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RESTANO GLI ALBERI CHE HAI SEMINATO, DI Juan Josè Tamayo

La spiritualità e la prassi di Leonidas Proaño

 “RESTANO GLI ALBERI CHE HAI SEMINATO”

di Juan José Tamayo

 

Vedi anche la pagina su mons. Leonidas Proaño.

Il ricordo sovversivo delle vittime

Il centenario della nascita di mons. Leonidas Proaño (1910-1988) non poteva passare inosservato. E non perché volessimo onorarlo come eroe della patria, metterlo in una teca o dichiararlo servo di Dio, beato o santo. E neppure per rendergli omaggio o intonare panegirici alla sua persona. Tantomeno per celebrare messe in suffragio per la sua anima. Nessuna di queste cose gli piaceva in vita. Figuriamoci dopo la sua morte!
Perché allora l’impegno tanto deciso, lo sforzo tanto grande e la dedizione tanto generosa della Fundación del Pueblo Indio (...)? Perché l’invito a comunità indigene di tutta l’Abya-Yala, ai rappresentanti delle comunità ecclesiali di base, dei movimenti sociali, delle organizzazioni civili e di diritti umani, a teologi e teologhe, a persone e organizzazioni di molti Paesi del mondo?
La risposta è semplice: per fare memoria del passaggio nella storia di un uomo che ha lasciato un’impronta, per ricordarne e ripercorrerne il cammino durante i fecondi 78 anni della sua vita, per apprendere e mettere in pratica gli insegnamenti che ci ha dato con la sua vita, per seguire creativamente il suo esempio.
Noi esseri umani siamo smemorati. Abbiamo una memoria molto selettiva. Tendiamo a ricordare le imprese degli eroi, molti dei quali appartengono solo all’immaginario sociale e non alla realtà, e a dimenticarci di popoli e persone che si sono rifiutati di seguire la marcia trionfale del progresso. Di conseguenza cancelliamo dalla nostra memoria quanti hanno preferito accompagnare chi è stato lasciato indietro dal progresso e quanti hanno deciso di lottare per le cause perse.
Risulta più gratificante ricordare quegli eventi e quelle persone che si pongono dal lato dei vincitori, che chiamiamo “eroi”, a spese dei vinti, coloro che consideriamo perdenti o falliti, dimenticandoci di questi. La memoria umana tende a ricordare i progressi della civiltà occidentale e a dimenticare lo “stato di eccezione” in cui vivono i popoli originari proprio a causa di tali progressi.
La malattia più diffusa nella civiltà occidentale è l’amne-sia, che è necessario combattere con una medicina: la ragione anamnetica, centrata sul ricordo delle vittime, sulla narrazione delle loro sofferenze e sul recupero della loro dignità. (...) Non è il ricordo del passato come restaurazione, né come contemplazione passiva di idee eterne nel senso della anamnesi platonica.
È, invece, il ricordo sovversivo contro l’ordine stabilito del passato, che si riproduce nel presente (...). È la memoria pericolosa che guarda al passato in cerca di giustizia per le vittime e mette in discussione i canoni dominanti. È lo sguardo critico al passato per dissentire e dire “no”. È, infine, il ricordo che pensa al futuro non come continuazione del passato, ma come apparizione del nuovo, nel solco della migliore tradizione biblica: nuovo cielo e nuova terra, nuova creazione, messianismo, speranza, terra promessa... È questo il ricordo a cui abbiamo dato vita nel Centenario di Taita Proaño a Quito e Imbabura, dal 27 al 31 gennaio del 2010.
Il ricordo così inteso si è tradotto in quei giorni in fonte di azione storicamente liberatrice. La storia intesa come storia della sofferenza fatta memoria conserva la forma di “tradizione pericolosa”. La distruzione del ricordo è un mezzo tipico della dominazione totalitaria. Quando agli esseri umani si tolgono i ricordi e i sogni, comincia la loro schiavitù.
Negli atti commemorativi del Centenario abbiamo fatto memoria delle opzioni più importanti di mons. Proaño durante la sua vita, che riassumo come segue.

