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Es (1;2;3): Le mani aperte di Dio

Gim Lecce (2000/01)

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Le Mani Aperte di Dio

 (catechesi GIM Lecce)

LÂ’epoca del Faraone Ramses II era molto fiorente per gli egiziani; un regno ben consolidato e fiorente. Non altrettanto si poteva dire per il popolo di Israele che era tenuto schiavo del Faraone e dalla sua classe politica. Era il popolo schiavo che assicurava la base materiale per la ricchezza del Faraone e del popolo egizio.       Storia dÂ’altri tempi?!

 

Il popolo di Israele soffriva molto questa schiavitù: ritmi di lavoro molto duri, condizioni di vita a rischio per i più deboli. L’obiettivo del Faraone era di sfruttare questo popolo senza che esso potesse creargli dei problemi sociali, specialmente perché era un popolo molto numeroso! (Es. 1, 11-13).

 

Uno di questi figli degli ebrei non fu ucciso come tanti altri, e ciò grazie alla disobbedienza di due donne (Es. 1,17) che amavano la vita. Circostanze bizzarre (i piani di Dio sono molto bizzarri a volte!) portarono Mosè a diventare “figlio” del Faraone ( Es. 2, 5-10). Mosè crebbe come un ragazzo di corte, amato dal Faraone, potenziale erede al trono per la sa grande intelligenza e vitalità. Lui però non sapeva di avere origini ebraiche; il sangue del suo popolo scorreva nelle sue vene, gli faceva battere il cuore rendendolo attento e sensibile alle sofferenze e all’oppressione del popolo schiavo del regno di suo padre il Faraone.

 

Le ricchezze del Faraone erano molto numerose e Mosè pian piano le stava conoscendo. Ma quelle ricchezze erano frutto dellÂ’oppressione del popolo di Israele.     

Le ricchezze di chi vive sfruttando la forza altrui non sono mai delle ricchezze che danno gioia vera. 

 

 Mosè comincia a prendere le distanze nel suo cuore con questo modo di fare del Faraone. Ma la vita comoda e agiata della corte soffocava questo desiderio di giustizia.

Un giorno si presenta l’occasione per reagire ad un Egiziano che stava picchiando uno schiavo ebreo per farlo lavorare di più (Es. 2, 11-12). La reazione è talmente forte ed istintiva che Mosè uccide il soldato del Faraone. Cosa fare? Nascondere tutto visto che attorno non ci sono occhi che hanno visto.

Ma un comportamento così non rimase nascosto per molto e Mosè fu costretto alla fuga (Es. 2, 13-15).

Fuggire per Mosè significava ricominciare la vita altrove, visto che nel regno si cominciò a sapere delle sue vere origini.

 

Per un po’ di anni Mosè riuscì a cambiare vita, (Es. 2, 21-22) ma il Suo Dio e Signore, Suo Padre, il Padre nostro, lo richiamava per farlo tornare alle proprie origini, alla vita che lui aveva ricevuto.

Mosè deve allora lasciare la vita che si era ricostruito. Il suo Dio, il Dio del suo popolo lo richiamava a tornare alle sue origini, in mezzo al suo popolo. Mosè è chiamato a essere sentinella del suo popolo.

 

Dio si presenta a Mosè con il volto di Padre, un padre

che non ha mai dimenticato i suoi figli: Abramo, Isacco, Giacobbe..

 

Davanti al roveto ardente Mosè comprende che si trova avvolto nel Mistero di Dio (Es. 3, 2-5). Mosè si accorge della presenza di Dio e comprende che ora quel fuoco non potrà restare al di fuori della propria vita.

 

Nella nostra esistenza siamo sollecitati da molti aspeti di questo Mistero che è Dio. Non basta prenderne atto come degli spettatori, dei curiosi; il Signore vuole convocarci attorno a questo fuoco, a questa fonte di vita e di purificazione. Gesù di Nazareth Figlio di Dio e nostro fratello è colui che ci ha resi capaci con la sua vita e la sua grazia di ascoltare e contemplare questo fuoco.

 

La storia di Mosè è la storia di ciascuno di noi, figli di Dio creati ad immagine e somiglianza sua. In ognuno di noi il Signore ha messo una forza vitale, dei talenti. Nessuno può dirsi uno ZERO.

 

Il Signore ha un sogno per ciascuno di noi, per la forza vitale che è in noi. Questo sogno il Signore della vita lo vuole realizzare con noi, con la nostra libertà e la nostra presenza. La prima missione alla quale siamo chiamati è quella di riconoscere  la forza vitale che è in noi, i talenti che il Signore ci ha donato.

