiesa, a tutti i livelli, non deve
porre "la sua speranza nei privilegi offertile dallÂ’autoritÃ
civile. Anzi, essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti
legittimamente acquisiti", quando ciò possa "far dubitare della
sincerità della sua testimonianza". La Chiesa deve porre la sua
speranza in Dio, che "spesso manifesta la forza del Vangelo
nella testimonianza dei deboli. (Gs 76). La Chiesa deve esser
fedele al suo Signore, che fu proprio l'uomo del non-potere. E
per questa stessa ragione è gravissimo il rapporto della Chiesa
universale e di quella locale coi centri del potere economico.
La Chiesa deve avere una sua attività economica, e questo
bisogno impone l'inserimento nel sistema economico e finanziario
vigente; in molti casi vi è la necessità di investire capitali
per sostenere con gli interessi attività permanenti o di lunga
durata (si pensi ai lasciti per il Seminario, a fondazioni etc.).
Ma questi capitali da dove vengono? e soprattutto come vengono
investiti ? È comunemente accettato che si debba investire lÃ
dove si sperano interessi più elevati. Un capo di un ufficio
amministrativo di una diocesi o di una grossa parrocchia è
considerato bravo quando riesce a massimizzare il rendimento di
un investimento. Questo è in linea di principio immorale. Chi ha
forti capitali è in grado di scegliere dove investire e per
quali finalità investire: oggi i normali investimenti vengono
assorbiti dal
mercato finanziario mondiale, e possono servire a produrre
medicine o armi, a finanziare mafia o traffico di droga. Occorre
perciò, finche è umanamente possibile, preferire investimenti di
cui è possibile controllare in qualche misura l'impiego, anche
se promettono interessi inferiori: il criterio primario da parte
di enti ecclesiastici di qualsiasi genere non deve essere la
massimizzazione del profitto, ma invece la qualitÃ
dellÂ’investimento. La ormai prossima nascita della banca etica
che darà interessi inferiori ai normali investimenti, ma che
darà la garanzia che gli investimenti saranno mirati al sostegno
di aree o Paesi poveri, dovrebbe esser presa in seria
considerazione da ogni ente ecclesiastico. In ogni caso occorre
cercare in parrocchia come in diocesi come in Vaticano, tutta la
trasparenza possibile; e ancor di più occorre evitare ogni
operazione di carattere speculativo, che costituisce sempre una
cooperazione attiva alla miseria nel mondo. Quest'affermazione
riveste oggi - riteniamo - un valore di divieto assoluto: la sua
giustificazione richiede un'esposizione tecnica che in questa
sede non è possibile.
Ma se la Chiesa
deve presentarsi al mondo come una comunità che confida solo in
Dio e non nei poteri terreni, una comunità "povera" secondo il
Vangelo, allora per essere credibile deve esser tale anche nella
sua vita di comunità visibile strutturata: detto sinteticamente
nel suo essere "istituzione". Se è vero, come viene
costantemente richiamato, che la piena comunione nella Chiesa
passa per l'istituzione, è anche egualmente vero, e di rado
richiamato, che l'istituzione deve rispecchiare in se il Vangelo
che le è affidato. Nell'istituzione è inevitabile che si
riflettano i modelli di convivenza tipici della realtà sociale
in cui la Chiesa è, e deve essere, immersa: questa
considerazione comporta, in una Chiesa pluriculturale, nuove
forme di autostrutturazione per le varie aree culturali, e
quindi perle chiese locali, forme che a tutt'oggi in pratica
sono inesistenti, e questo comporta nuova rilevanza e nuovi
compiti per la collegialità episcopale. Si tratta della doppia
funzione di coordinamento: all'interno degli episcopati di
un'area culturale, e fra gli episcopati delle diverse aree.
Poca riflessione
è stata dedicata alla rilevanza della collegialità episcopale
per queste finalità : non possiamo qui discutere il problema, ma
è certo che dovrà essere ripreso e affrontato con coraggio.
Il riflettersi
nella Chiesa dei modelli di convivenza terrena in cui essa è
immersa (essa è fatta di esseri umani che vivono e pensano nel
loro tempo, e non in un tempo assoluto) comporta anche strutture
e uomini che possono produrre discriminazione, oppressione, e in
genere esercizio del potere dell'uomo sull'uomo. Ciò non deve
meravigliare, ne - tanto meno - allontanare dalla Chiesa.
