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La tua mano nella mano di Dio

di suor Dorina dall'Uganda

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“La tua mano nella mano di Dio” – Uganda testimonianze –

di Sr.Dorina Tadiello, smc

  

Gulu, 12 dicembre 2000

 

Se chiedi alla persona che sta al cancello del nuovo anno: “ Dammi una luce perché io possa entrare nelle tenebre”, lui/lei ti dirà: “ Non chiedere una luce. Entra nelle tenebre con la tua mano nella mano di Dio. Questo è meglio di ogni luce o del camminare su sentieri conosciuti". Iniziava con questo breve racconto la lettera ricevuta ieri da un amico, e continuava: “ E’ stato un momento duro per te Dorina, tante cose sono successe una dopo l’altra, crisi su crisi, senza un attimo per riposare. Fermati in silenzio, ritorna a casa tua, al tuo cuore... Ricordi quando ci siamo visti l’ultima volta? Stavi lasciando la missione per andare in ospedale e mi hai detto:- Ho paura, prega per me…”.

Ora sono qua… La bufera sembra passata. Nel nostro reparto solo pochi pazienti in via di  guarigione. Migliaia di persone che hanno avuto contatto con i malati di ebola sono seguiti giornalmente, ma non sembrano dare segni di malattia. Forse stiamo andando davvero verso la fine di questa tragedia... e con un sospiro di sollievo si incomincia a ripercorrere il tragitto fatto. E’ un cammino a ritroso per cercare di capire quello che è avvenuto, cogliere il senso vero degli avvenimenti, ma anche guardare le proprie ferite, dare sfogo al dolore, sentire la propria vulnerabilità e impotenza di fronte al male e attendere una guarigione.

Sono arrivata a Gulu poco dopo la conferma dell’epidemia, verso la metà di ottobre, per visitare le sorelle delle due comunità presenti. Erano già scattate le prime misure di sicurezza pubblica: vietati assembramenti di persone; riduzione della loro libertà di movimento; niente saluto stringendo la mano; niente funerali; denuncia dei casi sospetti ecc… Con le necessarie informazioni, cresceva il panico e la paura. A Gulu Missione, però, ho trovato sr. M.Grazia, sr. Kathryn, sr. Luisa, sr. Angela, sr. Innocenza, sr. Ester, serene e decise a restare per condividere con la gente questa nuova prova. Lì ho cominciato a vedere sul loro volto lo stesso dolore stampato su quello della gente e a sentire i primi racconti della tragedia.

Una sorella mi confidava: “ Sai, sono stata in ospedale a visitare i malati; ho toccato anche quelli affetti da ebola quando ancora non si sapeva della malattia. Ora sto aspettando di vedere quel che mi succederà… Preghiamo…”.

Anche a Lacor St. Mary’s Hospital  sr. Pasqualina, sr. Genoveffa, sr.M.Rosa, sr.Akberet, sr.Miriam, sr.Romilde, sr.Francesca affrontavano con coraggio e determinazione la sfida. Da qualche anno, nell’ospedale non siamo più presenti nei ruoli dirigenziali, passati a laici locali, che lo portano avanti tenendo vivo lo spirito di una Istituzione Missionaria. La nostra presenza, in ruoli più marginali, vuole solo essere di incoraggiamento e sostegno a continuare sulle vie tracciate.

Pur in ruoli secondari, la nuova epidemia ha richiesto subito un carico maggiore di lavoro e dedizione, che le Suore hanno accettato con generosità, reggendo bene, nonostante l’età non proprio giovane.

Molto toccante anche l’incontro con i laici che erano stati i miei collaboratori negli anni di lavoro a Gulu in un programma per l’AIDS. Appena mi hanno vista sono stata baciata, abbracciata, senza pensare che era proibito. Non riuscivano a trattenere lo stupore e la gratitudine per il mio arrivo a Gulu in un momento così drammatico, mentre tutte le organizzazioni straniere se ne stavano andando e, chi poteva, cercava di fuggire e mettersi al sicuro. Dicevano:” La grandezza della vocazione missionaria non finirà mai di stupirci. In fondo sapevamo che saresti arrivata”.

