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Raniero La Valle: PROSPETTIVE PER UN PROGETTO DIVERSO DI UOMO E DI SOCIETA'

tratto da MISSIONE OGGI

PROSPETTIVE PER UN PROGETTO DIVERSO

DI UOMO E DI SOCIETA'

Quale idea di uomo si sta affermando nella nostra società?

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Quale idea di uomo si sta affermando nella nostra società?
PROSPETTIVE PER UN PROGETTO DIVERSO DI UOMO E DI SOCIETA'

di Raniero La Valle

Volete sapere quale idea di uomo si sta affacciando nella nostra storia, nelle nostre città dove - come ci è stato appena detto - ci sono meno sorrisi e più reddito? Ebbene, vorrei partire da un punto forse imprevisto, da una notizia del Corriere della Sera di martedì scorso, 26 settembre, secondo cui un professore dell'Università di Edimburgo, Kalum MacKellar, noto bioetico del Regno Unito, dice che nei cantieri biologici inglesi stanno cercando un sistema - e secondo lui ci riusciranno - per far nascere l'uomo senza bisogno delle donne. Il patrimonio genetico femminile verrebbe scartato; ne verrebbe svuotato l’ovulo femminile, che verrebbe scartato, nel quale al suo posto verrebbe immesso il nucleo di una cellula maschile, che poi verrebbe fecondato con il seme di un secondo uomo. Della donna servirebbe solamente la prestazione tecnica come utero, ma in seguito anche l'utero potrebbe divenire superfluo. Così per la prima volta nella storia della specie, ci sarebbero degli uomini di cui non si potrebbe più dire, per definire la loro identità umana, nati da donna.

Naturalmente, è subito cominciata una discussione etica. Che cosa c'entra però l'etica? Questa è una cosa che non riguarda il bene o il male del singolo, ma della specie. Non è una questione che concerne il costume, ma l'essere stesso dell'uomo nella sua unità di uomo e donna insieme. Qui arriva il divorzio, non della singola coppia umana, bensì del genere maschile da quello femminile. E forse adesso capiamo davvero il monito di Gesù quando diceva: "Non divida l'uomo quello che Dio ha unito". Forse non era quello un nuovo precetto ignoto alla legge di Mosè, non era una norma di salvaguardia per le donne esposte al ripudio; era invece un messaggio profetico per la salvezza della specie, l'affermazione di un criterio ontologico di identità della creatura umana. Ed è questo che viene messo in gioco dai biotecnologi inglesi. Può darsi che lo faranno soltanto per provarci o per mettere in cantiere anche un solo esemplare, come la pecora Dolly, prima che i politici, i bioetici, il Grande Fratello o il Mercato lo proibiscano per diverse ragioni o interessi. Ma il fatto stesso di volerlo fare, apre non solamente una questione etica, ma una questione antropologica. Che cos'è l'uomo? Che cos'è uomo e figlio d'uomo, u ben adam, per dirla con il salmo 8, dove adam viene da "damah", che vuol dire la "terra" e indica la creaturalità dell'essere, il genere umano, maschio e femmina insieme, in contrapposizione a "iš" che è il maschio, il marito. L'uomo che si cerca di costruire in quei laboratori non è più l'adam, non è più quella creatura.

Già, per fare figli, si era fatto a meno dell'amore; ma senz'amore la donna che cos'è? Allora si può fare a meno anche della donna. In verità quest'ultima prova tecnica di onnipotenza è una manipolazione che scompone l'umano e in sostanza lo distrugge, lo nega. Un'umanità senza donna non esiste. Perciò bisognerebbe andare con i bastoni a rompere le provette di quei laboratori, come i luddisti andavano con il bastone a sfasciare le macchine agli albori della rivoluzione industriale in Inghilterra, ma questa volta con ben più fondate ragioni.

Probabilmente non ci riusciranno; tuttavia vale la pena parlarne, perché il rendere autosufficiente l'uomo per la riproduzione non è una cosa estemporanea ed eccentrica, ma è coerente con una lunga storia. È il punto d'arrivo di un intero corso storico, nel quale l'uomo ha messo la sua perfezione nel realizzarsi da solo, rompendo la comunione derivante dal suo vincolo di somiglianza con gli altri esseri. Ha cominciato col rompere la sua somiglianza con Dio, in virtù della quale aveva ricevuto il suo potere sulla terra. Rotta questa somiglianza, il suo potere si è corrotto, è diventato appropriazione, dominio. Dio è il primo suo simile da cui l'uomo si è diviso. Ed ora rompe la sua somiglianza con la donna, "con questo aiuto simile a lui", come la chiama la Bibbia. Rompe il vincolo finora necessario con la donna, che pure egli aveva ricevuto non soltanto come sua simile, ma come carne della sua carne e ossa delle sue ossa.

