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Lidija Čukovskaja

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a cura di Lisa


Lidija Čukovskaja

«La cultura non è soltanto un lavoro, ma anche una lotta»

 

URSS, 1934-1938:  Il Grande Terrore

Nella storia dell’URSS, il periodo che va dal dicembre del 1934 al dicembre 1938 è noto come il “Grande Terrore”. Esso contrassegnò lo sterminio da parte di Stalin di tutti i suoi oppositori - effettivi o sospetti tali - e la sua assunzione di poteri dittatoriali totali, destinata a durare fino alla sua morte, avvenuta il 5 marzo 1953 a causa di un ictus.

L’epurazione/sterminio toccò il culmine nel settembre del 1937, quando alla testa dell’NKVD (la polizia politica)  fu nominato Nikolaj Ežov. Il terrore della fase Ežov (da cui la denominazione “ežovščina”) completò l’eliminazione di tutti coloro che ancora potevano dar prova di spirito d’iniziativa o che conservavano una fede nei valori morali “borghesi” e prerivoluzionari o, più semplicemente, che credevano in qualcosa di diverso da Stalin.

La purga aveva acquistato dimensioni enormi: le imponenti risorse dell’NKVD (la polizia politica) erano rivolte all’unico obiettivo di documentare l’esistenza di una vastissima cospirazione intesa a minare il potere sovietico e ottenere confessioni effettive di delitti immaginari era diventata una vera e propria industria. Per questo, la paura di essere arrestati, i continui appelli alla “vigilanza politica” e, non di rado, anche perverse ambizioni, provocavano in tutta la popolazione sovietica vere e proprie ondate di denuncia che davano il via a ulteriori valanghe di interrogazioni e detenzioni. La catena senza fine di coinvolgimenti e associazioni minacciava interi strati della società sovietica e milioni di innocenti venivano trasformati in traditori, terroristi, nemici del popolo e sabotatori. Lo stesso Ežov finì per cadere vittima del mostruoso meccanismo che aveva contribuito ad innescare.

Casella di testo: La paura
La paura era propria anche di chi, come la scrittrice Lidija Čukovskaja e la poetessa  Anna Andreevna Achmatova, era perfettamente in grado di sintetizzare ciò che stava accadendo. Nell’introduzione al suo diario, Incontri con Anna Achmatova. 1938 - 1941, la Čukovskaja annota:
«La camera di tortura che del tutto concretamente inghiottiva interi quartieri della città e idealmente tutti i nostri pensieri, nel sonno e nella veglia, la camera di tortura che gridava la sua grossolana menzogna da tutte le colonne dei giornali e da tutti i radio-megafoni, esigeva da noi, al tempo stesso, che non nominassimo il suo nome invano neanche tra quattro mura, a quattr’occhi. Noi eravamo disubbidienti, la nominavamo di continuo, benché vagamente sospettassimo che anche quando eravamo soli non lo eravamo realmente, che qualcuno non staccasse mai gli occhi o, più esattamente, le orecchie, da noi. Circondata dal mutismo, la camera di tortura voleva conservarsi onnipotente e al tempo stesso inesistente; non ammetteva che una sola parola, di chiunque, la evocasse dal suo onnipotente non-essere; era lì accanto, a portata di mano, ma allo stesso tempo era come se non esistesse; le donne stavano in fila silenziose, oppure, sussurrando, usavano solo forme indeterminate: “sono venuti”, “hanno preso”. 
Ma il tratto forse più caratteristico e senza dubbi più sorprendente del Grande Terrore era il fatto che la sua esistenza veniva sistematicamente negata. Tutto ciò che la stampa rivelava della purga erano le liste degli arrestati con le relative confessioni, nonché gli appassionati appelli alla “vigilanza politica”. Allo stesso tempo, essa esaltava i successi che la società sovietica andava ottenendo in tutti i campi ― e, naturalmente, i dati forniti dalle autorità erano come minimo gonfiati, quando non inventati ― e continuava ad osannare la figura di Stalin come il “padre dei popoli”.