 

 

UNA DECISIONE DIFFICILE

 

La decisone di varcare la soglia del reparto ebola non è stata così scontata, ma sofferta e sentita in profondità. Tra tutte le epidemie l’ebola sembra la più pericolosa per il personale sanitario. I 60 operatori deceduti in Zaire durante l’ultima epidemia erano un grido allarmante e una minaccia terribile. Si poteva reagire invocando la presenza di esperti per gestire una situazione così complessa e difficile, ma i malati erano già presenti e la risposta internazionale ritardata. Non c’era modo di fuggire di fronte alle responsabilità.

La gente aveva bisogno, si doveva rispondere con i mezzi e le conoscenze disponibili.

E’ stata la preghiera a darmi forza e coraggio, ma le prime notti non riuscivo a prendere sonno. Con la mente riandavo al lavoro, ripensavo a ogni singolo gesto compiuto nella speranza di confermare che non c’erano stati errori, quindi, rassicurarmi che non correvo pericolo. La tensione però non mi lasciava e cominciavo a pensare ai malati, alle loro storie, le loro speranze…

Per me è stato molto importante l’incoraggiamento delle sorelle in comunità e il sostegno delle persone che mi attendevano fuori dal reparto, al termine della giornata, per dirmi: “Vi siamo vicini, stiamo pregando per voi”. Mi lasciavano anche messaggi scritti:” La nostra preghiera e il nostro amore ti accompagnano, ogni giorno, in ogni tuo gesto”. “Il Signore ti ha scelto per essere luce nell’oscurità”. O erano citazioni di passi biblici: “ Per questo non ci perdiamo d’animo, e sebbene il nostro uomo esteriore si deteriora, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno. Il momentaneo e leggero peso delle nostre tribolazioni ci guadagna una grazia sovrabbondante di gloria eterna, perché noi non guardiamo alle cose visibili, ma a quelle invisibili” (2 Cor). In un altro erano trascritte le parole del salmo 125:

“Quelli che confidano nel Signore sono come il monte Sion, non vacilla, è stabile per sempre. I monti cingono Gerusalemme, così il Signore circonda il suo popolo ora e sempre”. A volte mi portavano piccoli doni: uova, crema di arachidi, con un biglietto come questo:” Sr.Dorina, io non so come ringraziarti per quello che fai. Il Signore ti ha scelto, il Signore è con te e ti ama. Accetta il mio piccolo, ma prezioso dono. Tu sei nel mio cuore. Grazie e benedizioni”. Un giorno mi arrivarono, in un biglietto, le parole del salmo 91:” Tu che abiti al riparo dell’Altissimo, e dimori all’ombra dell’Onnipotente, dì al mio Signore: mio rifugio, mia fortezza, mia roccia in cui confido… Con le sue penne ti coprirà, sotto le sue ali troverai rifugio, la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza… Non temerai i terrori della notte, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno.. Mille cadranno al tuo fianco, diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire… Nessun colpo cadrà sulla tua tenda. Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede…”.

Da poco avevo pregato, nelle lodi mattutine, il salmo 117: “ Mia forza e mio canto è il Signore. Egli è stato la mia salvezza… Il Signore mi ha provato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte… Io non morirò, resterò in vita per annunciare le opere del Signore.

Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso.” Questa strana combinazione di messaggi simili, arrivati simultaneamente, mi ha dato grande forza rassicurante e, come primo risultato, sparirono tutti i miei incubi notturni.