E tra questi due estremi - tra il mettere fuori Dio e il mettere fuori la donna - ambedue conosciuti nel giardino, c'è tutta una storia in cui l'uomo ha rotto l'unità con i suoi simili, non ha riconosciuto le somiglianze, ha negato l'uguaglianza e ha costruito società ineguali e divise, signori e servi, liberi e schiavi, cittadini e stranieri, dominanti e dominati, amici e nemici. Sicché in quest'ultimo simbolo di separazione è come se si concludesse tutto il dramma storico delle somiglianze rifiutate, di tutte le divisioni perpetrate e consumate.

DI ESCLUSIONE IN ESCLUSIONE

Del resto, ben altre separazioni ed estromissioni sono in corso. Se si può fare a meno della donna, figurarsi se non si può fare a meno delle piccole isole. Nella Conferenza di Rio sul clima del 1992, è nata un'alleanza delle piccole isole-stato - Small island states - che si chiama Aosis. Ne fanno parte le Maldive, le isole Marshall, le Comore, le Tonga, le Salomone. Sono piccole isole-stato dell'Oceano Indiano o dell'Oceano Pacifico, vicino all'Australia. E non sono isole povere, nel senso tradizionale del termine. Anzi, qualcuna si arricchisce col turismo. Però queste isole saranno le prime ad essere sommerse, quando il mare si innalzerà di qualche decina di centimetri a causa del surriscaldamento del mondo provocato dall'inquinamento, dall'effetto serra, dall'attuale sistema economico accrescitivo sottratto ad ogni ragione e ad ogni guida politica. Di fronte a questo pericolo, le isole si sono quindi unite. Ma è un'alleanza patetica perché non può fare nulla per garantirsi la sopravvivenza. Nella Conferenza successiva di Kyoto del 1997, le isole proposero di ridurre almeno le immissioni di Co2, di anidride carbonica, del 25% entro il 2005. Ma non se ne parla nemmeno: si dovrebbe cambiare tutto il sistema economico e sociale. Il mondo può fare a meno delle isole.

E se si può fare a meno delle piccole isole, figurarsi se non si può fare a meno dell'Africa. L'Africa è un continente a perdere (tranne i diamanti, naturalmente). In Africa si sperimentano le medicine per curare l'Aids, ma non si mandano i farmaci così trovati: ci sono quasi 24 milioni di sieropositivi. Le vaccinazioni non si possono fare: basterebbero 10mila lire a bambino, ma non ci sono. Ottomila bambini al giorno muoiono solo perché non vaccinati. E quando al vertice economico dei Paesi più ricchi, il G8 nella sua riunione di Okinawa (Giappone), ci si è accorti che in Africa tra gli altri flagelli stava tornando anche la malaria, per tutta risposta hanno deciso di mandare delle zanzariere. Non medicine, ma zanzariere!

I DANNATI DELLA TERRA

Ma se si può fare a meno dell'Africa, figurarsi se non si può fare a meno di una parte intera di umanità. Quella che il sistema economico sociale esistente non riesce ad includere nei parametri della sopravvivenza e nemmeno se lo propone. Non starò qui a ripetere le cifre che descrivono l'economia della globalizzazione, le percentuali di poveri, affamati, disoccupati, malati, schiavi che essa tollera e produce. Conoscete bene queste cifre e tutti le conoscono. Ormai che un miliardo e 200 milioni di persone nel mondo vivano nella miseria, con meno di un dollaro al giorno, sta scritto ogni settimana perfino su intere pagine del Corriere della Sera. Non come notizia, data dal giornale, ma come pubblicità pagata dal Programma per lo sviluppo dell'Onu.

Lo scandalo non sta in queste cifre. Sta invece nel fatto che l'attuale sistema economico e sociale non soltanto non riesce a sanare la povertà, ma nemmeno lo desidera. In ogni caso, lo ritiene impossibile. L'idea è che il mondo non si può aggiustare. L'attuale sistema di mercato ha deciso di separare l'economia monetaria dall'economia reale, la speculazione finanziaria dalla produzione dei beni e perciò l'economia dalla vita. Ha liberato il denaro e lo ha esentato dal gravoso compito di servire come mezzo di scambio, come misura del valore del lavoro e delle merci, e lo ha destinato al compito di produrre altro denaro. Ne ha fatto perciò un dio, chiuso in se stesso e fine a se stesso. Nel medesimo tempo l'economia ha stabilito di non poter sostenere la vita di tutti. Siamo troppi: 6,8 miliardi. Una parte del mondo perciò è destinata a salvarsi, e anzi a crescere e ad arricchirsi; l'altra invece, abbandonata a se stessa, è destinata a perire. Ci sono i salvati e i sommersi, gli eletti e gli esuberi.

