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Tu e mons. Romero

Lettera di Sobrino al Ellacurìa 2009

TU E MONSIGNOR ROMERO
di Jon Sobrino

 

Caro Ellacu,

quest’anno è il ventesimo anniversario del vostro martirio e presto sarà il trentesimo di quello di monsignor Romero. Ci capita di parlare di voi con frequenza, con particolare responsabilità e anche con qualche scrupolo. Voi, i gesuiti, siete martiri ben noti; Julia Elba e Celina, invece, non tanto. E tuttavia loro sono il simbolo delle centinaia di migliaia di uomini e donne che sono morti e muoiono innocenti e indifesi, qui in Salvador, nel Congo, in Palestina, in Afghanistan, senza che nessuno ci faccia caso. Praticamente per le società dell’abbondanza non esistono, né in vita né in morte.
E neanche la Chiesa Istituzione sa cosa fare di tanta gente che è morta assassinata. Se è difficile che canonizzino un martire della giustizia come monsignor Romero, molto più difficile sarà che canonizzino questi uomini e donne che sono vissuti e sono morti nella povertà e nell’oppressione. Eppure, molte volte ti ho sentito dire che sono loro “i preferiti di Dio”.
Dovrei scriverti, allora, su Julia Elba e Celina, ma conosco poco di loro. Di Julia Elba so che ha passato tutta la sua vita a lavorare in cucina, fin da quando aveva dieci anni. Di lei non so molto di più. Sì, me lo sono chiesto: “chi è più martire, Ellacuría o Julia Elba?”, e sarebbe terribile che i martiri gesuiti ci facessero dimenticare di queste due donne morte assassinate a 50 metri dal giardino delle rose. In questi giorni ho scritto che “Ellacuria non è vissuto né è morto perché lo splendore della sua immagine oscurasse il volto di Julia Elba”. Ellacu, questo è lo scrupolo.
Ma Julia Elba e molte donne salvadoregne come lei mi perdoneranno, forse addirittura gioiranno, se in questa lettera ti parlo del nostro Monsignore, perché non si ha invidia di una persona tanto amata. E l’ho intitolata: “Tu e monsignor Romero”. La mia intenzione è aiutare le giovani generazioni, che di certo non ricevono un grande orientamento cristiano e salvadoregno. Che sappiano che una volta c’erano un Paese e una Chiesa straordinaria, quella di monsignor Romero. E tu sei un mistagogo, un iniziatore di lusso alla conoscenza della sua persona. Per questo voglio ricordare come andava fra voi.

