La tua vita un dono
di suor Dorina dall'Uganda
Uganda-Testimonianze
UNA VITA – UN DONO di Sr. Dorina Tadiello, smc Gulu, 5 dicembre
2000
Oggi,
all’una di notte, è deceduto il dott. Matthew
Lukwiya, Direttore Sanitario dell’Ospedale St. Mary, Lacor. Da una
settimana erano comparsi i primi sintomi di ebola ed era stato ammesso nel
reparto di isolamento. Con la notizia della sua malattia la vita si era fermata
a Gulu. Sul volto di ogni persona c’era incredulità, dolore e nel cuore la
segreta speranza in un miracolo che il Signore non poteva rifiutare. Tutti
sembravano pietrificati, si muovevano come automi, incapaci di credere e
accettare la verità. Nel silenzio che avvolgeva Gulu
si è levata, subito, la preghiera sommessa e accorata. Ovunque gruppi di
persone si radunavano in lunghe ore di adorazione e veglie, mentre la notizia si
diffondeva rapidamente dentro e fuori il Paese. La sua malattia era sulle prime
pagine dei quotidiani. Anche nella sua abitazione la moglie e la mamma hanno
continuato a vegliare, alternandosi in preghiera, dall’inizio della sua
malattia fino al momento della morte. Ovunque la gente ci fermava e chiedeva
come stesse, per ripartire poi, chiusa nel proprio inconsolabile dolore. Oggi i
cuori sono spezzati, ma tra le lacrime rifulge la luce della sua straordinaria
statura umana, professionale, etica e spirituale. Conoscevo
da anni il dott. Matthew. Nelle mie frequenti visite al Lacor Hospital avevo
avuto l’ occasione di scambi di opinioni su diversi argomenti che riguardavano
il nostro comune impegno nel campo sanitario. Erano sempre momenti di grazia,
perché le sue riflessioni erano molto ricche, profonde, significative, e sempre
vissute con quella coerenza e dirittura morale, che tutti gli riconoscevano e lo
rendevano credibile e autorevole. Ma l’esperienza più straordinaria è stata
quella di aver lavorato al suo fianco, per più di un mese, nel reparto
infettivi con gli ammalati di ebola. L’UOMO
Matthew
Lukwiya nasce il 24 novembre 1957 a Kitgum, nella maternità gestita dalle Suore
Missionarie Comboniane. Si distingue per doni particolari di intelligenza
che gli permettono di essere il primo della scuola alla fine delle elementari;
primo del Nord Uganda alla fine delle medie e primo del Paese alla fine delle
superiori. Completata,
in modo brillante, la scuola di medicina nella prestigiosa Università di
Makerere, arriva all’ospedale di Lacor per il suo tirocinio post-laurea. Dopo
pochi mesi di servizio, Lucille e Pietro
Corti (fondatori del St.Mary’s Hospital) individuano in lui la persona ,
inviata dalla Provvidenza, per prendere il loro posto nella futura gestione
dell’ospedale missionario, considerato uno dei complessi più funzionali e
importanti del Paese. Va a Liverpool per la specializzazione in Pediatria ai
Tropici distinguendosi, ancora una volta, per la sua bravura. Al termine del
corso gli viene offerta la possibilità di restare come
membro del corpo insegnante, cosa che gli avrebbe assicurato una
brillante carriera a livello mondiale. Lui preferisce ritornare e servire la sua
gente, gli Acholi del Nord Uganda, così duramente provata dalle drammatiche
vicende politiche e militari. Lavora
ininterrottamente la Lacor Hospital e assume la direzione dell’Ospedale.
Nell’agosto 2000 termina una nuova specializzazione in Sanità Pubblica
all’Università di Makerere, Kampala. IL dott.
Matthew è una persona semplice, umile, aperta e accogliente. Il suo abituale
sorriso e la sua cordiale affabilità non mascherano la forte personalità, la
dirittura morale, il senso della giustizia e un forte amore per la pace.