Opzione per la povertà e per i poveri

L’opzione fondamentale di mons. Proaño è stata senza dubbio la povertà. Povero è nato, povero è vissuto. Povero è morto. La povertà è l’unica eredità che ci ha lasciato. La povertà come dono e come valore, l’austerità come stile di vita, l’indigenza come realtà inerente all’essere umano, la condivisione come forma di realizzazione. La testimonianza di Leonidas Proaño è illuminante in merito: “La povertà!... È anche un dono. ‘Beati i poveri’ è un dono, sempre che si abbia coscienza di esserlo. Sempre che gli uomini arrivino ad essere coscienti della congenita indigenza umana”. Perché porre la povertà come un valore? Perché grazie a questa possiamo vivere in austerità e libertà di fronte al consumismo. “Sapevo, come tutti i poveri, cosa significa patire i bisogni e la fame. Però ho imparato anche a sopportare le privazioni senza lamenti e invidie”.

Opzione per i popoli indigeni

L’impegno che mons. Proaño ha assunto con più radicalità, la sua esperienza fondante, quella che ha dato senso al suo lavoro come vescovo, è stata la difesa dei diritti degli indigeni. Impegno che non gli è costato alcun sacrificio, alcuno sforzo. È stato qualcosa di spontaneo, di naturale, perché da sempre ne era stato nutrito. Aveva imparato dai suoi genitori a trattare gli indigeni, emarginati nel suo paese, come persone, ad accoglierli come uguali in dignità, a riconoscere, rispettare e difendere i loro diritti. La sua testimonianza getta luce sul suo modo di relazionarsi a loro: “Tanto mio padre come mia madre apprezzavano molto gli indigeni. Sembrava provassero un piacere particolare nel conversare con loro e nel servirli. Questo entrava nel mio animo, nelle conversazioni e nelle riflessioni. Per esempio, quando  constatavamo che gli indigeni erano oggetto di disprezzo, di scherno, di sfruttamento da parte di altre persone, mi mostravano quanto fosse sbagliato un simile comportamento, dicendomi che anche loro erano figli di Dio e fratelli. Mi insegnarono persino gesti e parole che dovevo utilizzare ogni volta che entravo in contatto con loro”.
Arriva ad affermare: “Questo amore e rispetto per i poveri, particolarmente per gli indigeni, è arrivato a far parte della mia stessa esperienza”. Questa espressione riflette con chiarezza l’identificazione di Taita Proaño con gli indigeni, fino a farsi uno di loro. E così è stato durante i suoi anni di sacerdozio e di episcopato dedicati alla causa della liberazione degli indigeni, al punto da essere conosciuto internazionalmente come “vescovo degli indios”. Seguendo il metodo della Joc (Gioventù operaia cristiana, ndt) del vedere-giudicare-agire, Proaño constata che due terzi della diocesi di Riobamba erano costituiti da indigeni e scopre la loro deplorevole situazione economica, culturale, politica, sociale, educativa e religiosa. “Vivevano nella più totale miseria; erano vittime del disprezzo di tutti; solo un 8% era stato a scuola fino al secondo o terzo grado; dato che erano analfabeti, non erano riconosciuti dalla legge come cittadini; erano terribilmente emarginati dalla società e anche dalla Chiesa. I diritti fondamentali di questo popolo erano crudelmente e perennemente calpestati”.
La Chiesa di Riobamba era proprietaria di grandi estensioni di terra come eredità del sistema postcoloniale. La risposta di Proaño alla situazione di ingiustizia strutturale in cui viveva la maggior parte della popolazione è stata quella di lottare perché si dessero terre agli indigeni, di farsi solidale con le loro rivendicazioni e di consegnare gratuitamente centinaia di ettari di proprietà della Chiesa alle famiglie, costituitesi in cooperative promosse dalla stessa Chiesa, fino a disfarsi di tutte le sue proprietà. (...).
Uomo di parola, di una sola parola, di impegno, di un solo impegno, di convinzioni profonde, di scelte ferme. Eppure, si sentiva corresponsabile dei cinque secoli di ingiustizia subita dagli indios e complice con la Chiesa in questa ingiustizia. Così esigente verso se stesso era Taita Proaño! Il teologo José Comblin, che lo ha conosciuto molto bene, ha convissuto con lui e lo ha accompagnato teologicamente per 20 anni, ha testimoniato la sua dedizione, costanza e passione nella lotta per la difesa dei diritti dei popoli indigeni: “Ciò che più mi impressionava in mons. Proaño era la sua rettitudine e la sua purezza di cuore. Era un uomo di una sola parola, di un solo impegno. Dal suo arrivo alla diocesi di Riobamba si era appassionato alla causa degli indigeni. Per lui la causa degli indigeni del Chimborazo e dell’Ecuador era l’incarnazione della causa della giustizia. Si sentiva responsabile per i cinque secoli di ingiustizia di cui erano stati vittime gli indigeni; sentiva la complicità della religione e della Chiesa nella loro oppressione. Voleva dedicare il suo lavoro di evangelizzazione alla riparazione di quella ingiustizia storica”.

