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Jean Marc Ela: Se l'Africa libera Dio

tratto da NIGRIZIA

Se l'Africa libera Dio

 

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da Nigrizia ottobre 2000 Economia e teologia/ Sotto lÂ’albero

 A cura di Yao Assogba

Tratto dal suo libro-intervista: Jean-Marc Ela. Le sociologue et théologien africain en boubou, edito da LÂ’Harmattan, Montréal-Paris, 999,pp107(presso lÂ’Harmattan Italia : tel.011 8171388).

 

Jean-Marc Ela, camerunense, 64 anni, è sociologo e teologo. Da sacerdote, oltre che da intellettuale, si è sempre occupato della vita quotidiana e dei bisogni della gente comune, del “mondo in basso” che si batte per sopravvivere e che è gran parte dell’Africa d’oggi. Non a caso ha lavorato per quattordici anni tra la popolazione kirdi del nord del Camerun, portando il messaggio di liberazione del Vangelo. Un lavoro che ha dato fastidio al potere, che lo ha costretto all’esilio: il suo soggiorno in Canada, che dura da cinque anni, è a tutti gli effetti un esilio politico.

 

  Lei sostiene che lÂ’Africa ha ragione della modernità attraverso il “bricolage”, nel quale vede una strada alternativa. Che cosa intende per bricolage e in che misura riesce a domare la modernità?

  Durante la nostra esistenza possiamo osservare che c’è tutto un lavoro culturale in corso, in tutti gli atti che compiamo, tanto nelle percezioni che abbiamo della realtà quanto nellÂ’insieme delle rappresentazioni attraverso le quali tentiamo di stabilire dei rapporti con il nostro ambiente.

  Quando parlo di bricolage penso a tutti questi saperi prodotti dalla società per raccogliere le sfide dellÂ’ambiente. Saperi con i quali, nonostante le apparenze, lÂ’africano non ha rotto. È vero talora che questi saperi sono stati occultati, hanno finito per entrare in clandestinità in società dove il colonialismo li ha spinti allÂ’emarginazione.

  Ma le persone continuano a ricorrere a questi saperi. Oggi si assiste a un ritorno di questi aspetti inibiti, perché ci si rende conto che né i saperi della scuola occidentale né le tecniche importate da fuori possono risolvere i nostri problemi. Le persone sono costrette a riappropriarsi dei saperi precoloniali sui quali si costituisce la modernità africana. QuestÂ’ultima, in gestazione, sta per manifestarsi in diversi campi: alimentazione, sanità, tecnologia, habitat.

  Parlando di bricolage, mi pare evidente, escludendo ogni connotazione peggiorativa. Bisognerà incontrare lÂ’Africa là dove essa si inventa, a partire da questi bricolage che formano il tessuto della nostra vita sociale. LÂ’arte del bricolage è lÂ’arte di vivere attualizzando una memoria tecnologica, mettendo in opera un potenziale di creatività che conduce lÂ’africano a immaginare risposte pertinenti ai problemi in un contesto dove vivere è una sfida quotidiana.

 

  Mi cita qualche esempio di bricolage?

 Pensiamo alle bidonville: sono una maniera di costruire il rapporto con lo spazio. Qui tutto può essere utile per darsi un luogo dÂ’esistenza; le persone si insediano come possono, dove possono. Si possono trovare, in un quartiere-enclave, strade e ponti che sono opera dei cittadini stessi, senza il minimo intervento dei servizi pubblici.

  A Yaoundé, capitale del Camerun, la gente ha realizzato una strada per mettere in collegamento settori della città tagliati dalla ferrovia, facendosi pagare in anticipo da coloro che lÂ’avrebbero utilizzata in modo da poter pagare, almeno un poÂ’, coloro che avrebbero fatto il lavoro concretamente.

 

  Rimane il fatto che quello che lei chiama bricolage viene considerato invece un fallimento dello sviluppo.  Allora chiediamoci: che cos’è lo sviluppo?

Per me è ciò che passa per la testa della gente. Bisogna partire da qui, altrimenti ogni strategia di sviluppo sarà votata al fallimento. E purtroppo è ciò che è accaduto in Africa. Non si è tenuto conto di quello che il contadino o il cittadino pensa quando parla di sviluppo. Mi spiego: non si dà sviluppo reale che nei luoghi dove la gente vive e dove questa si aspetta risposte credibili ai suoi problemi quotidiani. I servizi urbani non hanno risolto il problema della grande maggioranza dei consumatori di spazio nelle città africane, tranne che nei quartieri detti residenziali.