Vittime di quest’epoca non erano quindi soltanto le persone ingiustamente perseguitate, i deportati o fucilati, ma anche i milioni di cittadini che, scampati o ancora miracolosamente estranei a queste terribili esperienze, vivevano comunque schiave della menzogna e della paura.

Soltanto la sostituzione di Ežov con il “liberale” Berija  nel novembre del 1938 fu un segnale che stava per cominciare un periodo più tranquillo, mentre il paese procedeva verso la Seconda Guerra Mondiale.

Eppure, sebbene, come ho accennato, con l’espressione “Grande Terrore” gli storici in genere designino un periodo limitato della storia dell’URSS (1934 - 1938), in realtà la terribile macchina del Terrore non venne smantellata completamente se non coll’avvento di Michail Gorbačëv (1985).

Di fatto, durante l’era chruščëviana (dal nome di Nikita Chruščëv, il successore di Stalin dal 1953 al 1964) ebbe inizio un importante processo di destalinizzazione, caratterizzato dalla denuncia dei crimini commessi negli anni precedenti contro migliaia di innocenti e dalla riabilitazione di molti di essi. Tuttavia questo processo non venne mai condotto in modo coerente né mai fu portato a termine. Si ebbe al contrario una continua alternanza tra disgeli e “colpi di freno”, ossia tra periodi in cui la figura di Stalin veniva denunciata apertamente per la sua crudeltà e accusata dei delitti commessi, e periodi in cui il dittatore veniva definito, nonostante tutto, “un grande teorico e organizzatore”, che aveva assicurato all’URSS “le vittorie del socialismo” , mentre le persecuzioni e i crimini di cui era responsabile venivano considerati soltanto abusi di potere imputabili  al suo “caratteraccio”.  Fu dunque solo grazie alla liberalizzazione del periodo della perestrojka (ricostruzione) e della glasnost’  (trasparenza) di Michail Gorbačëv che terrore e falsità vennero definitivamente smascherati e ripudiati e la verità su quegli anni poté finalmente venire a galla.

 

 

LIDIJA KORNEEVNA ČUKOVSKAJA. Testimone del terrore.

Nel panorama della letteratura sovietica, la scrittrice Lidija Korneevna Čukovskaja (1907 - 1996) viene citata generalmente come critico letterario di un certo spicco; raramente la si ricorda , invece, come autrice di Sof’ja Petrovna, un racconto che, al di là del suo valore letterario, ha il grande merito di essere una testimonianza, coraggiosa e unica al mondo, degli orrori dell’epoca del Grande Terrore (link a URSS, 1934-1938:  Il Grande Terrore) .

Ricordava nel 1974 la stessa Čukovskaja: “Ho scritto questo racconto riguardante il 1937 nell’inverno tra il 1939 e il 1940, dopo due anni di code davanti alla prigione. Non spetta a me giudicare quale sia il suo valore letterario, ma il suo valore in quanto testimonianza veridica è innegabile. Io, finora, (1974) non conosco nessun libro in prosa riguardante il 1937, scritto “in presa diretta”.

In questo sta l’unicità di Sof’ja Petrovna: di testimonianze in prosa sui tragici avvenimenti del Grande Terrore ne esistono in realtà molte, ma sono state scritte “a posteriori” e per la maggior parte all’epoca del “disgelo”, durante la quale denunciare i crimini compiuti da Stalin e dai suoi seguaci era non solo legittimo, ma addirittura auspicato dalle autorità politiche nella volontà di rassicurare la popolazione sovietica che quell’epoca era finalmente terminata. Sof’ja Petrovna, al contrario, è stato scritto nel momento stesso in cui quella tragedia stava avvenendo.

La Čukovskaja, che si era confrontata con i modi del sistema sovietico nei confronti di esponenti di tendenza opposta fin da quand’era una studentessa di ginnasio e per questo era stata anche imprigionata,  negli anni Trenta, sperimentò in prima persona gli orrori del Grande Terrore.