Opzione per la Pachamama

L’esperienza della compassione, della misericordia e della solidarietà è stata quella che ha segnato la vita di monsignor Proaño. “Sentire come propria la sofferenza di ogni fratello ovunque sia, fare propria l’angoscia dei poveri... è solidarietà”, scriveva ad Assisi nel dicembre del 1983 in una poesia intitolata “Solidarietà”. La sua solidarietà non è stata mai settaria, non si limitava alle cause più vicine, non conosceva confini. Era diretta a tutti gli esseri umani, ma in special modo ai gruppi e alle persone più vulnerabili. (...).
E la sua compassione trascendeva le persone e si estendeva alla natura, alla terra, alla Pachamama. Credeva nell’es-sere umano e  nella comunità come fermento di trasformazione sociale allo stesso modo in cui amava e rispettava la natura. Nelly e Nidia Arrobo Rodas descrivono con grande sensibilità ecologica l’amore e il rispetto di Leonidas Proaño, di più, la sua identificazione con la terra, l’acqua, gli animali, le piante: “Viveva al ritmo della natura le ore del riposo, del nutrimento e del lavoro... Si alimentava dei prodotti della terra, preparati nel modo più semplice. Si manteneva in salute e curava le sua malattie con rimedi naturali: il fango, l’acqua, le piante, gli animali, i massaggi erano la sua medicina. Al contatto con la natura recuperava le forze. Nel-l’albero di albicocche del cortile della Casa episcopale vedeva il processo della sua vita, a volte fiorita in progetti meravigliosi, altre volte secca come i rami che hanno perso le foglie, ma ogni anno abbondante di frutti. Nella poesia dedicata alla Madre Terra esprimeva la sua decisione di non essere che ‘terra, senza vane pretese, senza lamentele, senza invidie’. Seminò alberi, migliaia di alberi, e con il Ceas (Centro di Studi e Azione Sociale) pianificò ed eseguì la riforestazione della provincia”.
Per questo, il suo programma era quello di “tornare alle fonti per redimere la vita”. Non esiste redenzione al di fuori della Pachamama, della Terra, della Natura. Per raggiungere la liberazione integrale è necessario tornare alla Natura. Qui è la fonte, la sorgente, l’origine della vita. La Natura può vivere senza noi. E difatti è vissuta senza di noi per milioni di anni. Noi, al contrario, non possiamo vivere senza di essa.

