URSS,
1934-1938: Il Grande
Terrore
Nella
storia dell’URSS, il periodo che va dal dicembre del 1934 al
dicembre 1938 è noto come il “Grande Terrore”.
Esso contrassegnò lo sterminio da parte di Stalin di tutti i suoi
oppositori - effettivi o sospetti tali - e la sua assunzione di
poteri dittatoriali totali, destinata a durare fino alla sua
morte, avvenuta il 5 marzo 1953 a causa di un ictus.
L’epurazione/sterminio
toccò il culmine nel settembre del 1937, quando alla testa
dell’NKVD (la polizia politica) fu
nominato Nikolaj Ežov. Il terrore della fase Ežov (da cui la
denominazione “ežovščina”) completò
l’eliminazione di tutti coloro che ancora potevano dar prova di
spirito d’iniziativa o che conservavano una fede nei valori
morali “borghesi” e prerivoluzionari o, più semplicemente,
che credevano in qualcosa di diverso da Stalin.
La
purga aveva acquistato dimensioni enormi: le imponenti risorse
dell’NKVD (la polizia politica) erano rivolte all’unico obiettivo di
documentare l’esistenza di una vastissima cospirazione intesa a
minare il potere sovietico e ottenere confessioni effettive di
delitti immaginari era diventata una vera e propria industria. Per
questo, la paura di essere arrestati, i continui appelli alla
“vigilanza politica” e, non di rado, anche perverse ambizioni,
provocavano in tutta la popolazione sovietica vere e proprie
ondate di denuncia che davano il via a ulteriori valanghe di
interrogazioni e detenzioni. La catena senza fine di
coinvolgimenti e associazioni minacciava interi strati della
società sovietica e milioni di innocenti venivano trasformati in
traditori, terroristi, nemici del popolo e sabotatori. Lo stesso Ežov
finì per cadere vittima del mostruoso meccanismo che aveva
contribuito ad innescare.
Ma
il tratto forse più caratteristico e senza dubbi più
sorprendente del Grande Terrore era il fatto che la sua esistenza
veniva sistematicamente negata. Tutto ciò che la stampa
rivelava della purga erano le liste degli arrestati con le
relative confessioni, nonché gli appassionati appelli alla
“vigilanza politica”. Allo stesso tempo, essa esaltava i
successi che la società sovietica andava ottenendo in tutti i
campi ― e, naturalmente, i dati forniti dalle autorità
erano come minimo gonfiati, quando non inventati ― e
continuava ad osannare la figura di Stalin come il “padre
dei popoli”.
Vittime
di quest’epoca non erano quindi soltanto le persone
ingiustamente perseguitate, i deportati o fucilati, ma anche i
milioni di cittadini che, scampati o ancora miracolosamente
estranei a queste terribili esperienze, vivevano comunque schiave
della menzogna
e della paura.
Soltanto
la sostituzione di Ežov con il “liberale” Berija
nel novembre del 1938 fu un segnale che stava per
cominciare un periodo più tranquillo, mentre il paese procedeva
verso la Seconda Guerra Mondiale.
Eppure,
sebbene, come ho accennato, con l’espressione “Grande
Terrore” gli storici in genere designino un periodo limitato
della storia dell’URSS (1934 - 1938), in realtà la terribile
macchina del Terrore non venne smantellata completamente se non
coll’avvento di Michail Gorbačëv (1985).
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Ricordava
nel 1974 la stessa Čukovskaja:
“Ho
scritto questo racconto riguardante il 1937 nell’inverno tra il
1939 e il 1940, dopo due anni di code davanti alla prigione. Non
spetta a me giudicare quale sia il suo valore letterario, ma il
suo valore in quanto testimonianza veridica è innegabile. Io,
finora, (1974) non conosco nessun libro in prosa riguardante il
1937, scritto “in presa diretta”.