 

 

 

 

 

IL LAVORO

 

La vita all’interno del reparto non era facile. Il sistema protettivo fatto di copricapo, maschera, occhiali, grembiule di stoffa e di plastica stivali e due paia di guanti di plastica, richiedeva doppio consumo di energie per il normale lavoro. Se poi si aggiunge il caldo, la tensione di seguire procedure nuove l’attenzione nel compiere correttamente ogni gesto anche quello più comune e automatico, si può capire la stanchezza al termine di un turno di lavoro. Poi c’era l’impatto con gli ammalati e la tragedia dell’ebola. Famiglie distrutte con tre, a volte cinque membri morti in pochi giorni, più familiari ricoverati allo stesso tempo in condizioni gravi. La malattia colpisce ed evolve così rapidamente che non c’è tempo per gestire le normali reazioni psicologiche con cui un malato grave si confronta. Sul volto delle persone potevi leggere le diverse reazioni: sgomento, paura, terrore,

depressione, ansia e disperazione. Vedevi anche i cambiamenti quando sentivano che qualcuno era vicino, ascoltava i loro sfoghi, si prendeva cura dei loro bisogni.

Il dott. Matthew Lukwyia era molto attento al trauma che vivevano e lui stesso faceva del suo meglio per aiutarli a superare le varie reazioni e arrivare ad accettare e collaborare con tutte le energie richieste per guarire. Alla sofferenza, il dolore, la morte che sentivano,

spesso, vicina, si aggiungeva il dramma della separazione dai familiari per ragioni di sicurezza e poi la sepoltura in un luogo lontano, dove più nessuno avrebbe visitato la tomba.

 

 

FLORENCE E GLI ALTRI

 

Ricordo Florence, che aveva contratto l’ebola per essersi presa cura di un nipotino la cui mamma era morta per quella malattia. Passò giorni interi sotto il lenzuolo, senza il coraggio di guardarsi attorno. Quando si rimise, finalmente tirò fuori la testa e, messasi a sedere sul letto, fece una lunga preghiera in cui ripercorreva gli eventi della sua vita passata, guardandoli sotto nuova luce e dando loro un nuovo significato, ma anche al suo futuro.

La depressione di Joseph, che aveva perso un figlio per ebola, che ci regalò un sorriso solo il giorno in cui lasciò l’ospedale.

Toccante la determinazione di Jennifer, 18 anni, che aveva perso in pochi giorni tre sorelle, e lei era rimasta l’unica custode dei cinque orfani. Non voleva morire, e con caparbia ostinazione faceva quelle che le si chiedeva senza guardare al sacrifico. Quando arrivò anche Jimmy, uno dei suoi nipoti, i suoi occhi erano sempre sul piccolo, posto vicino a lei. Era troppo debole per aiutarlo, ma ogni volta che passavamo vicino chiedeva di fare qualcosa per salvarlo. Sono morti quasi contemporaneamente  per non farsi male a vicenda.

 Difficile dimenticare il pianto di Brenda, quattro anni, quando la madre è morta accanto a lei. Brenda era ormai in condizioni gravi, cercammo di portare via la mamma senza che lei vedesse. Inutile, lei sembrò capire tutto e continuò a chiamarla finché morì, la notte successiva.

Betty era disperata. Sapeva di lasciar soli sette orfani e un marito malato mentale. “Dio mi ha abbandonata”, continuava a ripetere nella sua pena. Un giorno abbiamo accompagnato da lei la suocera per salutarla. Fece una preghiera così toccante… Da quel momento Betty si rasserenò. Continuò a lottare con tutte le sue energie, ma accettò con rassegnazione l’inevitabile.

Immacolata non riusciva a trovare una posizione per riposare. Spostava i cuscini in tutti i modi possibili, ma non riusciva a respirare. A un certo punto mi ha detto: “ Se solo potessi posare il mio capo sulla tua spalla, mi sembra che potrei riposare un po’ “. Fui costretta a dire: “ Sapessi quanto mi dispiace, ma non è possibile. Hai la febbre alta, ti faccio qualche spugnatura con l’acqua, ti sentirai meglio e riposerai. Non ti lascio sola, non preoccuparti.” Poco dopo si è addormentata.