A questa rottura dell'unità del mondo, operata dal sistema economico, si accompagna la rottura operata sul piano politico. L'Onu, che rappresentava l'universalità delle nazioni, è stata esautorata, messa da parte. All'universalità delle nazioni corrispondeva l'indivisibilità della sicurezza - e perciò della pace - che era compito dell'Onu stabilire e preservare.

Ora la sicurezza è stata divisa. La Nato, la nuova Alleanza nata nei bagliori della guerra jugoslava, ha programmato la sua sicurezza per tutto il XXI secolo. Ma è una sicurezza solo militare. Il vertice atlantico del 23-24 aprile 1999, a Washington, ha riconosciuto che il mondo corre rischi globali che sono sociali, economici, ambientali, di migrazioni di popoli, di dissoluzione di Stati, d'interruzione di approvvigionamenti, di rivalità etniche, religiose, di violazioni di diritti umani, tutto denunciato nei documenti ufficiali. Ma, di fronte a questi fattori di rischio globale, anziché rispondere sugli stessi piani, cercando perciò soluzioni sul piano politico, economico, religioso, ambientale, combattendo gli squilibri, le ingiustizie, le intolleranze, i dogmatismi, la povertà, per costruire un sistema di sicurezza globale, di sicurezza sociale globale, la risposta è stata quella di pianificare un'unica sicurezza: quella militare. Ed è una sicurezza solo per sé, per i Paesi alleati, ricchi, opulenti e appagati del Nord del mondo. Gli altri, i continenti della fame, i popoli sotto la croce del Sud, sono abbandonati; gli altri sono la minaccia da cui difendersi, sono la collera dei poveri da schiacciare anche con la guerra.

Selettiva l'economia, divisa la sicurezza è spezzata l'unità del mondo. Forse, per la prima volta nella storia, la prospettiva universalistica è consapevolmente abbandonata, l'unità della famiglia umana è respinta.

UN'APOCALISSE SECOLARIZZATA

Se la situazione è questa, il nostro rischio è che invece di fare un discorso profetico, come qui vorremmo fare, ci ritroviamo a fare un discorso apocalittico. Il discorso apocalittico denuncia la catastroficità della situazione e, tuttavia, può non essere privo di speranza. Ma ad un patto, che è quello di assumere un dualismo radicale.

Per il pensiero apocalittico ci sono due mondi, non uno solo. C'è il mondo presente e quello futuro. Il primo è un mondo che, benché voluto ed amato da Dio, a causa del cattivo uso che l'uomo ha fatto della sua libertà, a causa della malvagità umana, è un mondo sostanzialmente non riscattabile. Come diceva Giovanni Battista, "la scure è già posta alla radice dell'albero". Benché uscito dalle mani di Dio, questo è un mondo malriuscito. E dunque l'unica cosa che si possa sperare, l'unico modo in cui possa avverarsi la promessa di Dio, è la venuta di un secondo mondo, del mondo futuro, dove finalmente si realizzerà la pace, la giustizia, la libertà, la bellezza.

Ricordo un articolo del biblista Giuseppe Barbaglio, in cui diceva come in Gesù di Nazareth non ci fosse affatto questo atteggiamento apocalittico, perché il mondo lo amava da morire. Ma ai tempi di Gesù c'erano fortissime dottrine apocalittiche. Dice, ad esempio l'apocrifo Quarto di Esdra, che "l'Altissimo ha creato non un mondo ma due. Il primo mondo si è gravemente corrotto, così da essere destinato alla combustione. Alla fine lo sostituirà il secondo mondo, creato da Dio all'inizio, e da allora pronto lassù nei cieli a scendere quaggiù e a prendere il posto del primo dopo la sua sparizione". Ma c’è poco da rallegrarsi, almeno per la maggioranza degli uomini. Perché, secondo lo scrittore apocalittico, con la distruzione di questo mondo perirà anche la stragrande maggioranza degli uomini che non hanno seguito le vie del Signore, mentre solo una sparuta minoranza di fedeli della legge divina entrerà nel secondo mondo. Infatti, dice l’apocrifo di Esdra, "l’Altissimo ha creato questo mondo per una moltitudine, mentre quello futuro per un piccolo numero". E anzi, secondo l'apocrifo di Esdra, è Dio stesso che ne dà l'annuncio. Dice: "Guardai il mio mondo e lo vidi perduto. Lo vidi e pur tuttavia l'ho grandemente risparmiato, e mi sono riservato un acino su un grappolo: un piccolo germoglio su una grande quantità. Perisca dunque la moltitudine che è nata per il nulla ma che sia salvo il mio acino, il mio germoglio che ho prodotto con tanta fatica".