In
questo sta l’unicità di Sof’ja
Petrovna:
di testimonianze in prosa sui tragici avvenimenti del Grande
Terrore ne esistono in realtà molte, ma sono state scritte “a
posteriori” e per la maggior parte all’epoca del
“disgelo”, durante la quale denunciare i crimini compiuti da
Stalin e dai suoi seguaci era non solo legittimo, ma addirittura
auspicato dalle autorità politiche nella volontà di rassicurare
la popolazione sovietica che quell’epoca era finalmente
terminata. Sof’ja Petrovna, al contrario, è stato
scritto nel momento stesso in cui quella tragedia stava avvenendo.
La
Čukovskaja, che si era confrontata con i modi del sistema
sovietico nei confronti di esponenti di tendenza opposta fin da
quand’era una studentessa di ginnasio e per questo era stata
anche imprigionata, negli anni Trenta, sperimentò in prima persona gli orrori
del Grande Terrore.
Dal
1933 lavorò con successo nella Sezione Leningradese del Detizdat
(casa editrice per l’infanzia) dove conobbe il suo secondo
marito, il noto e stimato fisico Matvej Bronštein, ritenuto dai
colleghi, uno dei più brillanti “fisici teorici emergenti
dell’Unione Sovietica” che sposò nel 1934. Nell’agosto del
1937, anno cruciale del Grande Terrore, Matvej Bronštein
venne arrestato e portato nelle prigioni dell’NKVD di
Leningrado. Pochi mesi dopo,
Lidija Čukovskaja perse anche il lavoro: la scrittrice venne
ingiustamente accusata
di sabotaggio e di essere coinvolta negli intrighi dei “nemici
del popolo” e per
questo fu licenziata.
In ogni caso, ciò la salvò dalla repressione, dato che poco
tempo dopo la Detizdat venne “liquidata” e gran parte
dei suoi membri scomparvero per sempre nei lager dell’URSS. Tra
coloro che si salvarono, peraltro, nessuno riuscì
mai a spiegarsi con certezza il motivo di quel
“miracolo”.
Una
simile sentenza era piuttosto comune in quegli anni ed era ormai
risaputo che essa comportava l’arresto e il lager per la moglie
del condannato: arresto e lager, che la Čukovskaja riuscì ad
evitare abbandonando per un certo tempo Leningrado, la sua città
natale, e nascondendosi dalla polizia politica. Un’altra cosa
era , tuttavia, risputa riguardo la condanna a “dieci anni di
lager”: essa era, in realtà, sinonimo di fucilazione, e per
quante lettere ufficiali e domande di revisione del caso avesse
scritto, dal momento stesso in cui le era stata letta quella
sentenza, la scrittrice ebbe la consapevolezza che Bronštein era
morto.
La
Čukovskaja ne ebbe, tuttavia, conferma solo nel
dicembre del 1939, grazie ad una confidenza fattale da un giurista
amico di famiglia: fu allora che essa decise di scrivere Sof’ja
Petrovna.
Nell’epoca
del grande terrore, della grande paura, in un’epoca in cui tutte
le risorse della polizia politica erano tese a scovare nemici del
regime e a nascondere qualsiasi prova delle purghe, scrivere un
simile racconto poteva comportare l’arresto, la deportazione e
perfino la morte, non solo per se stessi, ma anche per i propri
cari. Lidija Čukovskaja questo lo capiva bene, eppure, in
un’intervista rilasciata nel 1988 la scrittrice ebbe modo di
affermare: «Scrivere voleva
dire salvarmi. Era più facile scrivere che non farlo». In
effetti, descrivere ciò che stava accadendo era per lei l’unico
modo di comprendere le cause della totale cecità da cui si vedeva
circondata, per non impazzire, per impedire che quella terribile
esperienza, il suo vissuto, il suo dolore venissero annientati e
cancellati insieme con la sua coscienza.
Riguardo
Sof’ja Petrovna, la
stessa Čukovskaja osservò
nel 1974: «Nel
mio racconto ho cercato di far capire fino a che livello una
società possa venire intossicata dalla menzogna; un livello, che
può essere paragonato solo all’intossicazione di un esercito da
gas tossici. Come protagonista non ho scelto né una sorella, né
una moglie, né un’innamorata, e nemmeno un amico, ma
l’emblema della fedeltà: una madre. La mia Sof’ja Petrovna
perde il suo unico figlio. […] Ecco la mia idea. Sof’ja
Petrovna è vedova, la sua sola ragione di vita è il figlio.
