Quale idea
di uomo si sta affermando nella nostra società ? PROSPETTIVE
PER UN PROGETTO DIVERSO DI UOMO E DI
SOCIETA'
di Raniero
La Valle
Volete sapere quale idea di uomo si sta affacciando nella nostra
storia, nelle nostre città dove - come ci è stato appena detto -
ci sono meno sorrisi e più reddito? Ebbene, vorrei partire da un
punto forse imprevisto, da una notizia del Corriere della
Sera di martedì scorso, 26 settembre, secondo cui un professore
dell'Università di Edimburgo, Kalum MacKellar, noto bioetico del
Regno Unito, dice che nei cantieri biologici inglesi stanno cercando
un sistema - e secondo lui ci riusciranno - per far nascere l'uomo
senza bisogno delle donne. Il patrimonio genetico femminile verrebbe
scartato; ne verrebbe svuotato lÂ’ovulo femminile, che verrebbe
scartato, nel quale al suo posto verrebbe immesso il nucleo di una
cellula maschile, che poi verrebbe fecondato con il seme di un
secondo uomo. Della donna servirebbe solamente la prestazione
tecnica come utero, ma in seguito anche l'utero potrebbe divenire
superfluo. Così per la prima volta nella storia della specie, ci
sarebbero degli uomini di cui non si potrebbe più dire, per definire
la loro identità umana, nati da donna.
Naturalmente, è subito cominciata una discussione etica. Che cosa
c'entra però l'etica? Questa è una cosa che non riguarda il bene o
il male del singolo, ma della specie. Non è una questione che
concerne il costume, ma l'essere stesso dell'uomo nella sua unità di
uomo e donna insieme. Qui arriva il divorzio, non della singola
coppia umana, bensì del genere maschile da quello femminile. E
forse adesso capiamo davvero il monito di Gesù quando diceva: "Non
divida l'uomo quello che Dio ha unito". Forse non era quello un
nuovo precetto ignoto alla legge di Mosè, non era una norma di
salvaguardia per le donne esposte al ripudio; era invece un
messaggio profetico per la salvezza della specie, l'affermazione di
un criterio ontologico di identità della creatura umana. Ed è questo
che viene messo in gioco dai biotecnologi inglesi. Può darsi che lo
faranno soltanto per provarci o per mettere in cantiere anche un
solo esemplare, come la pecora Dolly, prima che i politici, i
bioetici, il Grande Fratello o il Mercato lo proibiscano per diverse
ragioni o interessi. Ma il fatto stesso di volerlo fare, apre non
solamente una questione etica, ma una questione antropologica. Che
cos'è l'uomo? Che cos'è uomo e figlio d'uomo, u ben adam, per
dirla con il salmo 8, dove adam viene da "damah", che vuol dire la
"terra" e indica la creaturalità dell'essere, il genere umano,
maschio e femmina insieme, in contrapposizione a "iš" che è il
maschio, il marito. L'uomo che si cerca di costruire in quei
laboratori non è più l'adam, non è più quella
creatura.
Già , per fare figli, si era fatto a
meno dell'amore; ma senz'amore la donna che cos'è? Allora si può
fare a meno anche della donna. In verità quest'ultima prova tecnica
di onnipotenza è una manipolazione che scompone l'umano e in
sostanza lo distrugge, lo nega. Un'umanità senza donna non
esiste. Perciò bisognerebbe andare con i bastoni a rompere le
provette di quei laboratori, come i luddisti andavano con il bastone
a sfasciare le macchine agli albori della rivoluzione industriale in
Inghilterra, ma questa volta con ben più fondate
ragioni.
Probabilmente non ci riusciranno;
tuttavia vale la pena parlarne, perché il rendere autosufficiente
l'uomo per la riproduzione non è una cosa estemporanea ed
eccentrica, ma è coerente con una lunga storia. È il punto
d'arrivo di un intero corso storico, nel quale l'uomo ha messo la
sua perfezione nel realizzarsi da solo, rompendo la comunione
derivante dal suo vincolo di somiglianza con gli altri esseri. Ha
cominciato col rompere la sua somiglianza con Dio, in virtù della
quale aveva ricevuto il suo potere sulla terra. Rotta questa
somiglianza, il suo potere si è corrotto, è diventato
appropriazione, dominio. Dio è il primo suo simile da cui l'uomo si
è diviso. Ed ora rompe la sua somiglianza con la donna, "con questo
aiuto simile a lui", come la chiama la Bibbia. Rompe il vincolo
finora necessario con la donna, che pure egli aveva ricevuto non
soltanto come sua simile, ma come carne della sua carne e ossa delle
sue ossa.