Casella di testo: A questo proposito la stessa scrittrice riferisce: 
G. Miškevič, che dal 1937 era “redattore capo” della sezione leningradese del Detizdat, per incolparmi di sabotaggio e provare che ero coinvolta negli intrighi dei “nemici del popolo”, ad una riunione citò come prova alcuni stralci, completamente travisati, delle note mie e di Levin al libro di Majakovskij. In seguito alle sue calunnie il libro, come molti altri, venne bloccato. Ma si fosse trattato solo dei libri! Su incarico di qualche superiore o, forse, di sua stessa iniziativa, per dimostrare la pericolosità del “gruppo di Maršak”, Miškevič scrisse delazioni contro Matvej Bronštein, Aleksandra Ljubarskaja e Tamara Gabbe, falsificò le bozze, ecc. Dopo gli arresti fece uscire un numero del giornale murale in cui definiva i redattori e gli scrittori arrestati “ spie, diversionisti, sabotatori”. 

Dal 1933 lavorò con successo nella Sezione Leningradese del Detizdat (casa editrice per l’infanzia) dove conobbe il suo secondo marito, il noto e stimato fisico Matvej Bronštein, ritenuto dai colleghi, uno dei più brillanti “fisici teorici emergenti dell’Unione Sovietica” che sposò nel 1934. Nell’agosto del 1937, anno cruciale del Grande Terrore, Matvej Bronštein  venne arrestato e portato nelle prigioni dell’NKVD di Leningrado. Pochi mesi  dopo, Lidija Čukovskaja perse anche il lavoro: la scrittrice venne ingiustamente  accusata di sabotaggio e di essere coinvolta negli intrighi dei “nemici del popolo” e  per questo fu licenziata. In ogni caso, ciò la salvò dalla repressione, dato che poco tempo dopo la Detizdat venne “liquidata” e gran parte dei suoi membri scomparvero per sempre nei lager dell’URSS. Tra coloro che si salvarono, peraltro, nessuno riuscì  mai a spiegarsi con certezza il motivo di quel “miracolo”.

Dall’arresto di Bronštein, Lidija Čukovskaja passò gran parte del suo tempo in coda davanti alla prigione o alla procura oppure a scrivere lettere ufficiali e domande di revisione del caso, nella speranza di salvargli la vita o, per lo meno, di avere qualche notizia di lui. Nel febbraio del 1938 alla scrittrice venne annunciato che il marito era stato condannato a “dieci anni di lager senza diritto di corrispondenza e con confisca dei beni.”

Una simile sentenza era piuttosto comune in quegli anni ed era ormai risaputo che essa comportava l’arresto e il lager per la moglie del condannato: arresto e lager, che la Čukovskaja riuscì ad evitare abbandonando per un certo tempo Leningrado, la sua città natale, e nascondendosi dalla polizia politica. Un’altra cosa era , tuttavia, risputa riguardo la condanna a “dieci anni di lager”: essa era, in realtà, sinonimo di fucilazione, e per quante lettere ufficiali e domande di revisione del caso avesse scritto, dal momento stesso in cui le era stata letta quella sentenza, la scrittrice ebbe la consapevolezza che Bronštein era morto.

La  Čukovskaja ne ebbe, tuttavia, conferma solo nel dicembre del 1939, grazie ad una confidenza fattale da un giurista amico di famiglia: fu allora che essa decise di scrivere Sof’ja Petrovna.

Nell’epoca del grande terrore, della grande paura, in un’epoca in cui tutte le risorse della polizia politica erano tese a scovare nemici del regime e a nascondere qualsiasi prova delle purghe, scrivere un simile racconto poteva comportare l’arresto, la deportazione e perfino la morte, non solo per se stessi, ma anche per i propri cari. Lidija Čukovskaja questo lo capiva bene, eppure, in un’intervista rilasciata nel 1988 la scrittrice ebbe modo di affermare: «Scrivere voleva dire salvarmi. Era più facile scrivere che non farlo». In effetti, descrivere ciò che stava accadendo era per lei l’unico modo di comprendere le cause della totale cecità da cui si vedeva circondata, per non impazzire, per impedire che quella terribile esperienza, il suo vissuto, il suo dolore venissero annientati e cancellati insieme con la sua coscienza.