Milly non sopportava i guanti di plastica. Quando si avvicinava, anche solo per una carezza, guardava i guanti e sembrava che te li volesse strappare, ma si controllò sempre.

La protezione, pur necessaria, era sempre avvertita da noi e dai malati come una grossa barriera, ma non si poteva fare diversamente.

Un giorno arrivò Gloria, una bimba di tre anni. La mamma l’aveva affidata, durante la sua assenza, a dei vicini. Incominciò a mostrare i sintomi dell’ebola e venne abbandonata sulla porta del reparto. Ammessa alla sezione osservazione, in attesa del risultato degli esami, Gloria si sentiva sperduta e impaurita. Per un po’ la tenemmo buona con un pacchetto di biscotti, poi la vidi sfrecciare verso l’uscita. La raggiunsi sulla porta del reparto, ma non c’era modo di trattenerla, voleva la mamma. Allora la presi in braccio e lei con una velocità sorprendente mi strappò la mascherina, mi buttò le braccia al collo, appoggiò la sua guancia sulla mia e si tranquillizzò. Per fortuna sua e mia il test era negativo e il giorno dopo abbracciò la mamma in lacrime e ritornò a casa sua.

Non è stato facile restare vicino a loro nel dolore. Comportava un pesante carico di stanchezza e tensione, ma la di là di questo c’era tutta l’esperienza di grazia di sapersi ai piedi della Croce, di essere nel luogo del martirio, dove sacrificio e dolore generano vita.

Sr. Francesca, che visitava ogni giorno i malati per parlare con loro, ascoltarli, pregare e prepararli a ricevere i sacramenti, è stata testimone di tanti di questi momenti di grazia, di cammino verso l’Alto e le profondità del cuore.

Anche il lavoro clinico era impegnativo. Registrazioni e osservazioni meticolose sul quadro clinico dei pazienti permetteranno, forse, di capire meglio questa malattia ancora sconosciuta. Per la prima volta ci sono radiografie e altri esami di laboratorio, che dovranno essere elaborati attentamente e potrebbero far luce e aprire nuove vie terapeutiche.

 

IL DOTTOR YOTI

 

Mi piace ricordare la figura del dott. Zabulon Yoti, giovane medico ugandese in servizio nel reparto isolamento. Il dott. Matthew mi aveva raccontato che, quando aveva lanciato l’appello per l’ebola, si era presentato dicendo di essere pronto a tutto. Sempre disponibi-

le, giorno e notte, sapeva comunicare serenità e ottimismo, particolarmente importanti nei

momenti di burrasca. Passava molto tempo a parlare con le infermiere, soprattutto nei

momenti di maggiore scoraggiamento. Mi diceva:” Sai Dorina, in questo momento la nostra presenza tra il personale è molto importante, anche al di fuori dei nostri turni di lavoro. Io ho deciso di passare qui il mio tempo libero. Le infermiere guardano a noi, se vacilliamo, loro scappano”. Era molto apprezzato e stimato anche se un giorno una lo am-

monì:” Stai attento tu, che vuoi convincere le persone a continuare il  lavoro,  potresti essere il primo a morire”. Lui raccontava queste cose sorridendo.

Terminato il giro del reparto, il dott. Yoti ripercorreva la corsia per parlare e ascoltare i malati, offrire un bicchiere d’acqua o altri servizi, sempre con un tocco di finezza e umanità particolari. Quando, per l’epidemia, moriva un infermiere, tra il personale c’era sempre un momento di grande crisi. Lui non si poneva problemi, lavava pavimenti, cambiava i malati con diarrea e vomito, destando sorpresa e ammirazione. Un giorno ar-

rivò mentre stavo finendo di pulire un malato e mi disse:” Ma come fai tu ad accomodarli così bene? Devo proprio rivedere la mia tecnica”.