Opzione per la liberazione e lotta contro l’oppressione

Per monsignor Proaño la storia è oppressione e liberazione. Oppressione, sì, soprattutto nella storia dell’Ecuador, che annoverava allora un’alta percentuale di analfabeti e in particolare nella storia della provincia di Chimborazo, con il maggior livello di analfabetismo del Paese. Oppressione vissuta da lui stesso, nella sua identificazione con i sofferenti della storia del suo popolo. Egli stesso ha vissuto sulla propria carne l’esperienza della prigione insieme ad altri vescovi, quali Antonio Fragoso, Cándido Padín, Sergio Méndez Arceo, teologi come José Comblin e consiglieri laici come Pérez Esquivel.
Era l’agosto del 1976, in un’epoca di regimi militari in molti Paesi dell’America Latina, Ecuador compreso. Un numeroso gruppo di vescovi, teologi e consiglieri laici era riunito nella Casa della Santa Cruz della diocesi di Riobamba per studiare l’ideologia della Sicurezza Nazionale e rispondere all’angosciosa domanda che anni prima aveva posto monsignor Helder Cámara: “Cosa avete fatto con Medellín?”. Alcuni soldati ecuadoriani fecero irruzione nella Casa della Santa Cruz e arrestarono i vescovi, credendo che fossero guerriglieri e cospiratori. Fu un fatto insolito. Quasi tutti i vescovi riuniti erano schedati nei loro Paesi. Le forti pressioni diplomatiche fecero sì che li liberassero nel giro di ventiquattr’ore. Tutti gli stranieri presenti alla riunione furono obbligati ad abbandonare l’Ecuador.
Ma i problemi di mons. Proaño non rimasero circoscritti solo alla repressione militare. Poco dopo, fu oggetto di un severo controllo ecclesiastico da parte del Vaticano, che inviò alla diocesi di Riobamba un Visitatore Apostolico perché indagasse sul vescovo degli indios.
Proprio perché visse con gli indigeni la doppia esperienza dell’oppressione - quella politica e quella ecclesiastica - mons. Proaño optò per la liberazione. E lo fece seguendo la pedagogia della coscientizzazione attraverso un lento ma sicuro processo educativo popolare, con la creazione, in tutta la provincia di Chimborazo, delle Scuole Radiofoniche Popolari e del Ceas. Le Scuole Radiofoniche contribuirono oltremodo, come riconosce lo stesso Proaño, a  risvegliare gli indigeni da un sonno secolare. (...). Furono molti gli indigeni del Chimborazo, del resto dell’Ecuador e di altri Paesi di Abya-Yala che seguirono questa metodologia, prendendo coscienza della propria dignità e diventando soggetti della propria storia e leader del proprio popolo. (...)..

Opzione per la comunità

L’esperienza della povertà è stata per Proaño il luogo privilegiato per vivere la comunità, per praticare la solidarietà, per apprendere la fraternità, per sentire l’amicizia. Così egli lo ha riconosciuto, vissuto e formulato: “Ho imparato quella che è la semplice fraternità fra i poveri: mettere in pratica una generosa e delicata mutualità tra vicini. I poveri sentono quasi spontaneamente la solidarietà con altri poveri, con tutti quelli che soffrono. Anche l’amicizia è un dono, e questo dono viene accompagnato da un messaggio (Mt 25,34-40). I ricchi diventano egoisti. La nascita delle comunità di base in Brasile è dovuta a questa filosofia popolare, la filosofia dei poveri... i poveri vivono più facilmente la vocazione comunitaria”.
Il Concilio Vaticano II (1962-65), al quale aveva partecipato come giovane vescovo, lo aveva aiutato a scoprire la dimensione comunitaria della Chiesa. A partire dai testi conciliari, aveva preso coscienza della necessità di trasformare radicalmente la Chiesa attraverso la rinuncia al carattere piramidale e l’assunzione della dimensione comunitaria. E, con la presa di coscienza, l’autocritica: “Ho capito che noi sacerdoti abbiamo accaparrato tutti i carismi nella Chiesa, che siamo diventati dominatori del popolo anziché esserne i servitori, e che i laici sono chiamati a giocare un ruolo preponderante”. Ma la relazione Proaño-Concilio Vaticano II è stata biunivoca e mutuamente feconda. Come riconosce Houtart, il vescovo di Riobamba, insieme ad altri vescovi latinoamericani, come il cileno Manuel Larraín e il brasiliano Helder Câmara, contribuì fortemente al rinnovamento ecclesiale che mise in marcia il Vaticano II. E lo fece a partire dalla sua esperienza pastorale incarnata nel mondo dei poveri. Non pochi dei cambiamenti che realizzò nella sua diocesi anticiparono il Vaticano II, furono avallati da questo e furono inclusi nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo attuale (Gaudium et spes). Così, da semplici esperimenti locali divennero esperienze assunte dai vescovi della Chiesa universale.
La sua partecipazione alla Conferenza generale dell’epi-scopato latinoamericano di Medellín (Colombia), nel 1968, contribuì profondamente a cambiare la rotta della Chiesa latinoamericana e ad orientarla verso la liberazione. Subito dopo il Concilio Vaticano II, mons. Proaño fu fra i pionieri delle Comunità Ecclesiali di Base (Cebs). E la strutturazione comunitaria della diocesi di Riobamba influì decisivamente sulla centralità che i documenti di Medellín riconoscono alle Cebs come principio di organizzazione della Chiesa, ambito privilegiato di evangelizzazione e canale di promozione. “L’esperienza della comunione, alla quale il cristiano è stato chiamato, deve essere trovata nella sua ‘comunità di base’, e cioè in una comunità locale o ambientale, che risponda alla realtà di un gruppo omogeneo e che abbia una dimensione tale da permettere una relazione personale fraterna fra i suoi membri... Essa è, perciò, cellula iniziale di strutturazione ecclesiale e punto focale di evangelizzazione, e attualmente fattore primordiale di promozione umana e sviluppo”.
L’ideale espresso tanto nitidamente a Medellín si era già fatto realtà nella diocesi di Riobamba nella Casa della Santa Cruz, meravigliosa esperienza di vita comunitaria forgiata per quasi trent’anni a partire da un’amicizia autentica e profonda, indispensabile per una vita e una pastorale comunitarie, malgrado le difficoltà da superare e i conflitti da arginare.