Spiccano, in lui, il senso di responsabilità e l’impegno generoso e
disinteressato. Non agisce mai per tornaconto personale. Sa essere credibile e
avvincente perché, per primo, vive quello che chiede agli altri, e quanto dice
viene sempre dal profondo del cuore, senza falsità. Ha una capacità innata di
gestire i conflitti, sdrammatizzare situazioni di forte tensione, guardare e
valorizzare gli aspetti positivi della realtà. Sa essere molto comprensivo,
umano, rispettoso, ma contemporaneamente è un educatore esigente con il
personale e un professionista intransigente, per offrire sempre il meglio. Il
suo atteggiamento dimesso, semplice, nasconde un gigante, un uomo dalla statura
eccezionale, come lo definisce l’Arcivescovo Odama. L’EBOLA, LA GRANDE SFIDA Il
dott. Matthew arriva a Gulu alla fine di settembre e si trova di fronte a una
grande sfida. Nel giro di pochi giorni muoiono, contemporaneamente, tre allieve
infermiere e due infermiere generiche, per un male misterioso. E’ lui a fare
l’ipotesi di ebola. Parte immediatamente per Kampala, lancia l’allarme alle
autorità sanitarie del Paese e coinvolge organizzazioni internazionali. Grazie
alla sua competenza professionale, Matthew viene subito creduto e i campioni di
sangue inviati in Sud Africa per i controlli confermano la sua diagnosi. In 24 ore
l’ospedale di Lacor allestisce un reparto isolamento, secondo le direttive
dell’ Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS), che diviene subito operativo,
meritando l’apprezzamento degli esperti mondiali, primo esempio, in Africa, di
tempestività ed efficienza. Lo stesso
avviene col lavoro sul territorio, grazie a un comitato di distretto che
coordina gli interventi. Si moltiplicano le commissioni e gli impegni di Matthew.
Il suo contributo è sempre molto apprezzato e preso in considerazione da tutti,
che gli riconoscono alta professionalità e cono scienza del contesto culturale
e sociale. La sua presenza a ogni incontro è considerata indispensabile. Io ero a
Kampala quanto è giunta la notizia della nuova epidemia. Terminati, in tutta
fretta, gli impegni più urgenti, parto verso Gulu per visitare le sorelle delle
due comunità che vi si trovano e offrire la mia disponibilità per questa
emergenza. Non è facile trovare Matthew, sempre preso dai suoi numerosi
impegni. Dopo parecchi tentativi, finalmente, ci incontriamo. Lo ringrazio per
quanto sta facendo, gli porto i saluti di sr. Aldina, nostra provinciale, e
l’assicurazione delle preghiere di tutte le comunità. Mi ringrazia con il suo
abituale sorriso e la sua cordialità, apprezza la mia presenza a Gulu e la
disponibilità ad aiutare. Mi racconta come sia riuscito a coinvolgere il
personale ospedaliero: in un incontro chiede la collaborazione volontaria per
servire nel reparto ebola. Si sa che la malattia è molto insidiosa per il
personale sanitario. Durante l’epidemia in Zaire erano morte 60 persone tra
personale medico e paramedico. Circa 40 infermiere e due medici hanno già
risposto al suo appello costituendo, così, un gruppo consistente, perciò
aggiunge:” Non voglio esporre al contagio un numero di persone superiore allo
stretto necessario; ti chiamerò in caso di necessità reale e ti sarò
riconoscente se mi potrai aiutare”. Un giorno
arriva la sua chiamata, mi presento in servizio. Mi introduce alla nuova realtà,
presentandomi le poche e scarne conoscenze di questo terribile morbo. Mi spiega
che l’ebola è un male che colpisce di tanto in tanto qualche remoto angolo
d’Africa, fa qualche centinaio di vittime e poi scompare. E’ difficile che
possa interessare l’opinione pubblica, quindi investire risorse nella ricerca
e nella terapia non interessa perché non sarà mai un grosso affare
commerciale. Questo non corrisponde al suo modo di pensare. Per quanto difficile
sia esplorare questa realtà, senza poter utilizzare la diagnostica di
laboratorio per paura del contagio, bisogna saperne di più. I nostri giri in
reparto fra i malati di ebola sono particolarmente impegnativi. Osservazione e
descrizione meticolosa e giornaliera di sintomi, segni, osservazioni, variazioni
del quadro clinico nel tentativo di aprire nuove vie di comprensione e terapia.