  Partendo da questo fallimento, dobbiamo cambiare referenti: che non possono essere lo stato o gli organismi preposti allÂ’urbanizzazione, ma invece le persone del quartiere, che ogni giorno reinventano la vita.

 

  Perché le città africane non possono assomigliare alle città europee?

  Per me la risposta è semplice. Ogni intervento in materia di sviluppo fa capo a una norma di riferimento. Quando si studiano i progetti di sviluppo in Africa, si osservano strategie di resistenza perché gli africani non si riconoscono in progetti che non tengono conto della loro maniera di vedere il mondo e di vivere. Non appena lÂ’africano si sente misconosciuto e prende coscienza che i suoi valori fondamentali sono minacciati, risponde con il rifiuto. Mi pare essenziale lÂ’idea che lo sviluppo deve basarsi su riferimenti radicati nelle culture del territorio. La ragione per cui tutto ciò che è venuto dallÂ’esterno dellÂ’Africa non è riuscito a imporsi, sta nel fatto che la gente, sentendosi estranea, non vi ha partecipato.

  Per questo la progettazione dello sviluppo esige ricerca scientifica, non solo nellÂ’ambito delle scienze esatte ma anche delle scienze sociali.

 

 In Africa non mancano intellettuali  che la pensano come lei né persone che prendono lÂ’iniziativa. Come mai non riescono a imporsi?

  Appunto perché le questioni dello sviluppo sono questioni sociopolitiche. C’è una dimensione politica di questi problemi che implica strategie di controllo del cambiamento sociale. Non tutti gli africani sono favorevoli allo sviluppo popolare. Ci sono persone che beneficiano del sottosviluppo: lo sviluppo degli uni implica il sottosviluppo degli altri.

  Oggi le élite africane non vogliono rinunciare a posizioni di potere che sono posizioni di accumulazione. Queste élite non possono essere il motore dello sviluppo, non possono impegnarsi veramente perché ciò le obbligherebbe a ridistribuire le carte del potere e metterebbe in discussione ogni sistema di illegalità e di dominio legato allÂ’avvento dello stato postcoloniale.

  Ne deriva che ogni strategia di sviluppo sÂ’inscrive nella prospettiva del cambiamento sociale. Possiamo dire che la modernità africana è lÂ’oggetto di conquiste sociali.

 

  Dunque c’è un preciso legame tra sviluppo, risposte africane alla modernità imposta dallÂ’ esterno e sistema politico?

  Certamente. Sono aspetti inseparabili: il sistema politico come il sistema sociale sono elementi di referenze per un approccio allo sviluppo. Al di là degli approcci tecnocratici bisogna valorizzare i fenomeni di potere, le formazioni sociali e le lotte democratiche.

 

  Che cosa intende quando parla di molteplici traiettorie del capitalismo?

  Si tratta di rileggere Max Weber (che ha messo a fuoco come la nascita del capitalismo in Occidente sia stata condizionata dallÂ’etica protestante) a partire dal rapporto degli africani con il denaro. Sono necessariamente ricerche sui comportamenti e gli atteggiamenti degli africani di fronte al denaro. Il problema è capire se le nostre logiche sociali sono favorevoli o meno allo spirito di profitto che è il motore del capitalismo.

  Non possiamo affermare in modo sistematico che lÂ’africano è anticapitalista. Certi gruppi si sentono perfettamente a loro agio nello spirito dÂ’impresa, mentre altri oppongono resistenza allo spirito del profitto nella misura in cui può tradursi in una forma di accumulazione che rischia di farli uscire dalla rete di solidarietà. Per salvaguardare i legami di solidarietà, preferiscono ridistribuire il loro denaro a partire da una concezione della ricchezza che dà il primato allo spirito di famiglia.

  Quando parlo di traiettorie del capitalismo penso a questi differenti modi di comportarsi. Si tratta di fare lÂ’inventario delle maniere in cui passaggio al capitalismo viene effettuato, poiché non esiste una sola via al capitalismo.