Riguardo Sof’ja Petrovna, la stessa Čukovskaja osservò nel 1974: «Nel mio racconto ho cercato di far capire fino a che livello una società possa venire intossicata dalla menzogna; un livello, che può essere paragonato solo all’intossicazione di un esercito da gas tossici. Come protagonista non ho scelto né una sorella, né una moglie, né un’innamorata, e nemmeno un amico, ma l’emblema della fedeltà: una madre. La mia Sof’ja Petrovna perde il suo unico figlio. […] Ecco la mia idea. Sof’ja Petrovna è vedova, la sua sola ragione di vita è il figlio. Kolja è stato arrestato, condannato al lager; è stato dichiarato “nemico del popolo”. Sof’ja Petrovna, abituata a credere ai giornali e alle autorità più che a se stessa, crede al procuratore, che le ha detto che suo figlio avrebbe “confessato i suoi crimini” e meritato la condanna a “dieci anni di lager”. Sof’ja Petrovna dentro di sé sa bene che Kolja non ha mai commesso e non poteva commettere alcun crimine, che egli è in tutto e per tutto fedele al partito, alla fabbrica, e al compagno Stalin in persona. Ma se dovesse credere a se stessa e non al procuratore né ai giornali, allora... allora… crollerebbe il mondo, la terra sprofonderebbe sotto i piedi, andrebbe in fumo quella tranquillità d’animo in cui era così comodo per lei vivere, lavorare, avere successo... E Sof’ja Petrovna si sforza di credere contemporaneamente al procuratore e al figlio, e per questo impazzisce. (Io volevo appunto scrivere un libro su una società impazzita; l’infelice, l’impazzita Sof’ja Petrovna non è per niente un’eroina: per me lei è il tipico ritratto di coloro che credevano seriamente nella sensatezza e nella legittimità di ciò che stava accadendo. […]

Lidija Čukovskaja ricevette notizia ufficiale della morte di Bronštein da parte dell’NKVD solo nel 1957. Dal confronto tra le date della condanna e della morte riportate sui documenti, risultò che egli fu “processato” il 18/02/1938 e lo stesso giorno fu fucilato. Quegli stessi documenti dicevano anche che Matvej Bronštein era stato riabilitato  “perché il reato non sussisteva”.

Dal momento dell’arresto del marito la vita della scrittrice fu in costante pericolo e nel maggio del 1941 dovette fuggire di nuovo dalla polizia politica, ma, questa volta, perché, come essa stesa ricorda nella prefazione al diario dei suoi incontri con la poetessa Anna Achmatova, “a Pëtr Ivanyč (nome convenzionale per NKVD, la polizia politica)  erano giunte voci sull’esistenza di un certo ‹documento sul ‘37› […]( In realtà si trattava di Sof’ja Petrovna).”

Per Lidija Čukovskaja la decisione di scrivere Sof’ja Petrovna  nel 1939-’40 aveva significato salvare innanzi tutto se stessa e la propria coscienza dall’annientamento; questa stessa decisione rappresentò tuttavia anche il primo passo, la premessa fondamentale della lotta per la verità e per la libertà  di pensiero e di espressione condotta dalla scrittrice durante tutto il periodo poststaliniano contro un regime sovietico che, nonostante i periodi di “disgelo” (link a “disgelo” pag.1) tornava periodicamente a servirsi della falsificazione della storia e dell’”estirpazione della memoria” per riappropriarsi delle coscienze dei suoi cittadini.

