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Convertirci all'impossibile

di fr. Alberto Degan dall'Ecuador

 

CONVERTIRCI ALL’ IMPOSSIBILE

 

di fr. Alberto Degan

 

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TESTIMONI DELLA CARITA'    

PROVOCAZIONI DI P. ALEX

 

Prima lettera agli amici dall’Ecuador

Tra Italia, Colombia ed Ecuador

I missionari non sono un macchina, e senza dubbio io non sono una macchina. In questi ultimi tre mesi ho viaggiato molto: dalla Colombia all’Italia, dall’Italia alla Colombia, dalla Colombia all’Ecuador. Il viaggio Colombia-Italia dura ‘solo’ 11 ore, ma la distanza - in termini umani e sociali - fra le due realtà è molto piú grande di quanto possano suggerire queste poche ore.

Rileggendo le mie lettere dalla Colombia, vi ho ritrovato, piú d’una volta, un meccanismo d’apprendimento tipico dei limiti dell’essere umano: quando affrontiamo una realtà nuova, cerchiamo di interpretarla pensando ad alcuni elementi ‘simili’ della realtà ‘vecchia’ che abbiamo lasciato. E così, ad esempio, i ‘puentecitos’ di legno del Chocó mi ricordavano le passerelle di Venezia quando c’è l’acqua alta. E la resistenza alla mentalitá paramilitare promossa dalla diocesi di Barrancabermeja mi faceva ricordare quello che mi diceva mio papá su alcuni preti che - durante il ventennio fascista - criticavano certi slogan propagandati dal regime. Insomma, di fronte ad una novitá, all’inizio cerchiamo di capirla sulla base delle categorie - spesso inadeguate - a nostra disposizione. Dopodiché, poco a poco, possiamo entrare più a fondo in questa nuova realtà, cominciando a comprenderla in tutta la sua alteritá e in tutta la sua unicità. Quando questo processo si mette in moto, la nuova realtà comincia a diventarci familiare: finalmente ci sentiamo a casa nostra.

In questi ultimi tre anni la Colombia è stata la mia casa. E per me non è facile lasciare la Terra dell’arcobaleno. Adesso, peró, so che il Signore mi chiama a costruire una nuova casa in Ecuador. E in questo non parto da zero: l’Ecuador è il paese dove sono stato sette anni fa prima d’entrare nel postulato dei Missionari Comboniani, è la terra benedetta dove il Signore mi ha resuscitato dalla paralisi del dubbio e mi ha dato la forza di aprire un nuovo capitolo della mia vita.

Una delle prime cose che scopro, una volta arrivato a Quito, è che certi problemi di cui soffre la Colombia ormai hanno superato la frontiera e sono arrivati in Ecuador. Mi riferisco, in modo particolare, alle fumigazioni che aerei degli Stati Uniti stanno realizzando su tutto il territorio colombiano con lo scopo di distruggere le coltivazioni di coca. Queste fumigazioni - di cui vi parlavo in una lettera l’anno scorso - continuano a ritmo serrato. In un quotidiano equadoregno del 30 settembre 2002 leggo che - di ritorno dal comune colombiano della "Hormiga", a 35 Km dalla frontiera con l’Ecuador - alcuni medici hanno riferito che i bambini della zona soffrono di malattie respiratorie e cutanee, che mucche e galline stanno morendo per mancanza di pascolo e per l’inquinamento dell’acqua, e che lo spettro della fame sta per cadere su centinaia di campesinos, cocaleros e non cocaleros. Il sindaco della "Hormiga" ci informa che le fumigazioni hanno distrutto il 60% delle coltivazioni di yuca e il 55% delle coltivazioni di banano.

Come se questo non bastasse, il vento ha portato il glifosato - la sostanza chimica utilizzata da questi aerei - fino in Ecuador. E cosí, il pesci-cultore equadoregno Victor Mestanza ha denunciato che a causa delle fumigazioni sono morti 70.000 pesci in pieno processo di allevamento nelle sue 22 piscine. E altri agricoltori lamentano danni simili. 