Una tradizione magnifica

La gente sa che entrambi siete stati eloquenti profeti e martiri. Ma vorrei ricordare un’altra somiglianza importante, riguardo al modo in cui avete cominciato. Tutti e due avete ricevuto la torcia cristiana e salvadoregna, e senza starci a pensare avete fatto l’opzione fondamentale di mantenerla accesa. Monsignore l’ha ricevuta da Rutilio Grande la notte che l’uccisero. E, morto Monsignore, l’hai raccolta tu. È vero che già avevi iniziato prima, ma è dopo il suo assassinio che la tua voce si è fatta più potente e ha cominciato a risuonare come quella di Monsignore. Alla Uca ho sentito una signora che diceva: “dal momento in cui hanno ammazzato Monsignore, nel Paese nessuno ha parlato come padre Ellacuria”.
Quello che mi interessa ricordare e sottolineare è che nel Salvador è esistita una tradizione magnifica: la dedizione e l’amore verso i poveri, lo scontro con gli oppressori, la fermezza nel conflitto, la speranza e l’utopia che passavano di mano in mano. E in questa tradizione risplendeva il Gesù del vangelo e il mistero del suo Dio. Non possiamo dilapidare questa eredità, dobbiamo farla giungere ai giovani.
All’inizio, il tuo rapporto con monsignor Romero non fu positiva. Nei primi anni ‘70 tu eri già noto come un pericoloso gesuita di sinistra per la tua difesa della riforma agraria, dell’appoggio allo sciopero dei maestri di Andes e dell’analisi della frode elettorale del ‘72. Ma è con il tuo libro “Teologia Politica” del 1973 che hai cominciato a toccare temi più esplicitamente cristiani: salvezza e storia, il messianismo di Gesù, la missione della Chiesa, violenza e politica... E sebbene nel Paese non si parlasse ancora di teologia della liberazione - e di quanto fossero pericolosi i suoi sostenitori - i vescovi si spaventarono dell’Ellacuría teologo che emergeva con forza. E toccò a monsignor Romero scrivere una critica di sette pagine sul tuo libro. Lo fece in tono serio ed educato, a differenza della critica di un teologo della curia romana di nome Garofalo. Il vostro primo incontro fu piuttosto uno scontro.
Le cose seguirono il loro corso. Tu con scienza e profezia, e a volte con umorismo e ironia. In una piccola rivista della Uca ti capitò di scrivere un breve articolo dal titolo: “Un vescovo mascherato da militare e un nunzio mascherato da diplomatico”: quelli della mia generazione sanno a quali gerarchi ti riferivi. Non era il tuo stile, ma, sì, la tua convinzione.
Arriva così il 1976. Mons. Luis Chávez y González, benemerito e buon amico, dopo 38 anni lasciava l’arcidiocesi. In Eca (Estudios centroamericanos, una delle riviste della Uca, ndt) ci riunimmo per scrivere un editoriale su un’importante questione: “chi sarà il nuovo arcivescovo”. Appoggiavamo monsignor Rivera e prendevamo le distanze da quello che si presentava come possibile candidato: il vescovo Oscar Arnulfo Romero. Un scelta di certo mal riuscita al Vaticano, e più tardi avresti scritto che “monsignor Romero non fu scelto perché fosse quello che è stato; venne eletto quasi per il contrario”:
Giunse la conversione di Monsignore e con essa un profondo cambiamento nella tua relazione con lui. Quando, nel marzo del 1977, uccisero Rutilio, tu eri in Spagna, e da Madrid il 9 aprile gli scrivesti una lettera che per caso finì nella mie mani molti anni dopo. L’abbiamo pubblicata su Carta a las Iglesias nel marzo del 2006.
“Voglio dirle, nella mia modesta condizione di cristiano e di sacerdote della sua arcidiocesi, che mi sento orgoglioso della sua azione pastorale. Da questo lontano esilio, voglio manifestarle la mia ammirazione e il mio rispetto, perché ho visto nel suo modo di agire il dito di Dio. Non posso negare che il suo comportamento ha superato tutte le mie aspettative e questo ha prodotto in me una profonda gioia, che voglio comunicarle in questo sabato di gloria”.