E tra questi due estremi - tra il
mettere fuori Dio e il mettere fuori la donna - ambedue conosciuti
nel giardino, c'è tutta una storia in cui l'uomo ha rotto l'unitÃ
con i suoi simili, non ha riconosciuto le somiglianze, ha negato
l'uguaglianza e ha costruito società ineguali e divise, signori e
servi, liberi e schiavi, cittadini e stranieri, dominanti e
dominati, amici e nemici. Sicché in quest'ultimo simbolo di
separazione è come se si concludesse tutto il dramma storico delle
somiglianze rifiutate, di tutte le divisioni perpetrate e
consumate.
DI ESCLUSIONE IN
ESCLUSIONE
Del
resto, ben altre separazioni ed estromissioni sono in corso. Se
si può fare a meno della donna, figurarsi se non si può fare a meno
delle piccole isole. Nella Conferenza di Rio sul clima del 1992,
è nata un'alleanza delle piccole isole-stato - Small island states -
che si chiama Aosis. Ne fanno parte le Maldive, le isole Marshall,
le Comore, le Tonga, le Salomone. Sono piccole isole-stato
dell'Oceano Indiano o dell'Oceano Pacifico, vicino all'Australia. E
non sono isole povere, nel senso tradizionale del termine. Anzi,
qualcuna si arricchisce col turismo. Però queste isole saranno le
prime ad essere sommerse, quando il mare si innalzerà di qualche
decina di centimetri a causa del surriscaldamento del mondo
provocato dall'inquinamento, dall'effetto serra, dall'attuale
sistema economico accrescitivo sottratto ad ogni ragione e ad ogni
guida politica. Di fronte a questo pericolo, le isole si sono quindi
unite. Ma è un'alleanza patetica perché non può fare nulla per
garantirsi la sopravvivenza. Nella Conferenza successiva di Kyoto
del 1997, le isole proposero di ridurre almeno le immissioni di Co2,
di anidride carbonica, del 25% entro il 2005. Ma non se ne parla
nemmeno: si dovrebbe cambiare tutto il sistema economico e sociale.
Il mondo può fare a meno delle isole.
E se
si può fare a meno delle piccole isole, figurarsi se non si può fare
a meno dell'Africa. L'Africa è un continente a perdere (tranne i
diamanti, naturalmente). In Africa si sperimentano le medicine per
curare l'Aids, ma non si mandano i farmaci così trovati: ci sono
quasi 24 milioni di sieropositivi. Le vaccinazioni non si possono
fare: basterebbero 10mila lire a bambino, ma non ci sono. Ottomila
bambini al giorno muoiono solo perché non vaccinati. E quando al
vertice economico dei Paesi più ricchi, il G8 nella sua riunione di
Okinawa (Giappone), ci si è accorti che in Africa tra gli altri
flagelli stava tornando anche la malaria, per tutta risposta hanno
deciso di mandare delle zanzariere. Non medicine, ma
zanzariere!
I DANNATI DELLA TERRA
Ma se
si può fare a meno dell'Africa, figurarsi se non si può fare a
meno di una parte intera di umanità . Quella che il sistema
economico sociale esistente non riesce ad includere nei parametri
della sopravvivenza e nemmeno se lo propone. Non starò qui a
ripetere le cifre che descrivono l'economia della globalizzazione,
le percentuali di poveri, affamati, disoccupati, malati, schiavi che
essa tollera e produce. Conoscete bene queste cifre e tutti le
conoscono. Ormai che un miliardo e 200 milioni di persone nel mondo
vivano nella miseria, con meno di un dollaro al giorno, sta scritto
ogni settimana perfino su intere pagine del Corriere della
Sera. Non come notizia, data dal giornale, ma come pubblicitÃ
pagata dal Programma per lo sviluppo dell'Onu.
Lo scandalo non sta in queste cifre. Sta invece nel fatto che
l'attuale sistema economico e sociale non soltanto non riesce a
sanare la povertà , ma nemmeno lo desidera. In ogni caso, lo ritiene
impossibile. L'idea è che il mondo non si può aggiustare. L'attuale
sistema di mercato ha deciso di separare l'economia monetaria
dall'economia reale, la speculazione finanziaria dalla
produzione dei beni e perciò l'economia dalla vita. Ha liberato il
denaro e lo ha esentato dal gravoso compito di servire come mezzo di
scambio, come misura del valore del lavoro e delle merci, e lo ha
destinato al compito di produrre altro denaro. Ne ha fatto perciò un
dio, chiuso in se stesso e fine a se stesso. Nel medesimo tempo
l'economia ha stabilito di non poter sostenere la vita di tutti.
Siamo troppi: 6,8 miliardi. Una parte del mondo perciò è destinata a
salvarsi, e anzi a crescere e ad arricchirsi; l'altra invece,
abbandonata a se stessa, è destinata a perire. Ci sono i salvati e i
sommersi, gli eletti e gli esuberi.