Un giorno è arrivato in stato di apprensione e mi ha confidato:” Sai che sono sempre stato coraggioso, non mi sono mai tirato indietro. Ora sono molto teso e non so cosa mi stia succedendo. Da qualche giorno ho lo strano presentimento che presto uno dei medici si ammalerà”. Gli chiesi cosa gli facesse pensare così; rispose:” Vedi Dorina, prima si sono ammalate le studenti, poi le infermiere generiche, quindi le infermiere professionali e le caposala. Noi dicevamo che forse non erano state sufficientemente attente, o avevano commesso qualche errore. Ma credo ci sia di più. Ci sono informazioni , sulla trasmissione del virus, che ancora non conosciamo. La protezione che abbiamo non è sufficiente. Ieri parlavo con il dott. Simon, dell’OMS, che ha confermato la validità dei miei dubbi. Credo che ci siamo esposti a un rischio ben superiore a quello previsto. Io, ora, ho paura. Quando torno a casa non posso abbracciare mio figlio, lo guardo solo da lontano. Dorina, devi pensarci anche tu. Ci siamo messi in un grosso rischio!”.

Gli ho risposto:” Per quanto mi riguarda, se mi sono già esposta, debbo solo aspettare il corso degli eventi e non posso più impedire nulla. Per il futuro, anche se il rischio è maggiore del previsto, fin che ci saranno ammalati, io non lascerò. Ma tu fai bene a prenderti almeno un periodo di riposo e riprendere quando ti sentirai meglio. E’ normale vivere momenti così, in queste situazioni.” Lui sorrise e riprese:” Adesso che ho parlato con te mi sento già meglio, sono pronto a riprendere”.

Ma se lui si sentì rassicurato, io incominciai a pensare con più intensità alla possibilità di una morte vicina. Da quando ero entrata nel reparto ebola la morte mi era diventata più familiare. La leggevo sul volto dei pazienti, la guardavo nelle bare che uscivano dal reparto.

Quando moriva qualcuno, la sentivo accanto a me, mi sembrava che mi camminasse a fianco e non sapevo se stesse già lavorando in me. Cercavo di prepararmi per ridurre la portata dello shock. Ma non era facile. Prevedere quali sarebbero stati gli sviluppi, quanta sarebbe stata la forza per reagire era un mistero insondabile o, comunque, entrare in una realtà che non avevo la forza di portare.

Allora mi rivolgevo a Grace (infermiera colpita da ebola durante il servizio volontario a Lacor –Raggio 12/2000 p.6, N.d.R.-) per dirle:” Aiutami tu, stammi vicina quando ne avrò bisogno.” Scelsi i salmi con cui mi sarebbe piaciuto concludere la mia esistenza, se il Signore mi avesse chiamato e concesso la grazia della lucidità mentale e della sua pace. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno me li avesse letti, in caso non fossi riuscita a parlare. Eccoli: Sal 130, “ Dal profondo a te grido, oh Signore. Signore, ascolta la mia preghiera… L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora. Israele attenda il Signore, perché presso di Lui è la misericordia e la redenzione…”; Sal 16, “ Ho detto a Dio “ sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene”… Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. Nelle sue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità… Mi mostrerai il sentiero della vita, gioia piena della Tua presen-za, dolcezza senza fine alla Tua destra…”; il Magnificat e il Sal 45, “Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema… Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha benedetto dio per sempre…” Per la messa funebre, mi sarebbero piaciute le seguenti letture: Isaia 42, 1-7; I Cor. 2, 1-10, Mc 14, 3-9 con i canti scelti da Grace alla fine della sua vita. Per me sono diventate le preghiere più significative che hanno accompagnato il mio cammino, giorno dopo giorno, e mi hanno dato serenità e pace. Il pensiero della morte aiutava anche a guardare la realtà con occhi diversi. Problemi e preoccupazioni sparivano. Il mondo attorno, dalle persone ai fiori, al cielo, tutto sembra-  va rivelare una bellezza nuova. Ripensavo con più nostalgia alle persone care e significative.