 

Attenzione al pessimismo su noi stessi e alla rassegnazione… ciò ci porta alla fuga, a nasconderci!

Dio non ci chiama ad essere sentinelle di un Cimitero, bensì di un mondo di vita e di ricchezze da custodire e far fruttificare a cominciare da quelle che ciascuno di noi ha ricevuto.

 

Dio Nostro Padre agisce nella storia dellÂ’uomo con due mani:

- la mano del suo coinvolgimento in prima persona nella storia dellÂ’uomo e soprattutto dellÂ’uomo oppresso e                      debole; “ho visto lÂ’oppressione del mio popolo che è i EgittoÂ…voglio scendere a liberarlo...” (Es. 3, 7-8)

 

- la mano della nostra forza vitale, dei nostri talenti; “E ora va’: Ti invio dal Faraone…” (Es. 3, 10)

 

 

 

 

Aquile o Galline?  Una storia di James Aggrey (Ghana)

 

          CÂ’era una volta un contadino che andò nella foresta vicina a casa sua per catturare un uccello da tenere prigioniero.  Riuscì a prendere un aquilotto.  Lo mise nel pollaio insieme alle galline e lo nutrì a granturco e becchime, incurante del fatto che l'aquila fosse la regina di tutti gli uccelli.

Dopo cinque anni, quest'uomo ricevette a casa sua la visita di un naturalista.  Mentre passeggiavano per il giardino, il naturalista disse: «Quell'uccello non è una gallina. È un'aquila».

«è vero», rispose il contadino, «è un'aquila.  Ma io l'ho allevata come una gallina, e ora non è più un'aquila. È diventata una gallina come le altre, nonostante le ali larghe quasi tre metri.»

«No», obiettò il naturalista. « È e sarà sempre un'aquila.  Perché ha un cuore d'aquila, un cuore che un giorno la farà volare verso le vette.»

«No, no», insistette il contadino. « È diventata una gallina e non volerà mai come un'aquila.»

Allora decisero di fare una prova.  Il naturalista prese l'animale, lo sollevò ben in alto e sfidandolo gli disse: «Dimostra che sei davvero un'aquila, dimostra che appartieni al cielo e non alla terra, apri le tue ali e vola!»

LÂ’aquila, appollaiata sul braccio teso del naturalista, si guardava distrattamente intorno.  Vide le galline là, in basso, intente a razzolare dei chicchi.  E saltò vicino a loro.

Il contadino commentò: «Te l'avevo detto, è diventata una semplice gallina!»

«No», insistette di nuovo il naturalista. « È un'aquila. E un'aquila sarà sempre un'aquila.  Proviamo di nuovo domani.»

Il giorno dopo, il naturalista salì con il rapace sul tetto della casa.  Gli sussurrò: «Aquila, ricorda quello che sei, apri le tue ali e vola!»

Invece l'aquila, scorgendo in basso le galline razzolare il terreno, spiccò un balzo e andò a unirsi a loro.

Il contadino sorrise e tornò alla carica: «Te l'avevo detto, è diventata una gallina!»

«No», rispose deciso il naturalista. « È un'aquila, avrà sempre un cuore d'aquila.  Proviamo ancora una volta.  Domani la farò volare.»

Il giorno dopo, il naturalista e il contadino si alzarono molto presto.  Presero l'aquila, la portarono fuori città, lontano dalle case degli uomini, in cima a una montagna.  Il sole nascente dorava i picchi delle montagne.

Con un gesto deciso, il naturalista sollevò verso l'alto il rapace e gli ordinò: «Dimostra che seiun'aquila, dimostra che appartieni al cielo e non alla terra, apri le tue ali e vola!»

LÂ’aquila si guardò intorno.  Tremava come se sperimentasse una nuova vita.  Ma non volò.  Allora il naturalista la tenne ben ferma, puntata proprio nella direzione del sole, in modo che i suoi occhi potessero riempirsi del fulgore solare e della vastità dell'orizzonte.

In quel momento, lei apri le sue potenti ali, gracchiò con il tipico kau-kaii delle aquile e si alzò, sovrana, al di sopra di se stessa.  Iniziò a volare, a volare verso l'alto, a volare sempre più in alto.  Volò... volò... fino a confondersi con l'azzurro del cielo...

 

 

 

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