  Oggi si pensa che lÂ’Africa abbia utilizzato male il denaro ricevuto in tutti questi anni e, per forzarla a sottomettersi al modello capitalistico, la si priva delle risorse necessarie sul piano sociale ed educativo. Banca Mondiale e Fondo Monetario vedono nei piani di aggiustamento strutturale la sola via di passaggio al capitalismo in Africa. Per me il capitalismo è intrinsecamente perverso. Sono possibili altre vie di accesso alla modernità.

  Il problema di fondo è quello dellÂ’articolazione del rapporto tra il denaro, la cultura e la società. Nel contesto africano, le logiche sociali sono rimaste a lungo logiche di parentela. La maggior parte dei nostri investimenti sono sociali, improduttivi. Si tratta di sapere se, di fronte alle sollecitazioni economiche che sono inaggirabili, non si deva vedere il nostro rapporto con il denaro affinché tutto ciò che ha a che vedere con la parentela non sia necessariamente un ostacolo allÂ’accumulazione. Laddove il sistema sociale ha loro permesso di aprirsi alla cultura del denaro, le persone hanno compreso la necessità di ripensare le logiche di parentela. Se la famiglia deve condurci allÂ’impoverimento, mi chiedo se non la si debba spingere a riesaminarsi per sapere come conciliare denaro e parentela.

 

  Lei è diventato teologo dopo aver fatto una tesi su Martin Lutero. Che cosÂ’ha significato ciò per lei, e cos’è un teologo africano?

  Il teologo africano deve cercare di comprendere come altri cristiani hanno tentato di leggere la Bibbia. La Riforma ha avuto luogo in un contesto storico in cui la chiesa aveva bisogno di unÂ’innovazione profonda, che arrivasse alla radice delle cose. E la radice è il rapporto con Dio nella fede; ciò che Lutero ha voluto fare è restaurare la sovranità di Dio. Tutto il suo sforzo consiste nel dire: “Lasciate che Dio sia Dio”.

Questa preoccupazione fondamentale mi ha aiutato ad operare una sorta di rivoluzione copernicana a partire dal contesto africano. Il teologo africano che ha lavorato sul pensiero di Lutero non può non sottomettere a un libero esame il rapporto tra lÂ’uomo africano e il Vangelo in un contesto storico in cui tutto il peso dellÂ’Occidente grava su questo rapporto. Per me il teologo africano deve parlare di Dio a partire dal luogo dove la Parola di Dio ci trova. Questo luogo è lÂ’Africa stessa, tenendo conto delle sfide delle nostre società e della tragedia della nostra storia. Dopo anni ho preso coscienza che lÂ’Africa è un vero polo di rivelazione, un luogo dove Dio parla alla chiesa e al mondo. 

Ho preso coscienza dell’insignificanza del cristianesimo occidentale per l’uomo africano. Questo cristianesimo è integrato a un sistema di dominazione nel quale Dio rischia di essere catturato dalle forze che ci opprimono. Ora bisogna che Dio sia Dio, e perché lo sia bisogna che Dio sia liberato da questa schiavitù.

  La mia teologia prende come punto di partenza il fatto che il Vangelo non può essere realmente una forza di liberazione se non lo si libera dal cristianesimo occidentale, fondamentalmente associato a un sistema di dominazione dopo la conversione dellÂ’imperatore Costantino.

  Si ritrova questo virus imperiale nellÂ’ossessione dellÂ’autorità in seno al cattolicesimo romano.

 

  Come si può fare una lettura africana della Bibbia?

  La Bibbia deve essere considerata come il racconto di una liberazione da Mosè fino a Gesù Cristo, che è venuto nel mondo per liberare i poveri e gli oppressi. La sfida della povertà e dellÂ’oppressione è al centro della Rivelazione. È per questo che la nostra teologia non può che essere una teologia della liberazione. A questo riguardo, lÂ’Africa appare come uno dei luoghi della terra dove la creazione geme in attesa della liberazione.

 

  In che modo lei, da teologo, ha operato in Africa?