Incontri settimanali con gli esperti sanitari mondiali presenti a Gulu per
coordinare le attività e tentare di mettere a frutto le sue conoscenze
scientifiche, le intuizioni o ipotesi cliniche. A coronamento di tanta fatica,
la mortalità tra i malati di ebola nel nostro reparto era del 45%, contro
l’80-90% segnalata in recenti epidemie in altri Paesi. Non che per lui sia
sempre tutto facile. A volte commenti superficiali, notizie scorrette,
pregiudizi e insinuazioni sulla validità del suo lavoro, lo fanno soffrire. In
uno di questi incontri, lui dichiara:” Sono amareggiato e risentito per
commenti fatti alle mie spalle e basati su notizie viziate, forse, da pregiudizi
o superficialità. Credo che l’esposizione fondata sulle basi scientifiche
delle mio approccio clinico all’ebola, e il dibattito seguitone, abbia
chiarito ogni dubbio in proposito. Chiedo, per il futuro più correttezza nelle
relazioni fra di noi, più confronto aperto, leale e sincero. Sarò sempre
disponibile per chiarimenti a chiunque abbia dubbi o perplessità, ma odio la
disinformazione e la calunnia. Chiedo correttezza professionale come si conviene
a gente del nostro livello e che sola può creare le basi per una collaborazione
proficua e duratura.” I presenti acconsentono, presentando le loro scuse.
L’indomani il rappresentante dell’OMS di Ginevra a Gulu, che presiedeva
l’incontro mi dice:” Sono davvero spiacente per l’incidente di ieri.
Vorrei che lei mi aiutasse a far capire al dott. Matthew
quanto apprezziamo e valorizziamo la sua competenza professionale e la
sua esperienza. E’ la prima volta che ci troviamo di fronte un uomo della sua
statura. Spero sia tutto chiarito e continui a offrirci il suo prezioso
contributo. E’ la prima volta che, in Africa, ci confrontiamo con un modo di
affrontare la sanità a questo livello. Per noi è una grande sfida.” Il
desiderio di conoscere di più per servire meglio i malati, non ha mai offuscato
la lucida consapevolezza di esporre se stesso e gli altri a un grande rischio.
Nell’ultimo incontro con il personale in servizio nell’isolamento, una
settimana prima di ammalarsi, ripete:” Vi prego, vi supplico di seguire tutte
le istruzioni datevi nel corso introduttivo. Secondo gli esperti dovrebbero
garantirci una buona protezione. Dobbiamo essere sempre attenti, nonostante la
stanchezza e la tensione. Dobbiamo aiutarci a vicenda, non solo vigilando sul
nostro comportamento, ma anche su quello delle persone vicine a noi,
correggendoci gli uni gli altri e accettando con semplicità e gratitudine
quella parola, quel richiamo che può forse, salvarci la vita. Davanti a noi
abbiamo una grossa battaglia che, forse, sta per finire, ma non ne siamo sicuri. Per vincere
una guerra ci vogliono strategie chiare. Vi invito a superare questioni
personali o incomprensioni che distruggono le nostre energie, per impiegare
meglio le nostre risorse coltivando l’unità, la collaborazione, l’amicizia,
il sostegno reciproco, la correzione fraterna, leale e corretta. Guardate ai
medici che lavorano con me. Non è forse un gruppo unito nel quale tutte le
energie e i doni di ciascuno sono al servizio di tutti ? E’ l’esempio che vi
metto davanti”. E aggiunge:” Non potete immaginare quanto mi siate cari. Il
vostro viso è impresso dentro di me. Siete quanto ho di più prezioso in questo
momento. Senza di voi non avrei potuto fare nulla, per questo la vostra vita ha
un valore inestimabile per me e gli altri che aspettano il nostro servizio. Noi,
con il nostro sacrificio, abbiamo salvato molte vite umane. Abbiamo anche
impedito che ne venissero infettate molte altre, le statistiche parlano di
cinque nuovi casi per ogni infetto non curato. Abbiamo ridotto l’impatto
drammatico di questa tragedia. Questo servizio prezioso potrà continuare se
proteggeremo le nostre vite compiendo ogni sforzo possibile. Non potete
immaginare la mia sofferenza quando uno di voi si ammala o muore. Credo che
nessuno abbia provato quello che ho sentito io in questi tempi.” E
continua:” La cura, la compassione che vogliamo dare al malato deve passare
dalla nostra testa. Ogni gesto che facciamo deve essere ponderato attentamente e
valutato nelle sue implicazioni. Il gesto impulsivo può essere molto pericoloso
per noi e per gli altri. Il cuore da solo può creare danni.” Nello stesso
incontro aggiunge:” Possiamo essere stanchi, avviliti per la morte di persone
care, possiamo avere paura in quanto persone umane e possiamo considerare, in
ogni momento, la possibilità di andarcene. Abbiamo la libertà di scegliere,
nessuno ci può trattenere contro la nostra volontà. Allora riposerebbe il
nostro corpo, ma non il nostro spirito. Sapremmo che potevamo offrire un aiuto a
chi era disperato e non l’abbiamo fatto. Se io lasciassi in questo in questo
momento, non potrei più esercitare la professione medica nella mia vita. Non
avrebbe più senso per me.” Quando qualcuno dice che il lavoro
nell’isolamento gli procura emarginazione e anche derisione da parte di certi
colleghi, risponde:” Vi chiedo di riferirmi incidenti di questo tipo. Vi
assicuro che, senza passare per i normali canali della commissione disciplinare,
quella persona sarà immediatamente allontanata dal lavoro. Chiunque deve capire
quanto sia grave un atteggiamento simile.” Circa un
mese prima, dopo la messa funebre di sr. Pierina, delle Little
Sisters of Mary Immaculate, morta di ebola mentre assisteva i malati
dell’ospedale governativo di Gulu, era stato invitato a rivolgere una parola
ai presenti. Dopo aver ricordato la sua personale amicizia con sr. Pierina, la
stima per la sua preparazione professionale e il suo spirito di dedizione,
aggiunge:” Noi dell’ospedale di Lacor abbiamo conosciuto molti momenti
difficili: guerra, guerriglia, saccheggio, distruzione, epidemie, e ogni volta
siamo stati in grado di rispondere con tutte le nostre energie e vincere.
