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IO SONO LA VERITÁ (Gv 14,6).

La passione per la verità come fondamento di una spiritualità ‘politica’- Fr. Alberto Degan

Credere in Gesù come ‘Verità’ ha delle implicazioni politiche.

 

“Se rimanete fedeli alla mia parola, conoscerete la veritá, e la veritá vi fará liberi (Gv 8,32). La verità di cui parla Gesú in questo versetto è tutta la veritá contenuta nelle sue parole, quelle parole che ci dicono di mettere nel fodero le nostre spade e i nostri cannoni (Mt 26,52), che ci mettono in guardia contro chi ci governa come padrone assoluto e per di piú si fa chiamare benefattore (Lc 22,25), parole che denunciano la presenza di ladri e ‘lupi’ che vogliono solo rubare, uccidere e distruggere (Gv 10, 10), che smascherano l’ipocrisia di chi onora i profeti del passato e poi uccide i profeti del presente (Lc 11,47), etc. Come cristiani, dunque, dobbiamo annunciare non solo la veritá sulla Santissima Trinitá e su qualche altro dogma, ma anche la veritá della povertá, la veritá dei massacri impuniti che coprono interessi inconfessabili, la veritá della politica e dell’economia di morte, etc. Se non lo facciamo, non siamo e non rimaniamo fedeli alla parola di Gesù.

Quando il presidente Bush nel 2003 scatenò la II guerra del Golfo, una giornalista del New York Times, Helene Cooper, affermò che il governo statunitense sapeva benissimo che questa decisione apriva la strada ad una guerra civile che sarebbe durata dai 15 ai 20 anni, e che questa guerra avrebbe provocato morti e distruzioni.

In altre parole, che gli iracheni soffrissero molto più di quanto soffrivano sotto Saddam Hussein, e che continuino a soffrire e a morire per altri 10 o 20 anni, al presidente Bush non interessava granché, né lo considerava una sconfitta della sua politica: perché non è per lenire la sofferenza del popolo iracheno che aveva iniziato questa guerra, con uno sforzo finanziario senza precedenti. Il vero motivo di quella guerra, come dice Noam Chomsky, è un altro. Naturalmente, il potere non dirá mai la veritá su questo motivo, non dirá mai che l’unico motivo di questo enorme sforzo bellico è il controllo del petrolio di quella regione, perché non é ‘politicamente corretto’ parlarne apertamente. Il governo statunitense non dirá mai che – a partire dalla prima guerra del Golfo - centinaia di migliaia di persone sono morte solo per garantire il controllo del petrolio all’Impero nordamericano. Però noi cristiani siamo chiamati a gridare queste veritá inconfessabili.

Uno dei quattro pilastri della pace, diceva Giovanni XXIII, è la veritá. Se rinunciamo a questo pilastro, non possiamo essere annunciatori di pace. Se non abbiamo il coraggio di gridare queste veritá ‘politicamente scorrette’, se non informiamo e non denunciamo la logica perversa di una politica che sta causando la morte di migliaia di innocenti, non possiamo presentarci come discepoli di Colui che ha detto: “Io sono la Veritá”.

Prima di Bush, sotto la presidenza Clinton, durante un dibattito televisivo qualcuno fece notare a Madeleine Albright che a causa del prolungato embargo militare imposto dagli Stati Uniti erano morti mezzo milione di bambini iracheni. La segretaria di Stato non negò l’accusa e ammise che si era trattato di “una scelta molto difficile”, che tuttavia difese: “Ma noi riteniamo che sia stato un prezzo che è valsa la pena pagare” (presumibilmente in nome di un valore più alto). Mi domando: cosa può esserci di più importante della vita di mezzo milione di bambini? Qual è il grande ‘valore’ che può giustificare la morte di tanti innocenti?

E’ la stessa storia di sempre: l’Impero, i potenti pensano di fare quello che vogliono con i più deboli, e dicono: ‘Sì, è lamentevole, ma in fin dei conti cosa vale la vita di questi bambini iracheni? Ci sono altri ‘valori’ da difendere’.