Dobbiamo invece preoccuparci quando dall'interno stesso della
Chiesa queste forme di esercizio del potere non siano
riconosciute e combattute: una Chiesa senza una costante
capacità di autocritica sarebbe un disastro, sarebbe una chiesa
incapace di povertà evangelica, una chiesa muta. Diamo qui solo
alcuni spunti di riflessione sulle tentazioni del potere che
incombono all'interno stesso della istituzione e della vita
visibile della Chiesa.
La tentazione di una chiesa clericale
Ancora oggi, col
nuovo diritto canonico, ogni potere decisionale per la vita
della Chiesa è riservato al "clero", cioè in pratica ai vescovi
e ai sacerdoti. I "laici", uomini e donne, sono oggi ammessi in
molti uffici, ma di norma con potere solo consultivo od
esecutivo. I consigli pastorali parrocchiali sono costituiti in
gran parte da laici associati al governo della parrocchia, ma
solo con poteri consultivi, cioè senza alcun potere decisionale.
Lo stesso dicasi dei Consigli Pastorali Diocesani, e dei Sinodi
di ogni specie: le decisioni non sono di loro spettanza. Chi
decide è il parroco (o il vicario episcopale), il vescovo (o la
presidenza della Conferenza episcopale), il Papa.
Tutto ciò porta a
un grosso potere discrezionale, e talora esercitato senza troppa
discrezione: un presbitero è legato ad un dovere di obbedienza,
è estremamente vulnerabile perché può essere rimosso "ad nutum",
ed è esposto alla sospensione "a divinis" o stato laicale. Un
laico sarebbe meno vulnerabile da un potere discrezionale. Un
ulteriore conseguenza di una chiesa clericale è l’esclusione
delle donne da qualcunque potere decisionale di qualche rilievo:
essendo infatti escluse dal sacramento dell'Ordine, la donna -
in quanto "donna" e non in quanto "laica" è per principio
esclusa da ogni luogo propriamente decisionale. Per quanto
limitata sia la partecipazione consultiva, per non pochi parroci
o vescovi questi organi consultivi consultano anche troppo, e si
cerca molto spesso di avere consigli fatti su misura. Si cerca
cioè di scegliere o fare scegliere consiglieri che non
disturbino troppo, che siano pronti a non discutere le scelte in
genere già fatte in precedenza dal parroco o dal vescovo. E
situazioni simili si possono trovare talora in alcuni organi
vaticani. Qui non si tratta di norme del diritto canonico. Si
tratta invece di una mentalità e di una tendenza di fatto: la
fecondità spirituale e missionaria del popolo di Dio, che pure
ha ricevuto lo Spirito nel battesimo e nella cresima, è tenuta -
in Europa ma specialmente in Italia - in ben scarso conto. Tutto
questo è potere nel senso di dominio dell'uomo (ecclesiastico)
sull'uomo e soprattutto sulla donna (cristiani). Il diritto
stabilisce una norma discutibile; la mentalità e la prassi usano
la norma per legittimare una forma subdola di dominio forse al
di là delle intenzioni, ma non della lettera del legislatore.
La tentazione dell’uniformità teologica
È questo un
problema delicato e difficile, che non è possibile discutere qui
in tutta la sua ampiezza e gravità . È certo che la varietà e il
dibattito fra scuole teologiche ha sempre contribuito al
progresso della comprensione della Verità rivelata, mentre i
periodi di stagnazione o di monopolio romano della teologia sono
stati periodi infecondi e di ripetitiva monotonia. La tentazione
può nascere dalla legittima preoccupazione di mantenere lÂ’unitÃ
della fede di fronte a proposte teologiche e culturali diverse
così da evitare il rischio di un totale relativismo. Ma non si
deve confondere l'unità della fede con l’uniformità delle sue
espressioni in parole e schemi mentali umani: è proprio il Nuovo
Testamento a proporci, con lÂ’apporto della divina ispirazione,
un'unica fede capace di esprimersi per esempio in cristologie
diverse, con modelli filosofici diversi, o mediante modelli
cultuali e culturali diversi. La tentazione del potere consiste
nellÂ’opporsi a tendenze che talora, ma non sempre, possono
essere pericolose, per la via di una totale uniformitÃ
teologica.