Pensavamo che non ci fosse niente di peggio di quello che avevamo già vissuto,
ma non avevamo fatto i conti con l’ebola. Il male è terribile: colpisce in
poco tempo quasi tutti gli organi, il dolore è lacerante, mentre la mente
rimane lucida fino alla fine nella maggioranza dei casi. E’ per questo che è
importante il lavoro del personale sanitario. Ridurre la sofferenza, curare, per
quanto possibile, la malattia e controllare il contagio è il nostro obiettivo.
Da quando è iniziata l’epidemia sto facendo una riflessione che dà una
svolta alla mia vita Riguarda la comprensione della professione medica. Forse,
quando la scegliamo, lo facciamo per prestigio personale, perché siamo
intelligenti o perché vogliamo salvare le vite umane. Oggi capisco che è una
vocazione, una chiamata da Dio e che il servizio alla vita è inscindibile dalla
disponibilità a donare la propria vita. Sono consapevole del rischio attuale
nell’esercizio della professione medica, ma ho fatto la mia scelta e non mi
tiro indietro. La mia vita è cambiata, non sarà più come prima. A illuminare
questa decisione c’è anche l’esempio del nostro personale morto di ebola.
Sono tutte persone giovani, all’inizio della loro carriera con un futuro
davanti, sogni da realizzare e, all’improvviso, si trovano di fronte alla
morte. Mai una parola di rimpianto, di risentimento o pentimento per aver scelto
una professione così rischiosa. Hanno accettato con serenità la tragica realtà. Daniel, in punto di morte, ha
ringraziato per tutto quello che aveva ricevuto durante la sua permanenza alla
scuola infermieri e aveva aggiunto:” io sto per morire, ma voi continuate con
coraggio, è troppo importante il nostro lavoro”. Sono tutti martiri della
carità”. MARTIRI DI
CARITA’
Il
personale occupa un posto privilegiato nel cuore di Matthew. Quando sr. Pierina
muore sono presente. Nel vedere che la sua vita è ormai alla fine, il personale
in servizio si raduna nella sua stanza e inizia a pregare e cantare con voce
sommessa. Quando spira, dopo i primi momenti di commozione, i presenti
riprendono a pregare. Una giovane infermiera dice:” Dicono che Tu sei il
Signore della vita. Questo per noi è un momento difficile. Non capiamo perché
Tu non abbia salvato una che si è donata per amore… Signore noi, questa
notte, ti vogliamo celebrare come il Signore della vita, rendiamo lode al tuo
nome, ti glorifichiamo, ti lodiamo Signore della vita!”. Mi guardo intorno,
sono tutti ragazzi giovani, vivono questo mistero di morte e di vita in modo così
toccante. Al mattino
condivido con il dott. Matthew questa esperienza, e lui commenta:” Sai,
Dorina, se guardiamo con gli occhi della fede ci rendiamo conto che qualcosa di
grande sta avvenendo attorno a noi e noi ne siamo testimoni. Per ora lo
intravvediamo solo in modo confuso. Stiamo vivendo un lungo venerdì di
passione, ma incominciamo a scorgere la luce di Pasqua… Mai come ora ho capito
l’importanza del nostro personale. Le cose straordinarie che può fare se
motivato, incoraggiato, sostenuto. Dobbiamo investire di più per esso. E’ la
sfida che ci attende per il futuro. Ammiro la generosità con cui il personale
più giovane ha risposto, ma sento la responsabilità della loro scelta. Mi
chiedo spesso, Dorina, fino a che punto siano davvero consapevoli della
decisione presa. Io e te conosciamo pienamente la realtà. Alla nostra età
abbiamo un livello di maturità che ci consente di sapere perché siamo qui, e
siamo in grado di assumerci la responsabilità del nostro gesto, ma loro… sono
molto preoccupato. Per questo è importante che noi stiamo loro molto vicini, li
ascoltiamo, capiamo e aiutiamo”. Considerando poi che poche persone della
nostra età avevano risposto positivamente all’appello, diceva:” Mi
piacerebbe che la generosità, lo spirito di dedizione non fossero solo una
scelta dei primi anni di professione, ma uno stile di lavoro e d’impegno che
si protrae nel tempo. Le motivazioni al servizio non sono né scontate né
automatiche, Sono frutto di un processo di crescita che va coltivato… Dopo
l’ebola tutti questi aspetti andranno attentamente valutati”. Poi si
ammala Grace e muore lasciandoci,
come ultimo messaggio, i suoi canti di lode a Dio e la gioia dell’annuncio,
così importante per lei che si sentiva evangelizzatrice. Quindi è la volta di Simon.