A questa
rottura dell'unità del mondo, operata dal sistema economico, si
accompagna la rottura operata sul piano politico. L'Onu,
che rappresentava l'universalità delle nazioni, è stata
esautorata, messa da parte. All'universalità delle nazioni
corrispondeva l'indivisibilità della sicurezza - e perciò della pace
- che era compito dell'Onu stabilire e
preservare.
Ora la sicurezza è stata divisa.
La Nato, la nuova Alleanza nata nei bagliori della guerra jugoslava,
ha programmato la sua sicurezza per tutto il XXI secolo. Ma è una
sicurezza solo militare. Il vertice atlantico del 23-24 aprile 1999,
a Washington, ha riconosciuto che il mondo corre rischi globali che
sono sociali, economici, ambientali, di migrazioni di popoli, di
dissoluzione di Stati, d'interruzione di approvvigionamenti, di
rivalità etniche, religiose, di violazioni di diritti umani, tutto
denunciato nei documenti ufficiali. Ma, di fronte a questi fattori
di rischio globale, anziché rispondere sugli stessi piani, cercando
perciò soluzioni sul piano politico, economico, religioso,
ambientale, combattendo gli squilibri, le ingiustizie, le
intolleranze, i dogmatismi, la povertà , per costruire un sistema di
sicurezza globale, di sicurezza sociale globale, la risposta è stata
quella di pianificare un'unica sicurezza: quella militare. Ed
è una sicurezza solo per sé, per i Paesi alleati, ricchi, opulenti e
appagati del Nord del mondo. Gli altri, i continenti della fame, i
popoli sotto la croce del Sud, sono abbandonati; gli altri sono la
minaccia da cui difendersi, sono la collera dei poveri da
schiacciare anche con la guerra.
Selettiva
l'economia, divisa la sicurezza è spezzata l'unità del mondo.
Forse, per la prima volta nella storia, la prospettiva
universalistica è consapevolmente abbandonata, l'unità della
famiglia umana è respinta.
UN'APOCALISSE
SECOLARIZZATA
Se la
situazione è questa, il nostro rischio è che invece di fare un
discorso profetico, come qui vorremmo fare, ci ritroviamo a fare
un discorso apocalittico. Il discorso apocalittico denuncia
la catastroficità della situazione e, tuttavia, può non essere privo
di speranza. Ma ad un patto, che è quello di assumere un dualismo
radicale.
Per il pensiero apocalittico ci
sono due mondi, non uno solo. C'è il mondo presente e quello
futuro. Il primo è un mondo che, benché voluto ed amato da Dio, a
causa del cattivo uso che l'uomo ha fatto della sua libertà , a causa
della malvagità umana, è un mondo sostanzialmente non riscattabile.
Come diceva Giovanni Battista, "la scure è già posta alla radice
dell'albero". Benché uscito dalle mani di Dio, questo è un mondo
malriuscito. E dunque l'unica cosa che si possa sperare, l'unico
modo in cui possa avverarsi la promessa di Dio, è la venuta di un
secondo mondo, del mondo futuro, dove finalmente si realizzerà la
pace, la giustizia, la libertà , la bellezza.
Ricordo un articolo del biblista Giuseppe Barbaglio, in cui diceva
come in Gesù di Nazareth non ci fosse affatto questo atteggiamento
apocalittico, perché il mondo lo amava da morire. Ma ai tempi di
Gesù c'erano fortissime dottrine apocalittiche. Dice, ad esempio
l'apocrifo Quarto di Esdra, che "l'Altissimo ha creato non un mondo
ma due. Il primo mondo si è gravemente corrotto, così da essere
destinato alla combustione. Alla fine lo sostituirà il secondo
mondo, creato da Dio all'inizio, e da allora pronto lassù nei cieli
a scendere quaggiù e a prendere il posto del primo dopo la sua
sparizione". Ma c’è poco da rallegrarsi, almeno per la maggioranza
degli uomini. Perché, secondo lo scrittore apocalittico, con la
distruzione di questo mondo perirà anche la stragrande maggioranza
degli uomini che non hanno seguito le vie del Signore, mentre solo
una sparuta minoranza di fedeli della legge divina entrerà nel
secondo mondo. Infatti, dice lÂ’apocrifo di Esdra, "lÂ’Altissimo ha
creato questo mondo per una moltitudine, mentre quello futuro per un
piccolo numero". E anzi, secondo l'apocrifo di Esdra, è Dio stesso
che ne dà l'annuncio. Dice: "Guardai il mio mondo e lo vidi perduto.
Lo vidi e pur tuttavia l'ho grandemente risparmiato, e mi sono
riservato un acino su un grappolo: un piccolo germoglio su una
grande quantità . Perisca dunque la moltitudine che è nata per il
nulla ma che sia salvo il mio acino, il mio germoglio che ho
prodotto con tanta fatica".