«Quando capii che stavano ricominciando a sottrarci la memoria, - annotò la scrittrice nel 1974 - capii anche un’altra cosa: non avrei lasciato per niente al mondo quel bene sofferto. E avrei impedito anche alla gente di cadere di nuovo nel deliquio. Che non pubblichino più neanche una mia riga. Che rimangano pure irrealizzati i miei cari propositi letterari. Ma non permetterò mai a nessuno di togliere da un mio testo i nomi dei defunti e il nome morte in generale. Mai a nessuno.»

Il “dissenso” e gli appelli alla libertà di pensiero e di parola degli intellettuali sovietici nei confronti del regime venivano puniti con ogni sorta di mezzo di pressione e repressione: il rifiuto delle autorizzazioni di soggiorni all’estero, l’esclusione dall’Unione degli Scrittori dell’URSS (che equivaleva ad una condanna alla “non esistenza” come scrittori e a volte anche come uomini dato che da questa organizzazione ufficiale degli scrittori professionisti e critici letterari sovietici dipendevano tutti i maggiori periodici letterari, nonché le case editrici), per non parlare dei processi per “propaganda antisovietica”, delle condanne ai lavori forzati, degli internamenti in ospedali psichiatrici o degli esili forzati.

Nonostante tutto, Lidija Čukovskaja espresse in più occasioni il suo dissenso, formulando in modo chiaro gli ideali che animavano la sua protesta ed arrivando persino ad esprimere delle accuse ben precise e ad avanzare delle “pretese”- come lei stessa scrisse - nei confronti delle autorità. Di questa sua lotta ci sono rimasti in tutto quattordici documenti riuniti attualmente nella raccolta Otkrytoe slovo e sfortunatamente non ancora tradotti in italiano. Si tratta per lo più articoli e lettere aperte indirizzate a tutti i giornali sovietici , ma destinati, come Sof’ja Petrovna e il suo secondo racconto, Indietro nell’acqua scura  (anch’esso ambientato nell’epoca staliniana), a non esser pubblicati e a circolare per lungo tempo soltanto in samizdat e tamizdat (link a Samizdat).

In una lettera aperta a Michail Šolochov (link alle citazioni dalla lettera aperta a M. S.) , ad esempio,  essa denuncia chiaramente la responsabilità che questi ebbe nell’opera di reppressione di molti scrittori e studiosi di libero pensiero; nell’articolo Non la condanna, ma il pensiero, ma la parola (link alla citazione dall’articolo), la Čukovskaja denuncia la tendenza ad un ritorno allo stalinismo nella Russia postchruščëviana; negli articoli La responsabilità dello scrittore e l’irresponsabilità della “Literaturnaja Gazeta” e La rabbia del popolo parola (link alla citazione dall’articolo), difende pubblicamente dissidenti quali Josif Brodskij e Andrej Sacharov e  insorge contro le persecuzioni inflitte ad Aleksandr Solženicyn e la valanga di menzogne e di calunnie abbattutesi su di lui in seguito alla pubblicazione dei suoi romanzi “rivelazione” sull’esistenza dei gulag sovietici.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta Lidija Čukovskaja vide moltiplicarsi i provvedimenti presi nei suoi confronti da parte dell’Unione degli scrittori, fino alla sua esclusione, avvenuta il 9 gennaio 1974. Ma le misure repressive si spinsero ben oltre, fino a coinvolgere la sua vita privata. La scrittrice veniva infatti sorvegliata in ogni suo spostamento o incontro. I suoi amici venivano a loro volta controllati, perquisiti e interrogati ogni volta che si vedevano con lei. Il suo telefono era tenuto sotto controllo. Persino la sua posta veniva costantemente esaminata. Tutto questo, appunto, continuò fino alla perestrojka , alla ricostruzione di Michail Gorbačëv.