Dunque il pensiero apocalittico non è solo il pensiero della distruzione, ma della distruzione, a cui segue la salvezza almeno di un piccolo resto in un mondo futuro. Perciò il pensiero apocalittico conclude nell'escatologia.

Ho citato questo testo, che può sembrare così antico e così poco attuale, perché oggi siamo in una situazione apocalittica, perché siamo in una situazione di distruzione. Ma, conformemente allo spirito dei tempi, è un'apocalisse secolarizzata, un'apocalisse senza escatologia.

È secolarizzata e senza escatologia, perché la distruzione ce la facciamo noi, e perché anche la scrematura, la selezione dei fedeli abilitati a passare da un mondo all'altro, ce la facciamo da noi, e la stiamo facendo già ora. È questo stesso mondo presente, che giudica che c'è "una moltitudine nata per nulla", che poteva anche non essere nata, che tanto non serve, è un esubero. E, quindi, questa moltitudine può essere lasciata perire. C'è poi invece un piccolo numero, un acino su un grappolo, che deve fare il suo ingresso trionfale nel nuovo mondo del denaro, della tecnica e del mercato totalmente realizzati.

IL CORAGGIO DELLA PROFEZIA

Di fronte a ciò, cosa possiamo fare noi per resistere, per reagire? La prima risposta è il discorso escatologico: cioè contrapporre all'apocalisse secolarizzata la promessa escatologica. Ma attenzione: l'escatologia non è solo l'attesa della salvezza per il tempo futuro. È la promessa e l'attesa di una salvezza, che comincia a realizzarsi già ora. È una fede che non considera questo mondo perduto e che non lo "licenzia prematuramente", come diceva Bonhoeffer. Gli ideali messianici non sono metastorici: l'ideale messianico, qual è trasmesso da tutta la tradizione biblica, è che si stabilisca il diritto e la giustizia sulla terra; che la pace si realizzi sulla terra: "pacem in terris". Ora l'annuncio che ciò avverrà, è la profezia. E operare perché questo avvenga, e al più presto, è il coraggio della profezia. La profezia non liquida le speranze terrene. Come l'apocalisse, si fa carico delle speranze messianiche.

Tuttavia è caratteristica delle speranze messianiche che esse non si realizzino progressivamente, linearmente, nel continuum della storia. Ci sono dei salti, delle discontinuità. Non solo dei balzi innanzi, ma anche dei balzi indietro; dei vertiginosi ritorni sul precipizio. Per questo ogni tanto sentiamo i gemiti della fine, e il pensiero sembra fermarsi. Ma non dobbiamo disperare perché, come dice Walter Benjamin nelle sue tesi di filosofia della storia, in ciò si può riconoscere "il segno di un arresto messianico" o - detto altrimenti - di una chance rivoluzionaria. Anzi, non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria, intesa "come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo".

La storia è capace di sorprese. Nel presente, dice Benjamin, sono disseminate ed incluse schegge del tempo messianico. Il tempo non è un tempo omogeneo e vuoto. Neanche il futuro divenne per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto, quando fu loro vietata la divinazione del futuro, "poiché in esso ogni secondo era la piccola porta, attraverso la quale poteva entrare il messia".

Tutto questo per dire che vi sono nel tempo, nella storia, delle irruzioni messianiche. Il tempo non è lineare e continuo. C'è il kronos, il tempo cronologico, con i suoi singulti; e c'è il kairós, che irrompe in esso; il kairós che è il tempo accettabile, favorevole, è l'occasione, ma in quanto sia colta. Per questo motivo il kairós è rappresentato, nell'iconografia, come un fanciullo con le ali ai piedi che passa e deve essere afferrato. C'è n'è una raffigurazione di Donatello al museo del Bargello a Firenze. Il fanciullo che vola, deve essere colto al passaggio, anzi prima che passi, perché non si può prendere alle spalle: bisogna afferrarlo per il ciuffo che vola in avanti, mentre corre.

Ma non è possibile prendere il kairós dal ciuffo, se non si è vigilanti, se non si usa il pensiero critico, se non si è in attesa, se non si è disponibili. E allora questo è il punto, al quale volevo arrivare: tra l'apocalisse e l'escatologia c'è uno spazio, c'è un territorio da abitare, da percorrere, ed è la kairologia. E il coraggio della profezia sta in questo: nell'annunciare e nel cogliere il kairós al suo passaggio. Del resto questa è stata l'operazione di papa Giovanni, un papa radicalmente non apocalittico. E questo gli ha permesso di dissentire dai profeti di sventura, e di leggere invece i segni dei tempi, come segni che annunciavano un nuovo ordine di rapporti umani. Un nuovo mondo, che si stava preparando per grazia di Dio e per opera dell'uomo.