Dunque il pensiero
apocalittico non è solo il pensiero della distruzione, ma della
distruzione, a cui segue la salvezza almeno di un piccolo resto in
un mondo futuro. Perciò il pensiero apocalittico conclude
nell'escatologia.
Ho citato questo testo, che
può sembrare così antico e così poco attuale, perché oggi siamo in
una situazione apocalittica, perché siamo in una situazione di
distruzione. Ma, conformemente allo spirito dei tempi, è
un'apocalisse secolarizzata, un'apocalisse senza
escatologia.
È secolarizzata e
senza escatologia, perché la distruzione ce la facciamo noi,
e perché anche la scrematura, la selezione dei fedeli abilitati a
passare da un mondo all'altro, ce la facciamo da noi, e la stiamo
facendo già ora. È questo stesso mondo presente, che giudica che c'è
"una moltitudine nata per nulla", che poteva anche non essere nata,
che tanto non serve, è un esubero. E, quindi, questa moltitudine può
essere lasciata perire. C'è poi invece un piccolo numero, un acino
su un grappolo, che deve fare il suo ingresso trionfale nel nuovo
mondo del denaro, della tecnica e del mercato totalmente
realizzati.
IL CORAGGIO DELLA
PROFEZIA
Di
fronte a ciò, cosa possiamo fare noi per resistere, per
reagire? La prima risposta è il discorso escatologico: cioè
contrapporre all'apocalisse secolarizzata la promessa
escatologica. Ma attenzione: l'escatologia non è solo l'attesa
della salvezza per il tempo futuro. È la promessa e l'attesa di una
salvezza, che comincia a realizzarsi già ora. È una fede che non
considera questo mondo perduto e che non lo "licenzia
prematuramente", come diceva Bonhoeffer. Gli ideali messianici non
sono metastorici: l'ideale messianico, qual è trasmesso da tutta la
tradizione biblica, è che si stabilisca il diritto e la giustizia
sulla terra; che la pace si realizzi sulla terra: "pacem in terris".
Ora l'annuncio che ciò avverrà , è la profezia. E operare perché
questo avvenga, e al più presto, è il coraggio della profezia. La
profezia non liquida le speranze terrene. Come l'apocalisse, si fa
carico delle speranze messianiche.
Tuttavia è
caratteristica delle speranze messianiche che esse non si realizzino
progressivamente, linearmente, nel continuum della storia. Ci
sono dei salti, delle discontinuità . Non solo dei balzi innanzi, ma
anche dei balzi indietro; dei vertiginosi ritorni sul precipizio.
Per questo ogni tanto sentiamo i gemiti della fine, e il pensiero
sembra fermarsi. Ma non dobbiamo disperare perché, come dice Walter
Benjamin nelle sue tesi di filosofia della storia, in ciò si può
riconoscere "il segno di un arresto messianico" o - detto
altrimenti - di una chance rivoluzionaria. Anzi, non vi è un
solo attimo che non rechi con sé la propria chance
rivoluzionaria, intesa "come chance di una soluzione del tutto
nuova, prescritta da un compito del tutto
nuovo".
La storia è capace di sorprese.
Nel presente, dice Benjamin, sono disseminate ed incluse schegge del
tempo messianico. Il tempo non è un tempo omogeneo e vuoto. Neanche
il futuro divenne per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto, quando fu
loro vietata la divinazione del futuro, "poiché in esso ogni secondo
era la piccola porta, attraverso la quale poteva entrare il
messia".
Tutto questo per dire che vi sono
nel tempo, nella storia, delle irruzioni messianiche. Il tempo
non è lineare e continuo. C'è il kronos, il tempo
cronologico, con i suoi singulti; e c'è il kairós, che
irrompe in esso; il kairós che è il tempo accettabile,
favorevole, è l'occasione, ma in quanto sia colta. Per questo motivo
il kairós è rappresentato, nell'iconografia, come un
fanciullo con le ali ai piedi che passa e deve essere afferrato. C'è
n'è una raffigurazione di Donatello al museo del Bargello a Firenze.
Il fanciullo che vola, deve essere colto al passaggio, anzi prima
che passi, perché non si può prendere alle spalle: bisogna
afferrarlo per il ciuffo che vola in avanti, mentre
corre.
Ma non è possibile prendere il
kairós dal ciuffo, se non si è vigilanti, se non si usa il
pensiero critico, se non si è in attesa, se non si è disponibili. E
allora questo è il punto, al quale volevo arrivare: tra l'apocalisse
e l'escatologia c'è uno spazio, c'è un territorio da abitare, da
percorrere, ed è la kairologia. E il coraggio della profezia
sta in questo: nell'annunciare e nel cogliere il kairós al
suo passaggio. Del resto questa è stata l'operazione di papa
Giovanni, un papa radicalmente non apocalittico. E questo gli ha
permesso di dissentire dai profeti di sventura, e di leggere invece
i segni dei tempi, come segni che annunciavano un nuovo ordine di
rapporti umani. Un nuovo mondo, che si stava preparando per
grazia di Dio e per opera dell'uomo.