Arriva nel nostro reparto in condizioni gravi. Il quadro clinico peggiora
rapidamente. Verso sera viene la moglie e dice che desidera che Joseph, un
laboratorista dell’ospedale e grande amico di Simon, lo possa incontrare prima
che sia troppo tardi. Lo accompagno seguendo le normali procedure. Joseph fa una
lunga, toccante preghiera di intercessione per la guarigione con molte citazioni
bibliche, in particolare salmi. Alla fine conclude dicendo:” Simon, stiamo
tutti pregando per il miracolo della tua guarigione. Tu sei cristiano e
cattolico, devi vivere questo momento della malattia e della morte, se il
Signore ti chiamerà, secondo la tua fede. Devi essere un testimone in questa
realtà, di quello che credi. Il Signore ti darà la forza. Se tu sei
d’accordo io ti suggerisco di chiamare il Padre”. Simon ascolta in silenzio,
a occhi chiusi. Con il capo accenna di acconsentire e chiede il Padre per
ricevere i sacramenti. Quella sera rimango fino a tardi con lui. Mentre guardo
il suo viso così buono e dolce mi ricordo quello che la nostra sorella, sr.
Akberet, che lavorava con lui, diceva spesso:” Simon è uno dei migliori
infermieri che io abbia incontrato. Sempre pronto ad aiutare chi è nel bisogno,
è il primo a prendersi cura dei casi più disperati che abbiamo in reparto”. A sera
tardi prima di lasciarlo gli dico:” Simon è un momento difficile, ma
il Signore non ci abbandona in queste situazioni”. Lui stringe fra le mani il
rosario che ha chiesto, e risponde:” Sapessi, sr. Dorina, com’è vero. Lo
sento così vicino!” Simon muore quella stessa notte assistito, fino alla
fine, dal dott. Matthew che aveva sempre ripetuto che non avrebbe mai
abbandonato il suo personale. Dopo la sua morte piange, con tutti i colleghi in
servizio quella notte, la perdita di una persona così cara e così valida. Al
mattino mi confida:” Sr. Dorina, questa è stata l’esperienza più
drammatica della mia vita”. Il giorno
dopo mentre mi reco al lavoro, incontro la moglie di Simon, Federica, anche lei infermiera dell’ospedale. Mi sento così a
disagio, senza parole, so quanto si amavano. Erano conosciuti come una delle
coppie più unite. Lei, forse, intuisce la mia difficoltà e mi chiama:” Sr.
Dorina, voglio ringraziarti per essere venuta a lavorare nel reparto “ebola”.