Anche per noi lo spazio che si apre, è quello kairologico. Mai come oggi sono poste davanti a noi, come due strade, la morte e la vita. Che cosa potrebbe voler dire applicare questa prospettiva al nostro coraggio e alle nostre speranze? Quale kairós o quali kairói dovremmo saper cogliere? Possiamo provare ad abbozzare qualche esempio.

IL KAIRÓS DEL CONCILIO

Non c'è dubbio che la chiesa ha vissuto, nella nostra generazione, un kairós straordinario: il Concilio. La chiesa l'ha visto, l'ha afferrato, forse più nel popolo di Dio che nei vertici ecclesiastici, l'ha messo nella sua vita, anche attraverso prove dolorosissime per molte persone. Basta leggere la storia, questa bellissima storia del Vaticano II (quattro volumi finora già usciti) diretta dal prof. Alberigo di Bologna, per misurare la portata del cambiamento che si è verificato attraverso il Concilio nel secolo appena trascorso. Il mistero della chiesa, il ritorno della parola di Dio, il primato della coscienza, la libertà religiosa, il dialogo, l'ecumenismo, la riconciliazione con gli ebrei, l'universalità della salvezza, la comunione col mondo: tutto questo è stato ritrovato, riproposto o è cresciuto con il Concilio.

Ma ora è come se la chiesa, ripiegandosi su se stessa, volesse far volare via il fanciullo con le ali. Sta rischiando infatti di perdere il kairós. E addirittura, nel corso dell'estate, c'è stata come una concentrazione di gesti, tutti rivolti al passato, come a voler tornare indietro nella terra non ancora liberata. C'è stato un incalzare di questi eventi: il ripristino di un'immagine di potenza nei raduni di massa, Pio IX, il tentativo di privatizzazione del carisma di papa Giovanni, il disconoscimento delle Chiese sorelle, la zizzania seminata nel rapporto tra le religioni, fino al vescovo che chiede al potere politico di tenere fuori i musulmani. A questo punto, credo che la prima cosa da fare, sia di tenere ben stretto per i capelli il kairós della chiesa: cioè continuare la profezia pubblica di papa Giovanni, far dilagare l'irruzione messianica del Concilio.

IL KAIRÓS DELL'UNITÀ DEL MONDO

Il secondo kairós è quello dell'unità del mondo. Se oggi questa unità è così violentemente attaccata, è proprio perché questo kairós è apparso. È apparso nell'ordinamento internazionale, nell'universalità raggiunta dall'Onu. È apparso nel diritto attraverso l'universalizzazione dei diritti umani. È apparso nella comunicazione dei linguaggi, dei costumi, delle figure. È apparso nella chiesa, quando si è proclamata come sacramento o segno e strumento dell'unità del genere umano. Ed è apparso nella stessa globalizzazione, che appunto è una globalizzazione senza universalità, che rompe l'unità, però se ne serve, la proclama e proprio in ciò ha la sua insanabile contraddizione.

Servire il kairós dell'unità, vuol dire fare esplodere questa contraddizione. Se la radice della crisi presente sta nell'abbandono della prospettiva universalistica, sta nel pensiero della divisione e della selezione, sta nell'idea che il mondo non è fatto e non basta per tutti e che perciò solo una parte dell'umanità possa salvarsi, allora è questo "pensiero corto" che va rovesciato, ristabilendo la coscienza e il principio dell'unità della famiglia umana. E oggi operare per l'unità o per la divisione degli uomini non è solo un'alternativa etica. È un'alternativa antropologica fondamentale. Tutto quello che è fatto per l'unità, va nel senso della conservazione della vita sulla terra e della salvaguardia del creato. Tutto quello che è fatto per la divisione, da chiunque venga fatto, va nel senso della distruzione della vita e della rottura dell'opera della creazione.