Anche per noi lo spazio che si apre, è quello
kairologico. Mai come oggi sono poste davanti a noi, come due
strade, la morte e la vita. Che cosa potrebbe voler dire applicare
questa prospettiva al nostro coraggio e alle nostre speranze? Quale
kairós o quali kairói dovremmo saper cogliere?
Possiamo provare ad abbozzare qualche esempio.
IL
KAIRÓS DEL CONCILIO
Non
c'è dubbio che la chiesa ha vissuto, nella nostra generazione, un kairós straordinario: il Concilio. La chiesa l'ha visto, l'ha
afferrato, forse più nel popolo di Dio che nei vertici
ecclesiastici, l'ha messo nella sua vita, anche attraverso prove
dolorosissime per molte persone. Basta leggere la storia, questa
bellissima storia del Vaticano II (quattro volumi finora già usciti)
diretta dal prof. Alberigo di Bologna, per misurare la portata del
cambiamento che si è verificato attraverso il Concilio nel secolo
appena trascorso. Il mistero della chiesa, il ritorno della
parola di Dio, il primato della coscienza, la libertà religiosa, il
dialogo, l'ecumenismo, la riconciliazione con gli ebrei,
l'universalità della salvezza, la comunione col mondo: tutto
questo è stato ritrovato, riproposto o è cresciuto con il
Concilio.
Ma ora è come se la chiesa,
ripiegandosi su se stessa, volesse far volare via il fanciullo con
le ali. Sta rischiando infatti di perdere il kairós. E
addirittura, nel corso dell'estate, c'è stata come una
concentrazione di gesti, tutti rivolti al passato, come a voler
tornare indietro nella terra non ancora liberata. C'è stato un
incalzare di questi eventi: il ripristino di un'immagine di potenza
nei raduni di massa, Pio IX, il tentativo di privatizzazione del
carisma di papa Giovanni, il disconoscimento delle Chiese sorelle,
la zizzania seminata nel rapporto tra le religioni, fino al vescovo
che chiede al potere politico di tenere fuori i musulmani. A questo
punto, credo che la prima cosa da fare, sia di tenere ben stretto
per i capelli il kairós della chiesa: cioè continuare la
profezia pubblica di papa Giovanni, far dilagare l'irruzione
messianica del Concilio.
IL
KAIRÓS DELL'UNITÀ DEL MONDO
Il secondo kairós è quello dell'unità del mondo. Se oggi
questa unità è così violentemente attaccata, è proprio perché questo
kairós è apparso. È apparso nell'ordinamento internazionale,
nell'universalità raggiunta dall'Onu. È apparso nel diritto
attraverso l'universalizzazione dei diritti umani. È apparso nella
comunicazione dei linguaggi, dei costumi, delle figure. È apparso
nella chiesa, quando si è proclamata come sacramento o segno e
strumento dell'unità del genere umano. Ed è apparso nella stessa
globalizzazione, che appunto è una globalizzazione senza
universalità , che rompe l'unità , però se ne serve, la proclama e
proprio in ciò ha la sua insanabile
contraddizione.
Servire il kairós
dell'unità , vuol dire fare esplodere questa contraddizione. Se la
radice della crisi presente sta nell'abbandono della prospettiva
universalistica, sta nel pensiero della divisione e della selezione,
sta nell'idea che il mondo non è fatto e non basta per tutti e che
perciò solo una parte dell'umanità possa salvarsi, allora è
questo "pensiero corto" che va rovesciato, ristabilendo la coscienza
e il principio dell'unità della famiglia umana. E oggi operare
per l'unità o per la divisione degli uomini non è solo
un'alternativa etica. È un'alternativa antropologica fondamentale.
Tutto quello che è fatto per l'unità , va nel senso della
conservazione della vita sulla terra e della salvaguardia del
creato. Tutto quello che è fatto per la divisione, da chiunque venga
fatto, va nel senso della distruzione della vita e della rottura
dell'opera della creazione.
E ciò vale anche
per la chiesa. Allora deve essere chiaro che l'ecumenismo, il
dialogo, la comunione con gli ebrei, il rapporto con le altre
religioni non sono solo atti religiosi, funzionali alla
diffusione del messaggio evangelico, propedeutici all'affermazione
della vera religione, allo stabilimento dell'unica chiesa, ma
sono atti profetici, civili ed umani direttamente cooperanti
alla costruzione dell'unità del mondo, rispondenti all'urgenza della
salvezza del mondo. E da questo non si può tornare indietro, perché
la situazione non lo consente. Non sarà mai abbastanza il
riconoscersi come fratelli: "Sono Giuseppe, vostro fratello", disse
Giovanni XXIII, citando il Genesi, nel discorso dell'incoronazione.