 

UNA “TEGOLA” INATTESA

 

Una settimana dopo si ammalò il dott. Matthew. Il dott. Yoti, di fronte ai risultati degli esami di laboratorio, pianse tutte le sue lacrime. Toccò  a lui assumere la responsabilità di seguire il dott. Matthew, prendere decisioni difficili, anche se appoggiato da una équipe.

Il dott. Simon, esperto dell’ OMS, gli diceva, giustamente, che era lui il medico con maggior competenza clinica riguardo all’ebola perché aveva seguito tutti i casi con particolare diligenza e professionalità. Un pomeriggio il dott. Matthew lo rassicurò che sarebbe stato l’ultima vittima. Pochi giorni dopo la sua morte, il dott. Yoti si trovò con la febbre, ma sorridendo mi disse:” Ora non ho paura, il dott. Matthew manterrà la promessa fatta”. L’esame di laboratorio risultò negativo.

Per noi che siamo esposti al contagio, non è detta ancora l’ultima parola. Stiamo attendendo la fine del periodo di incubazione del virus per sapere il verdetto, ma c’è molto ottimismo in giro. Da quando il dott. Matthew è morto, i tre infermieri del nostro ospedale, ammessi nel reparto isolamento, sono ritornati a casa in buona salute. Lui sembra un intercessore potente, e tutti sanno che manterrà la parola data.

 

 

LAICI IN PRIMA LINEA

 

Qualcuno ha scritto che i missionari sono stati i protagonisti della battaglia conto l’ebola.

Io vorrei ribattere che in prima linea sono stati prevalentemente i laici, spesso motivati da principi religiosi, e comunque animati da carità, compassione, generosità. Straordinaria anche la dedizione di Maria Santo,  una laica italiana in servizio a Lacor, che ha avviato e diretto il reparto di ebola. Ringraziamo anche il Signore per le prime generazioni cristiane di questa terra, che hanno dato prova della forza e vitalità del messaggio evangelico tra questa gente. Il futuro giudicherà meglio quello che è avvenuto al Lacor Hospital. Intanto è significativo che la morte del dott. Matthew sia ancora “notizia” nei quotidiani nazionali. E’ un segno evidente che la sua voce, il suo esempio hanno toccato il cuore dell’intero Paese. Come ha detto il Presidente Museveni:” Matthew rimane un eroe nazionale, morto per il bene della sua gente. Questa è una grave perdita per il Paese e un esempio da seguire”.

Un primo confronto con l’esperienza degli altri ospedali dove si è verificato qualche piccolo focolaio di ebola e la gente è fuggita abbandonando malati e morti, dice che qui, nell’ospedale St. Mary’s, vige lo spirito di servizio, che la dedizione e il sacrificio di Lucille, Piero e ora Matthew, hanno piantato e coltivato.

Con la sua “partenza” si sente il vuoto incolmabile che ha lasciato, ma,  come diceva il Nunzio, Arcivescovo Pierre Cristofer, nella messa funebre celebrata nella Cattedrale di Gulu:” La sua vita stroncata è ora un seme gettato in questa terra che darà i suoi frutti, anche attraverso di noi, chiamati a continuare il suo esempio, a rendere presenti i valori per cui ha dato la sua vita.”

Nei giorni di avvento, periodo in cui è morto Matthew, la liturgia ci presenta la figura del Battista, noi qui nella persona di Matthew abbiamo avuto il privilegio di avere un profeta, uno che ci ha indicato la via, ha preparato la strada, ha abbassato monti e colli, ha prefigurato il sacrificio del Messia.

Si sta concludendo l’anno Giubilare, e stavo pensando dove concluderlo, con  quale pelle-

grinaggio. Ora so che nel reparto di ebola, sulla tomba di Matthew, ho avuto il privilegio di entrare in una terra santa, lavata dal sangue dei martiri, segnata col sigillo della Croce.

 

 

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