E ciò vale anche per la chiesa. Allora deve essere chiaro che l'ecumenismo, il dialogo, la comunione con gli ebrei, il rapporto con le altre religioni non sono solo atti religiosi, funzionali alla diffusione del messaggio evangelico, propedeutici all'affermazione della vera religione, allo stabilimento dell'unica chiesa, ma sono atti profetici, civili ed umani direttamente cooperanti alla costruzione dell'unità del mondo, rispondenti all'urgenza della salvezza del mondo. E da questo non si può tornare indietro, perché la situazione non lo consente. Non sarà mai abbastanza il riconoscersi come fratelli: "Sono Giuseppe, vostro fratello", disse Giovanni XXIII, citando il Genesi, nel discorso dell'incoronazione. Né sarà mai abbastanza dichiarare le nostre comunità umane ed ecclesiali come sorelle. Al contrario ogni gesto di separazione, di rivalità, ogni rivendicazione orgogliosa della propria identità, la preoccupazione di non contaminarsi, saranno - al di là di ogni intenzione - fattori di divisione, omogenei allo spirito del mondo, destinati ad essere recuperati e catturati dall'ideologia della sicurezza, della selezione, della rappresentazione di un mondo fatto di necessari ed esuberi, di presi e lasciati. Mentre cogliere il kairós sta in ogni gesto di universalità vera.

IL KAIRÓS DELLA PACE

E c'è un altro kairós che bisogna cogliere: il kairós della pace. Esso è apparso sul nostro orizzonte quando la guerra, per la prima volta nella storia, è stata ripudiata, messa fuori dal diritto e dalla ragione, dichiarata un flagello. Un'occasione che si doveva cogliere. La guerra è stata poi ripristinata. Ma, trovandosi ormai fuori del diritto, fuori della ragione, essa ha dovuto trovare una nuova legittimazione e una nuova ragione. E l'ha cercata nell'idea della guerra umanitaria, la cui ragione starebbe non nella difesa dei propri interessi, ma di quelli altrui. Però la cosa non ha funzionato: la guerra umanitaria si è rilevata la più disumana di tutte le guerre.

Prima di tutto perché, essendo essa stessa umanitaria, si è ritenuta esente dal rispettare il diritto umanitario di guerra volto a raffrenare la sua innegabile disumanità. E così, nella guerra jugoslava, tutti i protocolli di Ginevra sono stati violati.

In secondo luogo, si è rivelata la verità della tesi espressa, già molti anni fa, da uno dei massimi teorici del diritto pubblico Carl Schmitt, quando diceva che combattere in nome dell'umanità comporta il massimo della violenza, perché significa mettere l'avversario fuori dall'umanità, ridurlo a non uomo. Scriveva Schmitt: "L'umanità, in quanto tale, non può condurre nessuna guerra, perché essa non ha nemici... Il concetto di umanità esclude quello di nemico, perché anche il nemico non cessa di essere uomo.... Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all'umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto la terribile pretesa che al nemico deve essere tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato hors-la-loi (fuori dalla legge) e hors-l’humanité (fuori dell'umanità), e quindi che la guerra deve essere portata fino all'estrema inumanità".

In terzo luogo, la guerra umanitaria si è manifestata la meno ragionevole di tutte, perché tutte le guerre hanno sempre aspirato a finire il più presto possibile e invece, in quanto umanitaria, questa guerra non sente alcuna urgenza di concludersi; infatti continua ad imperversare contro i nemici anche molto tempo dopo la sua fine, come vendetta e come embargo.

Quindi, la guerra non ha superato la prova di questa sua nuova legittimazione. Di conseguenza, il kairós della pace è ancora lì da cogliere.

IL KAIRÓS DELLA POVERTÀ

Poi c'è il kairós della povertà. Proprio perché la povertà ha raggiunto quelle dimensioni endemiche che conosciamo, e proprio perché ha raggiunto quel grado di radicalità, per cui non è più naturale che i poveri vivano, ma essi possono vivere solo se c'è una decisione, una volontà politica di farli vivere, proprio per questo la povertà è un kairós che ci chiede una conversione profonda. Esso ci chiede non solo di riconoscere i poveri, di accoglierli, di sceglierli, di guardare il mondo dal loro punto di vista, come dice la teologia della liberazione latinoamericana, ma ci chiede di riconoscere la nostra stessa povertà. Questo kairós ci costringe ormai a porre la questione della povertà non soltanto come questione economico-sociale, ma antropologica, attinente cioè alla stessa condizione umana e alla comprensione che l'uomo ha di se stesso.

Come questione economico-sociale, la povertà è semplicemente uno scandalo da rimuovere. Nella dimensione che essa ha raggiunto oggi su tutta la terra, non si può intendere come una buona notizia il detto evangelico: "Beati i poveri", né la constatazione di Gesù che "i poveri li avrete sempre con voi". Né per salvare questa parola evangelica e continuare a proporre la povertà come un ideale da raggiungere, come uno stato di perfezione, si può ricorrere ad un metodo quantitativo, per cui sarebbe buona la povertà entro un certo limite, ad esempio fino al limite che permette la sussistenza, e cattiva invece la povertà che sprofonda in miseria, che non permette né la felicità, né la vita. La misura, entro e non oltre la quale si può parlare di "una povertà contenta e benedetta", come diceva papa Giovanni, non può essere una misura quantitativa, che in ogni caso sarebbe di difficile definizione, come è difficile definire in termini oggettivi il confine tra necessario e superfluo.