Né sarà mai abbastanza dichiarare le nostre comunità umane ed
ecclesiali come sorelle. Al contrario ogni gesto di separazione, di
rivalità , ogni rivendicazione orgogliosa della propria identità , la
preoccupazione di non contaminarsi, saranno - al di là di ogni
intenzione - fattori di divisione, omogenei allo spirito del mondo,
destinati ad essere recuperati e catturati dall'ideologia della
sicurezza, della selezione, della rappresentazione di un mondo fatto
di necessari ed esuberi, di presi e lasciati. Mentre cogliere il
kairós sta in ogni gesto di universalità vera.
IL
KAIRÓS DELLA PACE
E
c'è un altro kairós che bisogna cogliere: il kairós
della pace. Esso è apparso sul nostro orizzonte quando la guerra,
per la prima volta nella storia, è stata ripudiata, messa fuori dal
diritto e dalla ragione, dichiarata un flagello. Un'occasione che si
doveva cogliere. La guerra è stata poi ripristinata. Ma, trovandosi
ormai fuori del diritto, fuori della ragione, essa ha dovuto trovare
una nuova legittimazione e una nuova ragione. E l'ha cercata
nell'idea della guerra umanitaria, la cui ragione starebbe non nella
difesa dei propri interessi, ma di quelli altrui. Però la cosa non
ha funzionato: la guerra umanitaria si è rilevata la più disumana
di tutte le guerre.
Prima di tutto
perché, essendo essa stessa umanitaria, si è ritenuta esente dal
rispettare il diritto umanitario di guerra volto a raffrenare la sua
innegabile disumanità . E così, nella guerra jugoslava, tutti i
protocolli di Ginevra sono stati violati.
In
secondo luogo, si è rivelata la verità della tesi espressa, giÃ
molti anni fa, da uno dei massimi teorici del diritto pubblico Carl
Schmitt, quando diceva che combattere in nome dell'umanitÃ
comporta il massimo della violenza, perché significa mettere
l'avversario fuori dall'umanità , ridurlo a non uomo. Scriveva
Schmitt: "L'umanità , in quanto tale, non può condurre nessuna
guerra, perché essa non ha nemici... Il concetto di umanità esclude
quello di nemico, perché anche il nemico non cessa di essere
uomo.... Proclamare il concetto di umanità , richiamarsi all'umanità ,
monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto
la terribile pretesa che al nemico deve essere tolta la qualità di
uomo, che esso deve essere dichiarato hors-la-loi (fuori
dalla legge) e hors-l’humanité (fuori dell'umanità ), e quindi
che la guerra deve essere portata fino all'estrema
inumanità ".
In terzo luogo, la guerra
umanitaria si è manifestata la meno ragionevole di tutte, perché
tutte le guerre hanno sempre aspirato a finire il più presto
possibile e invece, in quanto umanitaria, questa guerra non sente
alcuna urgenza di concludersi; infatti continua ad imperversare
contro i nemici anche molto tempo dopo la sua fine, come vendetta e
come embargo.
Quindi, la guerra non ha
superato la prova di questa sua nuova legittimazione. Di
conseguenza, il kairós della pace è ancora lì da
cogliere.
IL
KAIRÓS DELLA POVERTÀ
Poi c'è il kairós della povertà . Proprio perché la povertà ha
raggiunto quelle dimensioni endemiche che conosciamo, e proprio
perché ha raggiunto quel grado di radicalità , per cui non è più
naturale che i poveri vivano, ma essi possono vivere solo se c'è una
decisione, una volontà politica di farli vivere, proprio per questo
la povertà è un kairós che ci chiede una conversione
profonda. Esso ci chiede non solo di riconoscere i poveri, di
accoglierli, di sceglierli, di guardare il mondo dal loro punto di
vista, come dice la teologia della liberazione latinoamericana, ma
ci chiede di riconoscere la nostra stessa povertà . Questo
kairós ci costringe ormai a porre la questione della
povertà non soltanto come questione economico-sociale, ma
antropologica, attinente cioè alla stessa condizione umana e
alla comprensione che l'uomo ha di se stesso.
Come questione economico-sociale, la povertà è semplicemente uno
scandalo da rimuovere. Nella dimensione che essa ha raggiunto
oggi su tutta la terra, non si può intendere come una buona notizia
il detto evangelico: "Beati i poveri", né la constatazione di Gesù
che "i poveri li avrete sempre con voi". Né per salvare questa
parola evangelica e continuare a proporre la povertà come un ideale
da raggiungere, come uno stato di perfezione, si può ricorrere ad un
metodo quantitativo, per cui sarebbe buona la povertà entro un certo
limite, ad esempio fino al limite che permette la sussistenza, e
cattiva invece la povertà che sprofonda in miseria, che non permette
né la felicità , né la vita. La misura, entro e non oltre la quale si
può parlare di "una povertà contenta e benedetta", come diceva papa
Giovanni, non può essere una misura quantitativa, che in ogni caso
sarebbe di difficile definizione, come è difficile definire in
termini oggettivi il confine tra necessario e
superfluo.