Grazie per aver fatto tutto il possibile per mio marito”. Rispondo:” Non
puoi immaginare quanto sia addolorata per quanto è successo”. Lei
riprende:” So che Dio è presente in tutto quello che ci succede. Questa è la
mia forza. Sono sicura che Simon mi aiuterà dal cielo. Abbiamo ancora una
grande responsabilità: una grande famiglia da portare avanti… Sono sicura che
il Signore mi aiuterà, questo mi dà un grande senso di pace..”. Poi si
ammala Immacolata, l’infermiera che
lavorava in maternità. E’ da poco arrivata nel nostro reparto e mi fermo a
parlare un po’ con lei. Non l’avevo mai conosciuta, ma lei sa molto su di
me. Mi racconta che viene da una famiglia profondamente cattolica e che desidera
ricevere la comunione ogni giorno. Mi chiede di chiamare il Padre. Si confessa e
comunica. Il giorno dopo la sua morte incontro i genitori, sono loro a
consolarmi dicendomi:” Sister, siamo una famiglia cristiana e con questo
spirito viviamo il nostro dolore. Ci sentiamo solidali con le tante vittime
innocenti di questa tragedia”. Anche Hellen,
infermiera professionale di questo Ospedale, muore lasciando una testimonianza
toccante della sua fede. Un’ora prima della sua morte, a notte fonda, sapendo
che ormai non c’è più nulla da fare, decido di andare a casa a riposare per
qualche ora e poi ritornare. Lei è molto inquieta. Il dolore non passa
nonostante gli analgesici. Non può più deglutire neppure una goccia d’acqua,
non riesce a trovare una posizione per poter riposare. Le dico:” Hellen, vado
per qualche ora a riposare, poi ritorno. Vuoi che facciamo una preghiera
insieme?”. Mi ringrazia. Per tutto il tempo della preghiera non si muove.
Continuo a fissarla per cogliere ogni minimo segno di stanchezza. Niente, lei è
così assorta, che sembra seguire vivendo in un’altra dimensione. Mi commuove
così tanto da non riuscire a trattenere le lacrime. Alla fine mi ringrazia
ancora con la finezza e gentilezza che non era mai venuta meno, neanche nei
momenti più dolorosi. Un’ora dopo un infermiere bussa alla finestra della mia
stanza per informarmi che Hellen è appena spirata. UN DOLORE LACERANTE
La morte di
ognuno è un dolore lacerante e inconsolabile, ma si deve continuare. A commento
della loro morte Matthew dice:” Ti ripeto, sr.Dorina, che quello che stiamo
vivendo è il progressivo manifestarsi di un grande mistero di luce. Siamo
davanti al martirio e alla santità. Non c’è altra definizione per quello che
vediamo. Il loro sacrificio continuerà a motivare la nostra dedizione anche in
futuro. Mi spiace che non si sia pensato di seppellirli in Ospedale, magari
vicino a Lucille, ma tutto è successo così rapidamente che non c’è stato
tempo per pensare. La loro costante presenza fra noi ci avrebbe aiutato a fare
memoria del vero spirito che deve animare il nostro servizio. Dopo l’ebola
dovremo considerare come valorizzare il loro sacrificio”. Il dott.
Matthew era un uomo profondamente spirituale e da quando era iniziata l’ebola
lo si trovava, ogni sera, in ginocchio assorto in preghiera. Ma anche con i
malati, durante il giro, si raccomandava spesso alle loro preghiere dicendo:”
La vostra preghiera unita alla sofferenza, è molto preziosa davanti al Signore
e ha una forza superiore a tutte le nostre preghiere”. Nel ’94,
quando sono venuta a Gulu per iniziare il lavoro con i malati di AIDS gli ho
chiesto se avesse qualche suggerimento da darmi. Rispose:” Dal punto di vista
medico abbiamo ancora poco da offrire, il maggior aiuto può essere quello
spirituale, e tu sei la persona che lo può dare”. Il giorno
seguente alla morte di Santina e
Immacolata, il personale si rifiuta di andare in servizio. Si chiama il dott.
Matthew per un incontro. Io vado nel reparto isolamento in attesa di vedere gli
sviluppi.. Dopo un po’ arrivano gli infermieri. Chiedo a Bob come fosse andata, risponde:”
Il nostro dott. Matthew è molto bravo. Ci ha ascoltato, ci ha capiti, ha
risposto alle nostre domande e con le sue parole ci ha incoraggiati a continuare
e perseverare. Ora ritorniamo tutti in servizio. E’ davvero molto bravo!”.