Il discorso sulla povertà del Vangelo non è un discorso moralistico, ma rivelativo. Non ci dice che, se vogliamo entrare nel Regno dei cieli, dobbiamo essere poveri nel senso di parsimoniosi, mentre tutto il resto rimane immutato; anche i poveri si perdono, compresi quelli che hanno fatto voto di povertà. Quella parola evangelica ci dice invece che siamo poveri, e che solo se riconosciamo questa povertà, solo se assumiamo fino in fondo questa condizione, nostra ed altrui, come poveri entreremo nel Regno dei cieli. La povertà ci è proposta cioè non come una misura limitata, manifesta ed accertabile dell'avere, ma come un mistero dell'essere.

Che Dio si sia fatto povero fino a prendere la forma del servo e ad obbedire fino alla morte, fa parte del mistero di Dio e non dell'etica di Dio. Che l'uomo sia povero fino ad essere servo, a morire e ad essere ucciso, fa parte del mistero dell'uomo.

La povertà è un mistero antropologico fondamentale. "Misteri" sono le verità nelle quali è nascosta la nostra salvezza: il mistero della Croce, il mistero della Risurrezione. Oggi ci viene chiesto di comprendere questo mistero. Perché quando la povertà che noi comprendiamo - la povertà che prende alla gola persone e popoli interi - abbraccia ormai i quattro quinti dell'umanità, mentre l'altro quinto è minacciato dalla sua stessa ricchezza, se non capiamo il mistero della povertà, al di là degli indicatori economico-sociali, siamo perduti. In questo senso, il mistero della povertà è un mistero di salvezza non solo spirituale, ma anche fisica e storica del mondo.

Il mistero della povertà noi non lo comprendiamo perché l'uomo, soprattutto quello occidentale, si è costruito come signore, destinato a tutto conoscere e a tutto potere, chiamato ad uscire dalla necessità, a liberarsi dal limite e dal finito, pronto al salto nell'assoluto.

Pertanto sin dall'antichità classica egli ha posto il suo ideale nell'autosufficienza perfetta, nel non dover dipendere dagli altri, neanche mediante il lavoro, inteso come pena; e, perciò, ha posto il suo ideale nella ricchezza. Il filosofo Marco Aurelio, esprimendo l'ideale stoico, disprezza il povero, perché "non avendo di per se stesso i mezzi necessari per vivere, ha bisogno dell'aiuto degli altri". E questa era considerata una cosa spregevole. Ma se questo è l'ideale, e se è chiaro che non tutti possono essere ricchi, allora quell'idea di perfezione fonda un'antropologia della disuguaglianza, alla quale corrisponde una società diseguale e non propizia per i poveri, gli schiavi, gli stranieri, le donne e i bambini. Non solo: quest'ideale di perfezione, l'uomo lo ha trasferito poi alle sue istituzioni, alle sue società; ne ha voluto fare società perfette ed istituzioni totali. E, come massimo della perfezione, ha inventato la sovranità - che è il potere di colui che non ha sopra di sé alcun altro potere - e con essa la sua ancella, la guerra.

Ora è evidente che quest'idea della perfezione esclude la povertà. I poveri ne sono fuori. La rivelazione del mistero della povertà rovescia per contro quest'idea della perfezione, dalla quale la maggior parte degli uomini sono destinati ad essere esclusi. Essa dà ragione della povertà come appartenente alla condizione umana comune, come un connotato fondamentale della stessa definizione dell'uomo. Dunque, non è una disgrazia in cui si cade o una condizione di passaggio nella marcia verso l'arricchimento, ma una condizione universale e permanente che accomuna tutti gli uomini e le donne, e che ne integra l'identità. Questa povertà, costitutiva dell'uomo, non è meramente spirituale. Implica una debolezza e un'indigenza reale. Significa essenzialmente che nessuno è sufficiente a se stesso e tutti hanno bisogno gli uni degli altri; comporta il limite e la morte, che non sono la conseguenza del peccato, ma sono la condizione naturale dell'uomo. La povertà è l'essere creatura dell'uomo. Ed è proprio in quanto povero, in quanto creatura, che l'uomo poi "buca" il finito ed è chiamato a divinizzarsi. È il paradosso ontologico dell'uomo, fatto di polvere e destinato a partecipare alla vita divina. Essere fatto di nulla, e confinare con Dio.