  Il mio lavoro tra i kirdi del nord del Camerun consisteva nel mettere le persone nella condizione di organizzarsi per uscire da ogni situazione di povertà e di oppressione in cui vivevamo. Ho tentato di risvegliare le coscienze delle persone sulla loro situazione, di condurle a riunirsi, a organizzarsi, a creare delle comunità. E allÂ’interno di queste comunità formavo dei leader che potevano essere il motore del cambiamento. Un lavoro che doveva partire da cose molto concrete: mi occupavo essenzialmente di terra, dÂ’acqua e di miglio. Quella gente vive in montagna, dove la terra è stanca e di esaurisce. E nelle aree pianeggianti molti contadini sono senza terra. Così ogni anno bisogna prendere in affitto dei campi dai grandi proprietari terrieri. Lo stesso vale per lÂ’acquaÂ… C’è poi un problema di tipo di colture: condurre la gente ad interrogarsi sul ruolo che devono avere le piante  per lÂ’alimentazione in un sistema agricolo incentrato sul cotone al quale sono dedicate le terre migliori. Per fare ciò di organizzavamo seminari di riflessione, ma anche corsi di formazione e di alfabetizzazione.

  Ma i capi tradizionali, i notabili e le autorità amministrative non apprezzavano il mio lavoro. Mi rimproveravano di aprire gli occhi alla gente. Per quattordici anni ho continuato a farlo, poi me ne sono dovuto andare per le persecuzioni appunto a causa del messaggio che diffondevo.

 

  Lei appartiene a quella che si chiama la teologia della liberazione applicata allÂ’Africa. Si riconosce in questa definizione?

  La mia riflessione teologica è nata nei villaggi. Precisamente sotto lÂ’albero della palabre, dei colloqui, nelle montagne del nord del Camerun dove, la sera, mÂ’incontravo con i contadini e le contadine per leggere la Bibbia con i nostri occhi africani. La mia teologia non è nata tra quattro mura di cemento. Non ho mai insegnato teologia in un grande seminario e nelle università cattoliche in Africa. Sono intervenuto in alcuni istituti di teologia, specie in Belgio e in Germania, ma in maniera puntuale e per condividere la mia esperienza sul terreno o per discutere sulle mie opere.

  Concretamente la mia teologia è partita dalla riscoperta del Dio di cui parla una donna del Nuovo Testamento. Maria canta il Dio che nutre gli affamati e lascia i ricchi a mani vuote. Questo Dio è nello stesso tempo colui che rovescia i potenti dai loro troni.

 

  Mi indica tre questioni prioritarie per lÂ’Africa?

  In estrema sintesi. La mia prima preoccupazione è ridare al Vangelo in Africa tutta la sua crediblità e la sua pertinenza; e ciò in rottura con il discorso teologico che si è sviluppato in Occidente. Va messa in luce la forza sovversiva della memoria del Dio crocefisso che noi dobbiamo riscoprire.

  Un'altra preoccupazione è determinare il ruolo che deve essere accordato alla gioventù. Per me la gioventù rappresenta la speranza del nostro continente e non bisognerebbe che ricadesse nella storia della sofferenza che è la storia dolorosa del popolo nero. Ci vorrebbe una rottura con questa storia: unÂ’esperienza che deve avere al centro i giovani.

  Infine mi chiedo come si possa arrivare ad una civilizzazione dello stato in Africa. E dico “civilizzazione” perché lo stato è “decivilizzato” nella misura in cui è organizzato sulla barbarie. La barbarie si è imposta in Africa negli ultimi trentÂ’anni attraverso unÂ’economia politica fondata sulla gestione della violenza da parte di poteri che uccidono, spogliano, accaparrano e monopolizzano lÂ’accesso alle condizioni di esistenza. È necessario passare da questa barbarie dello stato a uno stato civilizzato. Civilizzare lo stato è la grande sfida di oggi.

 

 

Alcuni scritti di Jean-Marc Ela

In italiano: Questo è il tempo degli eredi (con René Luneau; Emi, 1983); Fede e liberazione in Africa (Cittadella, 1986); La mia fede di africano (Edb, 1987).

In francese: La plume et la pioche (Éditions Clé, 1971) ; Le cri de lÂ’homme africain (LÂ’Harmattan, 1980) ; Afrique : lÂ’irruption de pauvres (LÂ’Harmattan,1994) ; Innovations sociales et renaissance de lÂ’Afrique noire (LÂ’Harmattan, 1998).

 

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