Il discorso sulla povertà del
Vangelo non è un discorso moralistico, ma rivelativo. Non ci dice
che, se vogliamo entrare nel Regno dei cieli, dobbiamo essere poveri
nel senso di parsimoniosi, mentre tutto il resto rimane immutato;
anche i poveri si perdono, compresi quelli che hanno fatto voto di
povertà . Quella parola evangelica ci dice invece che siamo
poveri, e che solo se riconosciamo questa povertà , solo se
assumiamo fino in fondo questa condizione, nostra ed altrui, come
poveri entreremo nel Regno dei cieli. La povertà ci è proposta cioè
non come una misura limitata, manifesta ed accertabile dell'avere,
ma come un mistero dell'essere.
Che Dio
si sia fatto povero fino a prendere la forma del servo e ad obbedire
fino alla morte, fa parte del mistero di Dio e non dell'etica di
Dio. Che l'uomo sia povero fino ad essere servo, a morire e ad
essere ucciso, fa parte del mistero dell'uomo.
La povertà è un mistero antropologico fondamentale. "Misteri" sono
le verità nelle quali è nascosta la nostra salvezza: il mistero
della Croce, il mistero della Risurrezione. Oggi ci viene chiesto di
comprendere questo mistero. Perché quando la povertà che noi
comprendiamo - la povertà che prende alla gola persone e popoli
interi - abbraccia ormai i quattro quinti dell'umanità , mentre
l'altro quinto è minacciato dalla sua stessa ricchezza, se non
capiamo il mistero della povertà , al di là degli indicatori
economico-sociali, siamo perduti. In questo senso, il mistero
della povertà è un mistero di salvezza non solo spirituale, ma anche
fisica e storica del mondo.
Il
mistero della povertà noi non lo comprendiamo perché l'uomo,
soprattutto quello occidentale, si è costruito come signore,
destinato a tutto conoscere e a tutto potere, chiamato ad uscire
dalla necessità , a liberarsi dal limite e dal finito, pronto al
salto nell'assoluto.
Pertanto sin
dall'antichità classica egli ha posto il suo ideale
nell'autosufficienza perfetta, nel non dover dipendere dagli altri,
neanche mediante il lavoro, inteso come pena; e, perciò, ha posto il
suo ideale nella ricchezza. Il filosofo Marco Aurelio, esprimendo
l'ideale stoico, disprezza il povero, perché "non avendo di per se
stesso i mezzi necessari per vivere, ha bisogno dell'aiuto degli
altri". E questa era considerata una cosa spregevole. Ma se questo è
l'ideale, e se è chiaro che non tutti possono essere ricchi, allora quell'idea di perfezione fonda un'antropologia della
disuguaglianza, alla quale corrisponde una società diseguale e
non propizia per i poveri, gli schiavi, gli stranieri, le donne e i
bambini. Non solo: quest'ideale di perfezione, l'uomo lo ha
trasferito poi alle sue istituzioni, alle sue società ; ne ha voluto
fare società perfette ed istituzioni totali. E, come massimo della
perfezione, ha inventato la sovranità - che è il potere di colui che
non ha sopra di sé alcun altro potere - e con essa la sua ancella,
la guerra.
Ora è evidente che quest'idea della
perfezione esclude la povertà . I poveri ne sono fuori. La
rivelazione del mistero della povertà rovescia per contro quest'idea
della perfezione, dalla quale la maggior parte degli uomini sono
destinati ad essere esclusi. Essa dà ragione della povertà come
appartenente alla condizione umana comune, come un connotato
fondamentale della stessa definizione dell'uomo. Dunque, non è una
disgrazia in cui si cade o una condizione di passaggio nella marcia
verso l'arricchimento, ma una condizione universale e permanente che
accomuna tutti gli uomini e le donne, e che ne integra l'identità .
Questa povertà , costitutiva dell'uomo, non è meramente spirituale.
Implica una debolezza e un'indigenza reale. Significa essenzialmente
che nessuno è sufficiente a se stesso e tutti hanno bisogno gli uni
degli altri; comporta il limite e la morte, che non sono la
conseguenza del peccato, ma sono la condizione naturale dell'uomo.
La povertà è l'essere creatura dell'uomo. Ed è proprio in
quanto povero, in quanto creatura, che l'uomo poi "buca" il finito
ed è chiamato a divinizzarsi. È il paradosso ontologico dell'uomo,
fatto di polvere e destinato a partecipare alla vita divina. Essere
fatto di nulla, e confinare con Dio.