Kolja è stato arrestato, condannato al lager; è stato dichiarato
“nemico del popolo”. Sof’ja Petrovna, abituata a credere ai
giornali e alle autorità più che a se stessa, crede al
procuratore, che le ha detto che suo figlio avrebbe “confessato
i suoi crimini” e meritato la condanna a “dieci anni di
lager”. Sof’ja Petrovna dentro di sé sa bene che Kolja non ha
mai commesso e non poteva commettere alcun crimine, che egli è in
tutto e per tutto fedele al partito, alla fabbrica, e al compagno
Stalin in persona. Ma se dovesse credere a se stessa e non al
procuratore né ai giornali, allora... allora… crollerebbe il
mondo, la terra sprofonderebbe sotto i piedi, andrebbe in fumo
quella tranquillità d’animo in cui era così comodo per lei
vivere, lavorare, avere successo... E Sof’ja Petrovna si sforza
di credere contemporaneamente al procuratore e al figlio, e per questo
impazzisce. (Io volevo appunto scrivere un libro su una società
impazzita; l’infelice, l’impazzita Sof’ja
Petrovna non è per niente un’eroina: per me lei è il tipico
ritratto di coloro che credevano seriamente nella sensatezza e
nella legittimità di ciò che stava accadendo. […]
Lidija
Čukovskaja ricevette notizia ufficiale della morte di Bronštein
da parte dell’NKVD solo nel 1957. Dal confronto tra le date
della condanna e della morte riportate sui documenti, risultò che
egli fu “processato” il 18/02/1938 e lo stesso giorno fu
fucilato. Quegli stessi documenti dicevano anche che Matvej Bronštein
era stato riabilitato “perché
il reato non sussisteva”.
Dal
momento dell’arresto del marito la vita della scrittrice fu in
costante pericolo e nel maggio del 1941 dovette fuggire di nuovo
dalla polizia politica, ma, questa volta, perché, come essa stesa
ricorda nella prefazione al diario dei suoi incontri con la
poetessa Anna Achmatova, “a Pëtr Ivanyč (nome
convenzionale per NKVD, la polizia politica)
erano giunte voci sull’esistenza di un certo ‹documento
sul ‘37› […]( In realtà si trattava di Sof’ja Petrovna).”
Per
Lidija Čukovskaja la decisione di scrivere Sof’ja
Petrovna nel
1939-’40 aveva significato salvare innanzi tutto se stessa e la
propria coscienza dall’annientamento; questa stessa decisione
rappresentò tuttavia anche il primo passo, la premessa
fondamentale della lotta per la verità e per la libertà
di pensiero e di espressione condotta dalla scrittrice
durante tutto il periodo poststaliniano contro un regime sovietico
che, nonostante i periodi di “disgelo”
(link a “disgelo” pag.1) tornava periodicamente a
servirsi della falsificazione della storia e
dell’”estirpazione della memoria” per riappropriarsi delle
coscienze dei suoi cittadini.
«Quando
capii che stavano ricominciando a sottrarci la memoria, -
annotò la scrittrice nel 1974
- capii anche un’altra cosa: non avrei lasciato per niente al
mondo quel bene sofferto. E avrei impedito anche alla gente di
cadere di nuovo nel deliquio. Che non pubblichino più neanche una
mia riga. Che rimangano pure irrealizzati i miei cari propositi
letterari. Ma non permetterò mai a nessuno di togliere da un mio
testo i nomi dei defunti e il nome morte in generale. Mai a
nessuno.»