Senza andare in pensione

Giunto in Ecuador, ho fatto un ‘giro’ per tutte le comunitá comboniane presenti nel paese. La cosa che mi ha colpito di piú in questo ‘giro’ è vedere tanti missionari in etá da pensione lavorare con un ritmo di lavoro molto duro. Padre Raffaele, ad esempio, ha 64 anni, e ha seri problemi di vista. A 64 anni, molti si stanno godendo la meritata pensione: a padre Raffaele, invece, a quest’età è stata offerta la responsabilità della parrocchia di Borbòn, che è una parrocchia del ‘campo’, che obbliga il sacerdote a visitare parecchie comunità, molte delle quali si raggiungono solo con la canoa o a cavallo. E poi c’è padre Antonio che - alla giovane età di 87 anni - è missionario nella comunità della Catorce, altra parrocchia del ‘campo’. L’esempio di questi missionari per me è uno stimolo ad impegnarmi con entusiasmo al servizio del Regno.

La carezza di Edoardo

Un fenomeno che da un po’ di tempo è salito alla ribalta nazionale, qui in Ecuador, è quello dei bambini affidati alla nonna e rimasti praticamente senza mamma, costretta dalla crisi economica a cercare fortuna all’estero. Soprattutto in certe regioni del paese, questo fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti. Nella provincia di Riobamba, ad esempio, si calcola che più del 10% dei bambini vive senza la mamma, e ciò provoca in loro un senso di abbandono e bassi rendimenti scolastici.

Veronica Berrones, ad esempio, di sette anni, è molto incerta in matematica e impiega ben cinque minuti per leggere una frase di sei parole. Tuttavia, acquista improvvisamente sicurezza quando le si fanno domande sulla Spagna, il paese dove lavora da due anni la mamma, e sa spiegarti senza difficoltà come funziona un telefonino, e come fare per mandare o ricevere messaggi: "Tutti i giorni aspetto la chiamata della mamma", dice Veronica. "Generalmente la mamma chiama di notte, e questo è l’unico momento felice della mia giornata". Mi colpisce sentire che per avere un momento felice durante il giorno, Veronica deve aspettare la notte.

Provo a immaginare come possano sentirsi queste bambine che è da due anni che non ricevono una carezza dalla mamma, e subito mi viene in mente Edoardo, il mio nipotino di un anno. In quest’ultima, breve estate, in cui ho potuto godermelo un po’, ho cercato di insegnare a Edoardo ad accarezzare. Quando gli chiedevo di fare una carezza allo zio, Edoardo avvicinava la sua manina incerta alla mia guancia con un gesto che assomigliava a una carezza. E quanto mi manca la carezza di Edoardo!...

Cercando e coltivando i semi

"Se Giovanni ha un figlio gravemente ammalato, a chi si rivolge?"

"E se la señora Margarita oggi non ha niente da dare da mangiare ai suoi figli, cosa farà?".

Queste sono le domande che Alfredo, sociologo e responsabile diocesano della Pastorale Sociale di Portoviejo, fa a un gruppo di catechisti e leader delle comunità campesinas della Catorce. E la maggioranza di questi contadini risponde che senza dubbio la prima cosa che faranno Juan e Margarita sarà chiedere aiuto ai loro vicini.

I campesinos, dunque, possono ancora contare sulla solidarietà dei loro vicini: il vicino, per loro, è fattore di speranza. (Per contrasto, penso a certe liti fra condomini di casa nostra). "Dobbiamo saper riconoscere i semi della pianta che odora a solidarietà", commenta Alfredo."E questi semi esistono ancora nelle nostre comunità".

Uno di questi è il cosiddetto ‘prestamanos’ o ‘cambio de brazos’. Ad esempio, succede ancora che Juan aiuta Josè - suo ‘compadre’ - a pulire il terreno per la semina, e in cambio Josè presta a Juan i semi da seminare nel suo orto.