Ellacu, questa lettera è uno dei tuoi testi più belli. Ti rivolgi a Monsignore con totale verità e mostri di te stesso sfaccettature sconosciute a chi ti ha conosciuto solo come professore e rettore. Dopo l’assassinio di Rutilio, lo ringrazi per “il suo coraggio e la sua prudenza evangelici di fronte a viltà e prudenze mondane”, per la capacità di “ascoltare tutti, ma decidendo quello che ad occhi prudenti appariva come la cosa più rischiosa”. Ti riferivi alla messa unica, alla soppressione delle attività nei collegi cattolici, alla promessa di Monsignore di non assistere ad alcun atto ufficiale... Ti complimenti con lui: “Lei ha fatto Chiesa e ha fatto unità nella Chiesa”; la maggior parte del clero, dei religiosi e delle religiose si erano stretti attorno a Monsignore. È il tuo augurio finale: “Se riesce a mantenere l’unità del suo presbiterio attraverso la sua massima fedeltà al vangelo di Gesù, tutto sarà possibile”.
Nella tua lettera si fa evidente la dialettica evangelica e ignaziana, ricorrente in te: “Lo ha ottenuto non per le strade della piaggeria o della dissimulazione ma per il cammino del vangelo: essendo fedele ad esso ed essendo coraggioso con esso”. “Non poteva compiere un passo migliore per fare Chiesa”. Pure io scrissi che, anche se sembrava che tutto cominciasse male per Monsignore, tutto cominciava bene. E hai firmato: “questo membro dell’arcidiocesi che ora si vede allontanato contro tutta la sua volontà”.
Quando sei rientrato, nel 1978, ti sei posto, con dedizione e devozione, al servizio di Monsignore. Hai scritto per la Ysax, la radio dell’arcidiocesi, una lunga serie di commenti alla sua terza lettera pastorale, “La Chiesa e le organizzazioni politiche popolari”. Lo hai aiutato a redigere la parte centrale sulle idolatrie della quarta lettera pastorale, “La Chiesa nell’attuale situazione del Paese”. Nelle sue ultime settimane sei stato con lui alle conferenze stampa che seguivano l’o-melia domenicale, e ti dava la parola quando gli facevano domande sulla situazione politica. Eri con lui alla vigilia del suo assassinio, dopo quell’omelia irripetibile: “In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo, vi chiedo, vi supplico, vi ordino nel nome di Dio: cessi la repressione!”. E al funerale hai portato a spalla il feretro. Ti si vede nella foto con Walter Guerra, Jesús Delgado e Juan Spain.
Quello che hai fatto per Monsignore non è stato semplicemente uno dei tuoi molti servizi al Paese. Neppure lo hai ritenuto un servizio strategico, data l’immensa influenza di Monsignore. Monsignor Romero è stato per te una persona molto speciale, in modo diverso da come lo erano stati Rahner o Zubiri. Si è introdotto dentro di te e ha toccato le tue corde più profonde. Una sensazione che tu hai avuto dall’inizio, registrata per sempre, nella mia memoria, quando hai pronunciato l’omelia per la messa funebre che abbiamo celebrato alla Uca. Hai detto: “Con monsignor Romero, Dio è passato per il Salvador”.
Molte volte ho citato queste parole, Ellacu. Sono proprio tue, per la precisione del linguaggio e per il peso del concetto. Conoscendoti, stavi dicendo la verità. E una verità teologale: per questo il Salvador, massacrato e speranzoso, scaltro e coraggioso, crudele e generoso, ha conosciuto il passaggio del mistero. Il passaggio di Dio. Per questo monsignor Romero è divenuto per te il referente di Dio, e principio e fondamento della tua teologia. Voglio ricordarlo brevemente.
Cominciamo con l’ecclesiologia. Il “popolo di Dio” non era un tema qualsiasi, men che meno una volta che era iniziato il riflusso rispetto al Vaticano II e tornava a risorgere la gerarcologia. Su di esso hai scritto un articolo sistematico nel 1983, ma prima, nel 1981, avevi scritto: “Il vero popolo di Dio, secondo monsignor Romero”. Non analizzavi le idee di nessun importante teologo, ma andavi al fondo del problema a partire dalla fonte che avevi più a portata di mano e che ti sembrava più feconda.
Menzionavi quattro caratteristiche del vero popolo di Dio. 1. L’opzione preferenziale per i poveri. 2. L’incarna-zione storica delle lotte del popolo per la giustizia e la liberazione. 3. L’introduzione del lievito cristiano nelle lotte per la giustizia. 4. La persecuzione a causa del regno di Dio nella lotta per la giustizia. Non tutto il nuovo proveniva da monsignor Romero, ma la maggiore novità, le tre ultime caratteristiche, proveniva da lui. Perlomeno è stato monsignor Romero a fartele approfondire.