Nonostante
tutto, Lidija Čukovskaja espresse in più occasioni il suo
dissenso, formulando in modo chiaro gli ideali che animavano la
sua protesta ed arrivando persino ad esprimere delle accuse ben
precise e ad avanzare delle “pretese”- come lei stessa scrisse
- nei confronti delle autorità. Di questa sua lotta ci sono
rimasti in tutto quattordici documenti riuniti attualmente nella
raccolta Otkrytoe slovo e
sfortunatamente non ancora tradotti in italiano. Si tratta per lo
più articoli e lettere aperte indirizzate a tutti i giornali
sovietici , ma destinati, come Sof’ja
Petrovna e il suo secondo racconto, Indietro
nell’acqua scura (anch’esso
ambientato nell’epoca staliniana), a non esser pubblicati e a
circolare per lungo tempo soltanto in samizdat
e tamizdat (link
a Samizdat).
In
una lettera aperta a Michail Šolochov
(link alle citazioni dalla lettera aperta a M. S.) , ad
esempio, essa denuncia chiaramente la responsabilità che questi ebbe
nell’opera di reppressione di molti scrittori e studiosi di
libero pensiero; nell’articolo Non
la condanna, ma il pensiero, ma la parola (link
alla citazione dall’articolo),
la Čukovskaja denuncia la tendenza ad un ritorno allo
stalinismo nella Russia postchruščëviana; negli articoli La
responsabilità dello scrittore e l’irresponsabilità della
“Literaturnaja Gazeta” e La
rabbia del popolo parola (link
alla citazione dall’articolo),
difende pubblicamente dissidenti quali Josif Brodskij e Andrej
Sacharov e insorge
contro le persecuzioni inflitte ad Aleksandr Solženicyn e la
valanga di menzogne e di calunnie abbattutesi su di lui in seguito
alla pubblicazione dei suoi romanzi “rivelazione”
sull’esistenza dei gulag sovietici.
Dalla
seconda metà degli anni Sessanta Lidija Čukovskaja vide
moltiplicarsi i provvedimenti presi nei suoi confronti da parte
dell’Unione degli scrittori, fino alla sua esclusione, avvenuta
il 9 gennaio 1974. Ma le misure repressive si spinsero ben oltre,
fino a coinvolgere la sua vita privata. La scrittrice veniva
infatti sorvegliata in ogni suo spostamento o incontro. I suoi
amici venivano a loro volta controllati, perquisiti e interrogati
ogni volta che si vedevano con lei. Il suo telefono era tenuto
sotto controllo. Persino la sua posta veniva costantemente
esaminata. Tutto questo, appunto, continuò fino alla perestrojka
, alla ricostruzione di Michail
Gorbačëv.
La
Čukovskaja tornò infatti ad essere citata in URSS nel 1987 e
nel 1990, il movimento democratico Aprel’ le conferì il primo
“Premio A. D. Sacharov per il ‘coraggio civile di uno
scrittore.’ Ma il riconoscimento per lei più importante non
poteva essere che la pubblicazione in patria del racconto che
aveva segnato l’inizio della sua lotta. Quando Sof’ja
Petrovna
comparve sulla rivista «Neva», nel numero di febbraio del 1988 –
notate, quasi 50 anni dopo la sua stesura e circa 35 dopo la morte
di Stalin - si realizzò il suo più grande sogno: quello
che il pubblico sovietico potesse
immedesimarsi in Sof’ja Petrovna e ricordare ogni cosa,
impedendo in questo modo alle autorità di cancellare, impunite,
tutti gli orrori commessi in quegli anni. Un sogno che sembrava
essersi definitivamente infranto nel 1962, quando la pubblicazione
di Sof’ja
Petrovna
per opera della casa editrice Sovetskij Pisatel’ era stata
bloccata, ma a cui la scrittrice, di fatto, non aveva mai
rinunciato. Era questa una soddisfazione ancora più grande della
stessa riammissione nell’Unione degli Scrittori: la scrittrice
annunciò questo evento che sanciva ufficialmente la sua rinascita
in letteratura con questa semplice frase, dal tono quasi
indifferente: «[…]
nel febbraio 1989 mi notificarono ufficialmente che
[…]l’Unione degli Scrittori aveva revocato all’unanimità -
all’unanimità, come quando mi esclusero! - la sua precedente
decisione del 9 gennaio 1974 e, pertanto, io sono di nuovo membro
dell’Unione degli Scrittori.»
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