Nel 1972 alcuni coloni colombiani ammazzarono 15 indios e furono assolti per la loro ‘buona fede’, perché, sta scritto nella sentenza emessa dai giudici, “No sabìan que matar a indios era un delito” , “non sapevano che ammazzare indios era un crimine”. Ebbene, questo è il principio che continua a reggere la politica internazionale, che è la politica del più forte. Di fronte alle proteste e all’indignazione di alcuni pacifisti, Madeleine Alberight si sorprese, e praticamente cercò di dire: ‘Ma abbiamo sempre agito così in politica estera! Perché vi meravigliate tanto? Non immaginavo che per voi provocare la morte di centinaia di migliaia di bambini iracheni fosse una cosa così grave, e che addirittura questi bambini contassero più dei nostri grandi valori!’. E questi valori, ovviamente, sono il nostro ‘benessere’ e il nostro ‘standard di vita’. ‘Veritá’, nell’originale greco del Vangelo, si dice alétheia, che propriamente significa ‘non-dimenticanza’. Difendere la Verità, dunque, significa - innanzi tutto - non dimenticare la realtà dei fatti, la realtà di tanti crimini di cui quasi nessuno parla.

Soffocati dalla ‘postverità’?

La ricerca e la difesa della verità è tanto più importante e urgente oggigiorno, in cui il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione rischierebbe di far trionfare definitivamente quella che qualcuno ha chiamato ‘post-verità’, che è una verità ‘falsa’ funzionale agli interessi di chi detiene il potere.

Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, sostiene che a livello di economisti ‘seri’ si dà ormai per scontato che è falso il dogma che circola a proposito della crisi che stiamo vivendo: “Se non cresciamo economicamente” si dice, “è solo perché gli Stati sono troppo indebitati: i Paesi che si indebitano oltre il 90 per cento del Pil non possono crescere". Ebbene, afferma Krugman, questo ‘dogma’ a livello scientifico è ormai caduto a pezzi; eppure continua a circolare a livello di parabola politica. Perché? Non è un semplice errore: si tratta di una vera e propria ideologia che “vuole convincerci che stiamo pagando il fatto di aver vissuto al di sopra dei nostri mezzi. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza".

La postverità è la ‘verità’ che si fa circolare nei mezzi di comunicazione e che domina il dibattito politico, una ‘verità’ che se ne frega dei dati oggettivi, e che risponde solo agli interessi dei più ricchi. Come dice Krugman, “ciò che il più ricco 1 per cento della popolazione desidera, diventa ciò che la presunta scienza economica ci dice che dobbiamo fare".

La verità non è che in Italia la classe operaia ha vissuto negli eccessi: la verità è che nel nostro paese il 10% della popolazione ha accentrato nelle sue mani il 50% delle ricchezze. La verità, dunque, è che bisognerebbe parlare di politiche di redistribuzione dei redditi. Ma perché nessun partito politico ne parla chiaramente?

La Verità vi farà liberi”. Credere in Gesù come verità ci fa responsabili e custodi della verità in tutte le sue dimensioni e implicazioni, anche quelle politiche. San Paolo dice che “l’ingiustizia degli uomini soffoca la verità” (Rm1,18). Anche oggi siamo chiamati a custodire la verità e a liberarla dalle catene dell’ingiustizia e della menzogna, che vorrebbero soffocarla. Non è un optional, è un impegno intrinsecamente legato alla nostra professione di fede in “Gesù-Verità”.

Chi ha paura del gelsomino?

Dire che la fede ha implicazioni politiche dovrebbe essere ormai una cosa scontata, accettata da tutti. Sappiamo invece che non è così, per cui è bene ribadire che la politica è quell’attività umana finalizzata a realizzare il bene della ‘polis’, cioè il bene della città, il bene della comunità. Paolo VI ha definito la politica “la più alta forma di carità”. E’ evidente, dunque, che la missione non può non avere una intrinseca dimensione politica, che deve essere sostenuta da una forte ed esigente spiritualità. L’amore alla verità è uno dei pilastri di questa spiritualità. E termino questa riflessione ricordando ciò che è avvenuto a Pechino nel febbraio del 2011.

Alcuni giovani cinesi che sognano una trasformazione democratica per il loro paese provarono ad esprimere il loro sogno prendendo a prestito il simbolo della primavera araba di Tunisi: il gelsomino. E così, a Wangfujing, la via dello shopping a poca distanza da Piazza Tienanmen, ci fu un piccolo assembramento di persone che lanciarono alcuni mazzi di gelsomini sotto i flash e le telecamere dei media. Subito intervenne la polizia, che spinse la folla verso la strada mentre altri agenti facevano sparire velocemente i fiori gettandoli nell'immondizia.

Il gelsomino è il simbolo della speranza di cambiamento, il simbolo della speranza nella giustizia e nel trionfo della verità. La politica dovrebbe essere l’attività finalizzata a diffondere il profumo del gelsomino. Quando invece la politica dedica sforzi ed energie a gettare il gelsomino e le speranze di un popolo nell’immondizia, significa che ha completamente ribaltato e tradito la sua funzione.

Il cristiano assume come impegno di fede quello di non rinunciare mai al profumo del gelsomino.

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