Un altro di questi semi di solidarietà è la ‘minga’, il lavoro comunitario volontario e gratuito. Ad esempio, tutti i campesinos di una comunità si impegnano a costruire la cappella o a pulire le strade del ‘caserìo’, togliendo rami e sporcizia varia.

Tuttavia, sappiamo che la mentalità individualista dell’economia neoliberale tende - soprattutto nelle città - a distruggere tutte queste forme tradizionali di solidarietà. E così, in una società caratterizzata dall’assolutizzazione dell’idolo del profitto individuale, il vicino non appare più come prossimo che si fa carico del mio problema, ma piuttosto come potenziale avversario, come disturbo, o - nella migliore della ipotesi - come elemento indifferente dell’ambiente che mi circonda.

Di fronte a questo vento neoliberale, che soffia con prepotenza nella nostra mente e nel nostro cuore, i semi di un’economia solidale - come il ‘prestamanos’ o la ‘minga’ - appaiono molto fragili.

Come cristiani, dunque, dobbiamo cercare e proteggere questi semi, per poi coltivarli e moltiplicarli, con la consapevolezza che lavorare per un’economia solidale è lavorare per il Regno.

Questo è quello che sta facendo un gruppo di donne della Catorce. Doña Berta mi spiega che hanno formato un gruppo di quindici mamme: ogni mese ogni mamma mette un dollaro in un Fondo di solidarietà (15 dollari) ; e ogni mese si presta questo fondo a una di loro, perchè possa invertirlo in qualche attività. Alla fine del mese, la donna restituisce al gruppo il denaro ricevuto, aggiungendovi 10 centesimi. Col passare del tempo il fondo si ingrandisce, e così adesso si può prestare un po’ di denaro a due o tre donne contemporaneamente, e si può allungare il tempo del prestito fino a due o tre mesi.

Questo è solo un esempio della ‘creatività solidale’ dei campesinos. E non è un caso che si tratti di un gruppo di donne. A questo proposito Alfredo mi dice che la ricerca sociologica più recente rivela che in America Latina la persona sulla quale si può ancora contare per chiedere aiuto, la persona solidale che riesce ancora ad opporsi - a volte in modo inconsapevole - al consumismo e all’individualismo imperante è la donna come madre e nonna: a partire da qui si può cominciare ad organizzare una resistenza all’economia neoliberale, ri-apprendendo a costruire un tessuto comunitario solidale. E così non c’è da meravigliarsi se la maggioranza delle iniziative di pastorale sociale nella diocesi di Portoviejo sono portate avanti da gruppi di donne.

Qualcuno dirà che è impensabile, eppure la mamma e la nonna sembrano essere l’ultimo baluardo contro l’avanzata - apparentemente inarrestabile - di un’economia vorace e senza cuore, un’economia che quasi ci fa rimpiangere la legge della giungla perchè, come diceva padre Balducci, nella giungla per lo meno i ritmi naturali imponevano un argine ‘naturale’ e ‘intangibile’ alla prepotenza e alla ferocia. Adesso, invece, sembra non esserci alcun limite.

Certo, questo progetto di un’economia solidale sembra impossibile, e soprattutto impossibile che a portarlo avanti siano le donne, che per molti aspetti rappresentano l’anello più debole della catena, di fronte ai potenti strumenti di cui possono servirsi le grande agenzie finanziarie. Eppure... Anche Dio, per realizzare il suo progetto ‘impossibile’ di dare carne alla Parola divina si è affidato ad una donna.

Convertirci all’ ‘impossibile’

Nel 1984 la candidata democratica alla vicepresidenza degli Stati Uniti era una donna, un’italo-americana: Geraldine Ferraro. Ricordo che durante la campagna elettorale un giornalista le fece questa domanda: "Lei è una donna. Se sarà eletto presidente Walter Mondale, lei sarà la sua vice, e nel caso che Mondale muoia lei sarà il presidente degli Stati Uniti. Sappiamo che a volte il presidente è costretto a prendere misure e decisioni ‘forti’, come ad esempio quella di dichiarare guerra. Lei, come donna, sarebbe all’altezza della situazione, ovvero, saprebbe prendere la decisione di usare armi e di andare ad uccidere altra gente, i nostri nemici?"