E invece tutto
ciò che è diverso dal già detto, se è seriamente argomentato,
non è una perdita per la Chiesa: è un arricchimento che comporta
sempre inevitabili rischi. Ma il rischio è il prezzo della
ricerca, prezzo che il teologo è tenuto a pagare, e che la
Chiesa è tenuta a rispettare con animo benevolo e attento, senza
condanne o sospetti precipitosi. La ricerca della veritÃ
richiede sempre pazienza e soprattutto richiede di non soffocare
possibili voci dello Spirito. La tentazione del potere consiste
dunque essenzialmente nel voler mantenere l'unità attraverso la
via facile dell'uniformità imposta per via autoritaria (quando
ovviamente non sono in gioco i contenuti essenziali della fede),
e non invece attraverso la via difficile e paziente della
comprensione di punti di vista non consueti, e del coraggio di
rimettersi in questione. Questo coraggio il Concilio lo ha avuto
e con questo stesso coraggio la chiesa deve andare incontro al
2000. Altrimenti lÂ’appello del concilio e la citazione di
singoli brani conciliari sono pura retorica che non convince
nessuno.
La tentazione dellÂ’omologazione culturale
Qui il termine
'cultura' va inteso nel senso antropologico. La
Chiesa, e la fede cristiana, si è sviluppata nelle sue
strutture visibili, nei suoi riti, nella sua costruzione
dottrinale, all'interno della cultura occidentale. Col nostro
secolo - e più precisamente a partire dagli anni '20 / '30 - lo
studio dell'antropologia ha aperto nuovi orizzonti nella
comprensione del rapporto fra culture. Il Concilio ha
riconosciuto l'importanza di questi nuovi orizzonti: la Chiesa
non si identifica con alcuna cultura (e già ben lo sapeva
Paolo): essa deve arricchire ogni cultura con l'annuncio del
vangelo, e deve a sua volta arricchirsi (Gs 58), (nella
comprensione della Verità rivelata: Gs 44) al contatto con
ciascuna cultura. Non si può più confondere l’annuncio del
vangelo con l'annuncio della vita occidentale di vivere il
Vangelo, di esprimerlo nella comunità , di sistematizzarlo nella
teologia.
Stiamo vivendo un
momento veramente storico nella vita bimillenaria della Chiesa.
La facilità e la rapidità della comunicazione e del contatto
diretto fra aree culturali diverse ci fa comprendere in modo
nuovo che cosa voglia dire "annunciare il Vangelo a tutte le
genti". La tentazione di mantenere un potere centrale e
centralizzante tutto costruito all'interno della storia della
cultura occidentale, spinge a confondere l'unità della fede con
l'omologazione della sua espressione sui modelli occidentali. EÂ’
chiaro, e indisputato, che l'elaborazione e l'approfondimento
dell'annuncio cristiano, e del modo di viverlo come singoli e
come comunità , sono maturati nell'arco di quasi 2000 anni
all'interno della cultura occidentale, e che pertanto la Chiesa
emergente da altre aree dovrà muovere da questa vicenda. Ma
dovrà anche proporsi come proseguimento per strade inesplorate e
come arricchimento di questa vicenda. E dovrà trovare le sue
strade: ciò avviene in America Latina, in Africa e anche in
Asia, ma in mezzo a mille difficoltà e a continui ostacoli,
difficoltà e ostacoli generati da molte cause, ma spesso da una
causa pregiudiziale, che è la paura del nuovo.
Ed è qui che si
gioca
la povertà evangelica della Chiesa come non-dominio al
proprio interno: nel lasciare aperta la porta a ogni nuova
possibilità che non tradisca l'essenza del Vangelo, anche se si
va costruendo su modelli di pensiero, di spiritualità , di vita
quotidiana che sono inusitati nella lunga tradizione della
Chiesa cresciuta in Occidente- L'autorità della gerarchia, a
ogni livello, non deve assolutamente trasformarsi in dominio
culturale.
Concludendo, solo
una Chiesa povera al suo interno, veramente libera suo esterno
di fronte ai poteri terreni economici e politici e di ogni altro
genere, solo una tale chiesa può annunciare in modo credibile il
Regno e far progredire la famiglia umana verso la sua finale
trasformazione in famiglia di Dio.
Enrico Chiavacci
Nota:
Enrico Chiavacci, parroco di
Firenze, è docente di teologia morale presso
lo Facoltà teologica dell’Italia Centrale di
Firenze. I suoi contributi cercano legami
tra la morale fondamentale e la morale
sociale e dichiarano il suo impegno, in
particolare, sui temi della pace e sui
diritti dellÂ’uomo. Sul nostro sito trovi
anche
"In nome del dio profitto".
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