Monsignore ti ha messo sulle tracce della “Chiesa dei poveri”, quella che non ha avuto successo nemmeno al Concilio, malgrado le intenzioni di Giovanni XXIII, del card. Lercaro e di altri pochi vescovi. E di certo ti ha ispirato per parlare del martirio, realtà fondante per la Chiesa, come la croce di Gesù. Varie volte hai citato alcune parole scandalose di monsignor Romero: “Mi rallegro, fratelli, del fatto che la Chiesa sia perseguitata. È la vera Chiesa di Cristo. Sarebbe molto triste se, in un Paese dove si sta assassinando in maniera tanto orribile, non ci fossero sacerdoti assassinati. Sono il segno di una Chiesa incarnata”. In modo migliore e più sostanziale di quanto farebbero tanti concetti, Monsignore definisce la Chiesa a partire da due relazioni essenziali: con il destino di Cristo e con il destino del popolo. Una volta, una persona domandò, con le migliori intenzioni, perché monsignor Romero corresse tanti rischi, fino a quello della vita. Ma tu gli rispondesti: “È ciò che deve fare”. Ed è ciò che anche tu hai fatto con la tua vita. L’ecclesiologia non era un insieme di concetti fissati con uno spillo alla realtà, ma nati da essa.
Nel campo della cristologia hai avuto molti punti di coincidenza con Monsignore. Voglio ricordarne solo uno, per me il più decisivo oggi, non solo nel Terzo Mondo ma anche nel primo: vedere Cristo nel popolo crocefisso, inteso come la continuazione del servo di Jahvé. Si tratta oggi delle centinaia e centinaia di milioni di poveri, affamati, oppressi, assassinati, massacrati, innocenti e indifesi, sconosciuti in vita e in morte. Con loro ho cominciato questa lettera, ricordando Julia Elba e Celina.
Nel 1978, in preparazione di Puebla, hai scritto: “Il popolo crocefisso. Saggio di soteriologia storica”, in cui analizzi la realtà dei poveri e delle vittime intesi come il servo sofferente di Javhé. Nel 1981, nel tuo secondo esilio a Madrid, hai scritto: “Il popolo crocefisso come ‘il’ segno dei tempi”. Nel primo testo ne evidenzi il carattere salvifico. Nel secondo, il carattere di rivelazione.
Nel 1977, ad Aguilares, riferendosi ai contadini perseguitati e assassinati, monsignor Romero disse: “Voi siete il divino Trafitto”. E in un’omelia del 1978 esprimeva gioia per il fatto che gli studiosi dell’Antico Testamento non potevano dire se il servo di cui parla Isaia è “tutto un popolo” o è “Cristo che viene a liberarlo”.
Non so dire “chi ha copiato chi” o se è successo come con Leibnitz e Newton, che hanno entrambi scoperto i fondamenti del calcolo infinitesimale indipendentemente uno dall’altro. Ma quello che mi sembra certo è che voi avete avuto la stessa eclatante intuizione di equiparare l’umanità sofferente al crocefisso e al servo di Jahvé. E, per quanto ne so, solo voi due. Non appare nelle encicliche, né nei documenti dei Concilii. Neppure, di norma, nelle teologie. E, morti voi, sembra non ci sia né vigore né rigore per parlare così di un mondo oggi crocefisso con tanta evidenza.
Un’altra cosa. Nel tuo secondo esilio, hai scritto un altro breve testo al quale hai dato molta importanza: “Perché muore Gesù e perché lo uccidono”. Il titolo è più che ingegnoso. Si tratta di chiarire il senso trascendente di questa morte e le sue cause storiche. In teologia si possono trovare riflessioni affini, ma non – certamente non con questa radicalità – nei testi ufficiali della Chiesa. Per prima cosa, bisogna tener presente il disegno di Dio. Secondariamente, bisogna tenere conto della storicità radicale della vita di Gesù: difensore di quelli che sono offesi dai potenti. Per questo motivo Gesù ha denunciato il potere, è entrato in conflitto con esso, ha perduto ed è stato crocefisso. Questa storia, tanto evidente, si suole tacerla a livello ufficiale, anche nel documento di Aparecida, peraltro buono in altri punti.
Non l’ha taciuta monsignor Romero. Durante la messa funebre per uno dei suoi sacerdoti assassinati, ha detto lapidariamente: “Viene ucciso chi disturba”. E venivano disturbati non demoni o poteri trascendenti, ma oligarchi, militari, corpi di sicurezza, squadroni della morte. Così si capisce “perché uccisero Gesù”, come tu chiedevi.