Geraldine Ferraro rispose che lei sarebbe capace di far guerra come un qualsiasi uomo. Ricordo che mi colpì il fatto che in un paese ‘cristiano’ un uomo o una donna - per dimostrare di essere un buon politico, all’altezza della situazione - deve saper convincere d’essere capace di ammazzare, capace di ordinare di ammazzare. Di fatto, l’arte del governare è strettamente connessa alla violenza: la capacità di uccidere e di far guerra è considerata una virtù, e così, per aver successo in politica, bisogna presentarsi come uomini e donne ‘forti’, cioè uomini o donne disposte a usare la violenza.

Il presidente Bush ha inventato l’espressione ‘guerra preventiva’ per giustificare un attacco contro le città irachene, il che provocherebbe un massacro di civili. Tempo fa si diceva che la politica e la diplomazia sono il mezzo per prevenire le guerre; adesso, invece, ci dicono che la guerra è il mezzo per prevenire altre guerre. Praticamente, nell’ottica di Bush, la guerra ha completamente sostituito la politica: sembra che affrontare problemi di politica estera o divergenze fra Stati implica necessariamente fare guerra. Allora, se la politica si identifica con la violenza e la guerra, è più che mai urgente organizzare una ‘antipolitica’, o meglio, una ‘nuova politica’, un discorso politico completamente sganciato dalla guerra. Come comunità cristiana dobbiamo affrontare questa sfida: è possibile una politica senza violenza, una politica che si sviluppi al di fuori della logica della guerra?

In un documento del 1993, "Il raccolto della pace si semina nella giustizia", i vescovi nordamericani avevano scritto: "I capi delle nazioni hanno l’obbligo morale di far in modo che - di fronte ai conflitti - si prendano in considerazione le alternativa nonviolente. Dovremmo cercare e promuovere nuove linee diplomatiche di prevenzione e risoluzione dei conflitti…Le strategie nonviolente richiedono una grande attenzione a livello internazionale" I vescovi statunitensi, dunque, propongono una politica estera nonviolenta: una utopia? un sogno ‘impossibile’? Può darsi, ma il vangelo ci dice che "per Dio non c’è nulla di impossibile" (Lc1,13).

La strategia della ‘guerra preventiva’ non lascia alcuno spazio ad una politica di dialogo e di pace, e ci mostra come unico orizzonte possibile la violenza imperiale e la contro-violenza terrorista. Di fronte a questo orizzonte di morte come ‘unico possibile’, l’ ‘impossibile’ appare davvero come l’unica via di salvezza. "Se non vi convertite, morirete tutti" (Lc13,3), ci dice Gesù, e cioè: Se non ci convertiamo all’ ‘impossibile’ di Dio, moriremo tutti dentro i nostri progetti ‘possibili’ e ‘realistici’.

La ‘guerra preventiva’ del presidente Bush e i progetti terroristi di Al-Qaeda sono un segno dei tempi su cui dobbiamo meditare: forse Dio vuole dirci che il progetto ‘impossibile’ di suo Figlio - non rispondere al male con il male, mettere la spada nel fodero e rinunciare alla violenza - è l’unico realistico cammino di salvezza.

In attesa di Guayaquil

Fra qualche giorno finalmente raggiungerò la mia destinazione definitiva: Guayaquil. Lì sarà la mia nuova casa, lì il Signore mi sta aspettando.

 Fratel Alberto 

 

 

 



se vuoi comunicare con  f. Alberto Degan  scrivi all'indirizzo albidegan@hotmail.com

oppure all'indirizzo:                                      AlbertoDegan                                        Misioneros Combonianos                                     Las Malvinas – Guayaquil                    Ecuador

Ci sono nel sito altre lettere di Fr. Alberto Degan scritte dalla Colombia se vuoi leggerne una  
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