Quando lo incontro mi dice:” Anche questa nuova crisi si è risolta bene, ma
dovremo aspettarci ancora momenti difficili. Io sono deciso ad andare in
reparto, a pulire anche i pavimenti e poi fare il giro, ma non lascerò mai!”. Dall’inizio
dell’epidemia lui è quotidianamente in reparto. Se ha molti altri grandi
impegni, magari tardi, di sera, viene a vedere di persona la situazione. Se c’è
qualcuno del personale ricoverato allora le sue visite sono frequenti, anche di
notte. Per quanto
possibile vuole essere presente al giro dei medici in reparto, ma se proprio non
può, vuole essere informato. Conosce i malati per nome, e oltre la storia
clinica conosce anche qualcosa di loro ed è molto attento a quello che vivono
dal punto di vista spirituale e psicologico. IO SARO’
L’ULTIMO
Un giorno
iniziano, anche per lui, insidiosi i primi sintomi. Sono molto vaghi e quindi si
spera in qualcosa di banale, nonostante la comprensibile apprensione. Gli esami
di laboratorio parlano di malaria, è per tutti un sollievo momentaneo. Il
persistere della febbre induce a fare il test per l’ebola, è positivo.
Sdrammatizzare ed essere positivo fa parte del suo carattere quindi accetta
facendo del suo melgio per ridurre lo sgomento generale. Col suo sorriso
abituale mi dice:” Sr. Dorina, chi mai potrà capire i piani del Signore!?”,
e aggiunge subito, con apprensione:” Vi raccomando, state molto vicini al dott.
Corti. Ne ha molto bisogno in questo momento”. Trasferito nel reparto
isolamento durante la notte esclama:” Mio Dio, mio Dio morirò di ebola nel
mio servizio, ma voglio essere l’ultimo.” Continua con un canto che
recita:” Avanti con la Croce di Cristo. Gesù nostro Signore ci guiderà
contro il nemico, fin dentro la battaglia. Si muove la Chiesa di Cristo,
fratelli noi siamo in cammino sulle strade dei santi, non siamo divisi, ma un
corpo, uniti nella speranza, nella chiamata, nella carità”. Prosegue con un
altro canto che aveva scelto come suo programma di vita. La mamma racconta che
quando il padre morì Matthew era ancora bambino. Lei radunò i suoi figli e
chiese ad ognuno di scegliere un canto che avesse un messaggio significativo per
loro. Lui scelse il seguente:” Voglio essere come Gesù, umile; non ha mai
detto niente di male, non ha mai offeso nessuno. Voglio essere come Gesù, che
si alzava presto al mattino per salire solo sul monte ed essere con il Padre.
Voglio essere come Gesù che ha compiuto solo del bene, e ha perdonato quanti
gli hanno fatto del male. Voglio essere come Gesù che ha detto a tutti gli
uomini:” Venite, figli del mio cuore”. Non sono ancora come Te, Gesù, c’è
ancora del male in me. Oh Gesù, dammi la tua grazia perché io possa essere
come te”. Il suo
quadro clinico peggiora rapidamente. Lo segue un’ èquipe medica che si
riunisce due volte al giorno per valutarne il decorso. Si offrono anche esperti
di rianimazione dell’OMS. Lui segue ogni discussione e decisione. Chiede di
vedere le sue lastre, vuole sapere il risultato dei suoi esami, e fa i suoi
commenti e proposte. La domenica mattina, alla fine della visita medica,
dice:” Se voi siete d’accordo chiedo un sedativo, ma molto blando. Ora io
sono solo un paziente, tocca a voi decidere.” Il dott.
Matthew vuole conservare fino in fondo lucidità di presenza quasi a vivere con
intensità ogni momento che gli rimane. Dopo il giro con i medici mi fermo un
momento per dire:” Coraggio,
dott.Matthew, tante persone e gruppi stanno pregando per la tua guarigione.”
Risponde:” Grazie, quando la gente prega è la voce di Dio.” Poi gli ricordo
che anche tutte le nostre comunità sono in preghiera. Riprende:” Ringrazia
sr. Aldina e le sorelle e voglio che tu dica a sr. Lina che per me è stata una
vera madre, con tutto quello che questo nome significa.” In pochi
giorni la malattia gli toglie le forze. Parla con voce stentata, a fatica,
mentre il dolore è stampato sul suo viso. Per noi è difficile reggere a tanta
sofferenza. Tutto è successo in modo così rapido, inaspettato, che non
esistono parole di consolazione per quanti siamo stati i suoi più stretti
collaboratori. Guardandolo mi vengono in mente le parole di isaia 53:” Uomo
dei dolori, che ben conosce il patire. Era come uno davanti al quale ci si copre
la faccia.” Il sabato
pomeriggio dice al dott. Yoti:” Sono pronto a tutto, ma sarò l’ultimo a
morire di ebola.” Poi chiede al notaio per firmare il suo testamento.