Un incontro speciale

Concludo con la teologia, con Dio e con la tua fede. Nella prima lettera che ti ho scritto dicevo che la tua fede in Dio non poteva essere ingenua. Nel 1969, a Madrid, hai parlato dei dubbi di fede che Rahner portava con eleganza, e ho capito che qualcosa di simile dicevi di te stesso. Credo che tu abbia lottato con Dio come Giacobbe, in quegli anni duri per la fede. E a 47 anni “ti è apparso” monsignor Romero, e uso il termine “apparire”, opthe, coscientemente, per esprimere quello che ci fu di inatteso, sorprendente, questionante e fortunato. Di questo si può parlare solo con timore e tremore, ma penso che, nel contatto con Monsignore, hai avuto un’esperienza nuova della realtà ultima, di Dio. E credo che si è notato nel tuo parlare su Dio.
Ho scritto che per Gesù Dio è il “Padre” nel quale si può trovare riposo, e che il Padre continua ad essere il “Dio” che non lascia riposare. In monsignor Romero, nella sua compassione verso i sofferenti, nella sua denuncia per difenderli, nell’amore senza compromessi, hai visto il Dio che è “Padre” dei poveri. Nella sua conversione, nel suo addentrarsi nell’ignoto e nell’incontrollabile, nel suo cammino senza sostegni istituzionali ecclesiastici, nel suo mantenersi saldo, giunga dove giunga il cammino, hai visto il Padre che continua ad essere “Dio”. E forse in Monsignore hai visto anche che, malgrado tutto, l’impegno è più reale del nichilismo, la gioia più reale della tristezza, la speranza più reale dell’assurdo. Così interpreto le sue semplici parole: “Con questo popolo non costa essere buon pastore”. In esse si riassume l’utopia.
Finisco. Non era la prima volta che ti incontravi con qualcuno che avrebbe influito grandemente nella tua vita, come giustamente osserva Rodolfo Cardenal. Tuttavia, l’incontro con Monsignore ha significato qualcosa di diverso. E questo diverso si radica nel fatto che ti sei incontrato con la profezia, la dedizione, la bontà di Monsignore, ma soprattutto con la sua fede, cosa che configura tutta la persona. Per questo non ti sei mai considerato “collega” di Monsignore. Non ti ho mai sentito criticare Monsignore, pur avendo tu un temperamento critico. Parlando sia a nome tuo che dell’Uca, hai detto: “Monsignor Romero sta avanti a noi”. E insistevi: “Non c’era dubbio su chi fosse il maestro e chi l’aiutante, chi fosse il pastore che segna i sentieri e chi fosse l’esecutore, chi fosse il profeta che penetra il mistero e chi fosse il seguace, chi fosse l’animatore e chi l’animato, chi la voce e chi l’eco”. Lo dicevi con totale sincerità.
“Monsignor Romero, un inviato di Dio per salvare il suo popolo”, hai scritto. E Monsignore ti ha parlato di quello che in Dio c’è di “più in qua”. Ma ti ha parlato anche di quello che in Dio c’è di ineffabile, di mistero di beatitudine, di quello che in Dio c’è di “al di là”. “Né l’uomo né la storia bastano a se stessi. Per questo [Monsignore] non smetteva di richiamare alla trascendenza. In quasi tutte le sue omelie emergeva questo tema: la parola di Dio, l’azione di Dio per infrangere i limiti dell’umano”. Monsignor Romero è diventato come il volto di Dio nel nostro mondo.
Ellacu, concludo questa lettera con le parole con le quali tu hai chiuso il tuo ultimo scritto di teologia. Sono per quanti non ti hanno conosciuto, per tutti noi che ti abbiamo conosciuto e specialmente perché aiutino la Chiesa a riprendere il suo cammino: “La negazione profetica di una Chiesa come il cielo vecchio di una civiltà della ricchezza e dell’impero e l’affermazione utopica di una Chiesa come il cielo nuovo di una civiltà della povertà è un richiamo incontrovertibile dei segni dei tempi e della dinamica soteriologica della fede cristiana storicizzata in uomini nuovi, che continuano ad annunciare con fermezza, sebbene sempre al buio, un futuro sempre più grande, perché oltre i successivi futuri storici si intravede il Dio salvatore, il Dio liberatore”.

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