La Čukovskaja tornò infatti ad essere citata in URSS nel 1987 e nel 1990, il movimento democratico Aprel’ le conferì il primo “Premio A. D. Sacharov per il ‘coraggio civile di uno scrittore.’ Ma il riconoscimento per lei più importante non poteva essere che la pubblicazione in patria del racconto che aveva segnato l’inizio della sua lotta. Quando Sof’ja Petrovna comparve sulla rivista «Neva», nel numero di febbraio del 1988 – notate, quasi 50 anni dopo la sua stesura e circa 35 dopo la morte di Stalin - si realizzò il suo più grande sogno: quello che il pubblico sovietico potesse  immedesimarsi in Sof’ja Petrovna e ricordare ogni cosa, impedendo in questo modo alle autorità di cancellare, impunite, tutti gli orrori commessi in quegli anni. Un sogno che sembrava essersi definitivamente infranto nel 1962, quando la pubblicazione di Sof’ja Petrovna per opera della casa editrice Sovetskij Pisatel’ era stata bloccata, ma a cui la scrittrice, di fatto, non aveva mai rinunciato. Era questa una soddisfazione ancora più grande della stessa riammissione nell’Unione degli Scrittori: la scrittrice annunciò questo evento che sanciva ufficialmente la sua rinascita in letteratura con questa semplice frase, dal tono quasi indifferente: «[…] nel febbraio 1989 mi notificarono ufficialmente che […]l’Unione degli Scrittori aveva revocato all’unanimità - all’unanimità, come quando mi esclusero! - la sua precedente decisione del 9 gennaio 1974 e, pertanto, io sono di nuovo membro dell’Unione degli Scrittori.»

 

Hanno scritto di Lidija Čukovskaja…

Molti studiosi sovietici lodarono il coraggio civico dimostrato da questa scrittrice.

Così, per esempio, P. Nerler annotò:

«“Novembre 1939 - febbraio 1940, Leningrado”: questa data al termine del racconto è parte organica di esso, il finale. […] La storia di Sof’ja Petrovna non si è persa, non è andata perduta; al mostruoso miraggio non è stato permesso di essere dimenticato; non gli è stato permesso di sprofondare nell’acqua. E questo non è stato fatto dopo decenni, non in tempi remoti, ma nel pieno di quegli avvenimenti oscuri, quando era terrificante anche solo pensare a ciò che stava accadendo, non tanto pronunciarlo ad alta voce o annotarlo in un quaderno.

E ciò che ha fatto Lidija Korneevna Čukovskaja non si può definire altrimenti che un atto di eroismo civico.»

Nell’articolo Zdravstvujte, Sof’ja Petrovna, T. Dubinskaja osservò, sempre nel 1988:

“Sof’ja Petrovna fu scritto quasi cinquant’anni fa; alla fine presenta la data “Novembre 1939 - Febbraio 1940”. Per quella data già molti dei nostri compatrioti erano passati attraverso le tristi file presso le prigioni dove si trovavano i loro cari, dichiarati “nemici del popolo”. Anche Lidija Čukovskaja l’aveva fatto. Il libro da lei scritto raccontò quella tragedia nazionale nello stesso momento in cui stava avvenendo. Probabilmente quest’opera le fu necessaria per superare il suo dolore personale. Ma essa non fu semplicemente la reazione dolorosa di un letterato nei confronti di ciò che stava accadendo, bensì un Atto, nel quale si manifestarono pienamente i valori civici della scrittrice: tutti noi capiamo quanto rischiò allora Lidija Čukovskaja”.

Citazioni dagli scritti di Lidija Čukovskaja

OPERE DI LIDIJA ČUKOVSKAJA IN ITALIANO

1.       Indietro nell’acqua scura, tradotto da S. Rapetti, Firenze, Vallecchi 1979.

2.       Il processo: memoria sul costume letterario, tradotto da C. Degli Ippoliti, Milano, Jaca Book 1982.

3.       Incontri con Anna Achmatova. 1938-1941, tradotto da G. Moracci, Milano, Adelphi 1990.

4.       Prima della morte: ritratto di Marina Cvetaeva, a cura di L. Montagnani, Milano, R. Archinto 1992.

5.       Sof’ja Petrovna, tradotto da A. Cristiani, Napoli, Alfredo Guida Editore 1999.

 

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