Anche le società umane non sono sovrane e perfette, ma sono interdipendenti e indigenti. "Non esistono città, repubbliche e regni - diceva Suarez - che non siano indigenti - quin indigeant - che non abbiano bisogno di mutuo aiuto, di società e di comunicazione", cioè che si possano mettere fuori o sopra, come despoti, alla comunità internazionale.

In questo senso, spiegava padre Turoldo, "i poveri sono la profezia che attraversa tutta la storia". E oggi ci interpellano, chiedendo ragione non soltanto di sé, ma di tutti, ci chiedono di rendere ragione della comune umanità. Se i poveri sono gli eredi del Regno, occorre che i poveri non siano una categoria predefinita di uomini, ma piuttosto un modo di essere, di riconoscersi uomini e donne. Altrimenti non sarebbe vero che Dio è di tutti e non fa distinzioni di persone. La povertà è l'essere uomo dell'uomo.

IL KAIRÓS DELL'AMORE

Il kairós della povertà ci introduce all'ultimo kairós, quello dell'amore. Se infatti la povertà è riconoscersi nel limite, nell'indigenza e quindi nell'avere bisogno gli uni degli altri, allora entra in gioco l'amore, allora l’amore non è un surplus desiderabile, il profumo della vita, ma è un coefficiente necessario alla salvezza e una condizione di esistenza della stessa comunità politica. Perché l'amore è appunto questo bisogno dell'altro ed è l'aderire, l'abbandonarsi e il rispondere a tale bisogno. In questo senso, la povertà diviene un ideale di perfezione: nel senso in cui ne ha parlato il rabbino tedesco Jacob Taubes, a commento della lettera ai Romani. Come mai - si è domandato Taubes - San Paolo dice che la cosa più perfetta è l'amore? L'amore implica una mancanza, un bisogno, un'insufficienza che chiede di essere colmata; l'amore vuol dire che il centro di me stesso è nell'altro, che ho bisogno e sono indigente dell'altro. Quindi in quest’insufficienza sembrerebbe manifestarsi il contrario della perfezione. Invece la perfezione è proprio questa. San Paolo, nella seconda ai Corinti, fa dire a Dio stesso: "La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza". Conclude Taubes: "Ciò significa che l'indigenza risiede nella stessa perfezione".

Dunque in questo senso il kairós della povertà irrompe tra noi. La povertà nel senso evangelico non è l'umanità derelitta che muore di fame. Non è nemmeno l'ideale ascetico di spogliarsi di tutto. È piuttosto il riconoscersi ed amarsi nel proprio limite; e, in forza di questo limite, sapersi indigenti, bisognosi di Dio e degli altri; e perciò doversi fidare di Dio e degli altri; doversi "affidare" agli altri. Questo affidamento, se è privato, è la carità. Se è pubblico, è la politica.

RANIERO LA VALLE

©MISSIONE OGGI

 

RANIERO LA VALLE. Dopo la laurea in Giurisprudenza, si dedicò giovanissimo al giornalismo. Chiamato nel 1961 a dirigere L'Avvenire d'Italia, ne fece, durante gli anni del Concilio, il più prestigioso organo di informazione del grande evento ecclesiale, le cui cronache raccolse in tre volumi molto diffusi. Le sue dimissioni da L'Avvenire d'Italia, nel 1967, coincisero con la "normalizzazione" della chiesa di Bologna. Continuò la sua attività giornalistica, tra l'altro producendo per la Rai documentari televisivi e inchieste condotte negli Usa, in America latina, Europa e Asia.

Nel 1976 diventa parlamentare della Sinistra indipendente, lavora nelle Commissioni Esteri e Difesa delle due Camere fino al 1992. Nel 1997 fonda con alcuni amici la rivista Bozze, un vivace strumento del dibattito ecclesiale e civile. Si ricordano alcune sue campagna a favore dei popoli oppressi, delle quali sono documenti appassionati opere come Dalla parte di Abele (1971), Fuori dal campo (1978), Dossier Vietnam-Cambogia (1981), Marianella e i suoi fratelli (insieme a Linda Bimbi, 1983), Pacem in Terris, l'enciclica della liberazione (1987).

Continua in questi anni l'impegno di riflessione e di proposta per la pace, con la partecipazione ad incontri e la collaborazione a riviste. Dallo scorso anno coordina Vasti, una scuola di ricerca e critica delle antropologie, che Missione Oggi si propone di continuare a seguire.

Approfondimenti

- Dio non era nel maremoto, di Raniero La Valle (fonte liberazione)

 

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