Opzione per una spiritualità evangelica, nella sequela di Gesù

La spiritualità della sequela di Gesù di Nazareth, il Cristo Liberatore, è stato l’alimento quotidiano per l’impegno di monsignor Proaño con i poveri. Il suo compatriota e fratello nell’episcopato, Fray Luís Alberto Cuenca Tobar, arcivescovo di Cuenca (Ecuador), lo definiva “un contemplativo non in clausura”. E continuava: “Si potrebbe dire che la sua timidezza, la sua semplicità, la sua primitiva e rustica umanità lo mettessero in clausura. Ma il suo coraggio, la sua azione apostolica, la sua passione da innamorato della verità,  facevano sì che egli uscisse da se stesso, portando in sé quello che la contemplazione gli aveva dato... Il modo di Proaño di ricorrere in tutto al Vangelo rivelava il suo permanente stato di riflessione evangelica. L’atteggiamento di Proaño era l’attenzione al Padre”.
Era, la sua, una spiritualità evangelica, cristologica, comunitaria ed ecclesiale: “Perché l’uomo cambi – scriveva nel 1977 – è necessario vivere la Teologia. In altre parole, è necessario vivere il Vangelo. È necessario sperimentare Dio in Cristo. È necessario vivere questa esperienza tra altre persone, fra i discepoli di Cristo, nel seno di quello che chiamiamo Chiesa nel suo senso più concreto”.

Opzione per la diversità culturale e il pluralismo religioso

Monsignor Proaño è stato particolarmente sensibile alla diversità culturale e al pluralismo religioso. “Non era un vescovo. Era un indio fra gli indios”: così lo definisce Ana María Gaucho, collaboratrice di Proaño dal 1982 nel Movimento Indigeno del Chimborazo. La sua immersione nelle tradizioni religiose culturali indigene lo aiutarono a relativizzare la Chiesa romana inculturata nella tradizione occidentale e a valorizzare le dimensioni liberatrici delle culture e religioni indigene come fonti di saggezza, cammini di salvezza, luoghi di liberazione integrale e spazi di ricco simbolismo. Il suo pensiero, il suo modo di vivere, il suo agire pastorale e la sua concezione del mondo furono caratterizzati dal riconoscimento del pluriverso religioso, etnico, linguistico e culturale come fatto storico innegabile, come valore da potenziare e come ricchezza della natura, dell’umanità e delle religioni da coltivare.

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