Anche le
società umane non sono sovrane e perfette, ma sono interdipendenti e
indigenti. "Non esistono città , repubbliche e regni - diceva Suarez
- che non siano indigenti - quin indigeant - che non abbiano
bisogno di mutuo aiuto, di società e di comunicazione", cioè che si
possano mettere fuori o sopra, come despoti, alla comunitÃ
internazionale.
In questo senso, spiegava
padre Turoldo, "i poveri sono la profezia che attraversa tutta la
storia". E oggi ci interpellano, chiedendo ragione non soltanto di
sé, ma di tutti, ci chiedono di rendere ragione della comune
umanità . Se i poveri sono gli eredi del Regno, occorre che i poveri
non siano una categoria predefinita di uomini, ma piuttosto un modo
di essere, di riconoscersi uomini e donne. Altrimenti non sarebbe
vero che Dio è di tutti e non fa distinzioni di persone. La
povertà è l'essere uomo dell'uomo.
IL
KAIRÓS DELL'AMORE
Il kairós della povertà ci introduce all'ultimo
kairós, quello dell'amore. Se infatti la povertà è
riconoscersi nel limite, nell'indigenza e quindi nell'avere bisogno
gli uni degli altri, allora entra in gioco l'amore, allora lÂ’amore
non è un surplus desiderabile, il profumo della vita, ma è un
coefficiente necessario alla salvezza e una condizione di esistenza
della stessa comunità politica. Perché l'amore è appunto questo
bisogno dell'altro ed è l'aderire, l'abbandonarsi e il rispondere a
tale bisogno. In questo senso, la povertà diviene un ideale di
perfezione: nel senso in cui ne ha parlato il rabbino tedesco
Jacob Taubes, a commento della lettera ai Romani. Come mai - si è
domandato Taubes - San Paolo dice che la cosa più perfetta è
l'amore? L'amore implica una mancanza, un bisogno, un'insufficienza
che chiede di essere colmata; l'amore vuol dire che il centro di me
stesso è nell'altro, che ho bisogno e sono indigente dell'altro.
Quindi in questÂ’insufficienza sembrerebbe manifestarsi il contrario
della perfezione. Invece la perfezione è proprio questa. San Paolo,
nella seconda ai Corinti, fa dire a Dio stesso: "La mia potenza si
manifesta pienamente nella debolezza". Conclude Taubes: "Ciò
significa che l'indigenza risiede nella stessa
perfezione".
Dunque in questo senso il
kairós della povertà irrompe tra noi. La povertà nel senso
evangelico non è l'umanità derelitta che muore di fame. Non è
nemmeno l'ideale ascetico di spogliarsi di tutto. È piuttosto il
riconoscersi ed amarsi nel proprio limite; e, in forza di questo
limite, sapersi indigenti, bisognosi di Dio e degli altri; e perciò
doversi fidare di Dio e degli altri; doversi "affidare" agli
altri. Questo affidamento, se è privato, è la carità . Se è
pubblico, è la politica.
RANIERO LA
VALLE
©MISSIONE OGGI
RANIERO
LA VALLE.
Dopo la laurea in Giurisprudenza, si dedicò giovanissimo al
giornalismo. Chiamato nel 1961 a dirigere L'Avvenire
d'Italia, ne fece, durante gli anni del Concilio, il più
prestigioso organo di informazione del grande evento ecclesiale, le
cui cronache raccolse in tre volumi molto diffusi. Le sue dimissioni
da L'Avvenire d'Italia, nel 1967, coincisero con la
"normalizzazione" della chiesa di Bologna. Continuò la sua attivitÃ
giornalistica, tra l'altro producendo per la Rai documentari
televisivi e inchieste condotte negli Usa, in America latina, Europa
e Asia.
Nel 1976 diventa parlamentare della
Sinistra indipendente, lavora nelle Commissioni Esteri e Difesa
delle due Camere fino al 1992. Nel 1997 fonda con alcuni amici la
rivista Bozze, un vivace strumento del dibattito ecclesiale e
civile. Si ricordano alcune sue campagna a favore dei popoli
oppressi, delle quali sono documenti appassionati opere come
Dalla parte di Abele (1971), Fuori dal campo (1978),
Dossier Vietnam-Cambogia (1981), Marianella e i suoi
fratelli (insieme a Linda Bimbi, 1983), Pacem in Terris,
l'enciclica della liberazione (1987).
Continua in questi anni l'impegno di riflessione e di proposta per
la pace, con la partecipazione ad incontri e la collaborazione a
riviste. Dallo scorso anno coordina Vasti, una scuola di
ricerca e critica delle antropologie, che Missione Oggi si
propone di continuare a seguire.
Approfondimenti
- Dio non era nel maremoto, di Raniero La Valle
(fonte liberazione)
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