Nonostante gli sforzi, la situazione precipita rapidamente. Iniziano i contatti
febbrili con esperti a livello mondiale per un’eventuale consulenza e
rianimazione. Ma la domenica pomeriggio del 3 dicembre è chiaro che ormai è
questione di ore. Ora non si può più aspettare. L’unica speranza è quella
di intubarlo, sotto anestesia generale, per tentare di migliorare la funzionalità
respiratoria. La decisione è difficile, ma inevitabile. Anche lui è coinvolto
ne valutarne tutti gli aspetti e accetta. Lotta disperatamente con tutte le
energie, per vivere. Si chiama la moglie che, venuta, fa una toccante
preghiera:” Dio Onnipotente , fin dall’inizio della storia dell’umanità
Tu hai compiuto per noi grandi cose. Hai scelto un popolo, lo hai liberato, hai
diviso le acque del Mar Rosso, hai dato la forza a Mosè, hai ispirato i
profeti… Signore Gesù, nel tempo in cui eri con noi hai risuscitato il figlio
morto della vedova di Naim, hai guarito i ciechi, lebbrosi, paralitici… stendi
oggi la tua mano sul nostro fratello Matthew. Se tu vuoi, puoi guarirlo, se tu
vuoi puoi guarirlo… ma sia fatta la tua volontà”. Arriva la mamma, anche
lei fa una preghiera di supplica e abbandono nel Signore. Poi iniziano i
preparativi. Il dott. Matthew viene aiutato a salire sul lettino dove sarebbe
stato addormentato. Si siede con grande fatica e si guarda intorno. Sa bene che
quello potrebbe essere il suo ultimo sguardo su questa realtà terrena.
Gli anestesisti stanno ultimando i preparativi. Lui si gira a guardare, per un
ultimo saluto, quelli che sono stati i suoi più stretti collaboratori nel
reparto dell’ebola. E’ un momento di intenso dolore. Avremmo desiderato
abbracciarlo per quello che sarebbe stato un commiato definitivo, ma non è
possibile. Il nostro apparato protettivo è quasi una barriera fra lui e noi. Ma
il suo sguardo intenso e forte sembra abbattere ogni ostacolo. Quando incrocio
il suo sguardo profondo e penetrante, mi sembra di non poter reggere il dolore.
Mi viene in mente quanto avevamo condiviso poco prima della sua malattia a
proposito di Grace:” Ricordi, Dorina, lo sguardo di Grace? Così penetrante
che raggiungeva ogni profondità, più eloquente di ogni parola. Non avevamo la
forza di reggerlo, le lacrime solcavano il nostro volto. Lei non mollava, non ci
toglieva gli occhi di dosso”. Ci guardiamo a lungo, in silenzio: è il suo
ultimo messaggio, il suo grande dono prima della “partenza”. Si sdraia sul
lettino. Con un filo di voce dice:” Vi prego di fare in fretta, se possibile.
In questa posizione mi sento soffocare”. Da quel
sonno non si è più risvegliato. Il martedì notte una improvvisa emorragia
polmonare stronca la sua vita. La moglie
arriva prima che venga deposto nella bara per una preghiera, espressione di
grande fede e abbandono nel Signore:” Da questo momento, Signore, prenderai
nella mia vita e in quella dei miei figli il posto che è sempre stato di
Matthew. Tu sarai il nostro conforto, la nostra guida, la nostra forza”. Nel suo
testamento aveva scritto di voler essere sepolto nell’Ospedale davanti alla
grotta della Madonna di Lourdes, accanto a Lucille; anche lei aveva dato la vita
per curare i malati. Mentre esco
di casa vedo gli operai che scavano la fossa, a pochi metri dalla nostra casa;
mi ricordo di qualche anno fa quando, noi Comboniane, lo avevamo invitato a
partecipare a un nostro incontro. Nell’introduzione lo avevo ringraziato per
la partecipazione e mi ero scusata per avergli chiesto del tempo, così
prezioso, considerati i suoi gravosi impegni. Con il suo abituale sorriso aveva
risposto:” Non c’è bisogno di scuse. Per me è un onore essere presente a
questo incontro. Io sono nato nelle mani di una Comboni Sister che ha assistito
mia madre durante il parto. Mi avete accolto all’inizio della mia vita, ho
lavorato con voi, mi sento molto legato alla vostra famiglia da riconoscenza e
gratitudine”. Ora il dott. Matthew sarà sempre qui vicino a noi. Non ci poteva essere fatto dono più grande! Possa la forza del suo esempio, la presenza del suo spirito fra noi, aiutarci a tracciare la via delle scelte profetiche che lui è stato capace di fare. |
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