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Cosa spinge un giovane a vivere un'esperienza di missione? Come si vive il ritorno a casa? Cosa rimane dentro?

Il cuore conserva ciò che l'occhio ha visto

Resoconto di Elena Ovidi del GIM2 sulla serata dedicata a racconti di missione di quattro giovani

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Questo il titolo scelto da Federica, Marta, Benedetta, Giulia e Matteo per provare a raccontare cos’hanno visto e cos’è rimasto nel loro cuore dalle esperienze di missione che hanno vissuto in Brasile, in Cile, in Perù e in Albania.

A spingerli a partire è stato il desiderio di mettersi in gioco in una realtà diversa e sconosciuta, di scoprirsi e scoprire, potersi sporcare le mani ed essere a servizio 24 ore al giorno. Spiegando le loro motivazioni e i vari fattori che hanno concorso alla “partenza”, tutti riconoscono che è stata un dono, un’occasione arrivata al momento giusto.

Dai loro racconti, dalle foto e dai video che hanno mostrato, emerge più di tutto la bellezza e la fatica delle relazioni con le persone che hanno incontrato e che piano piano sono diventate parte della loro vita. Tanto che nel parlarne usano spesso l’aggettivo possessivo: “la mia famiglia”, “i miei bambini”.

L’aspetto della relazione e dell’incontro è centrale nell’esperienza di missione, tanto da essere una delle parole chiave che si portano a casa, insieme a empatia, solidarietà e speranza. Costruire e coltivare relazioni costa fatica: tutti hanno dovuto sperimentare la difficoltà di entrare in una cultura diversa per abitudini e mentalità. In Albania, per esempio, le donne non possono uscire da sole mentre in America Latina bisogna fare i conti con una violenza domestica molto diffusa e a una diversa impostazione delle relazioni familiari.

Per imparare a comunicare non è sufficiente imparare una nuova lingua (già di per sé un bell’impegno!), ma è necessario costruire giorno dopo giorno canali di comunicazione per imparare e ascoltare il linguaggio diverso della realtà in cui ci si trova immersi. Federica, ad esempio, lavorava in una scuola di bambini sordomuti in Brasile, mentre Marta in Cile ha seguito una bambina autistica che spesso si esprimeva attraverso l’aggressività.

Soprattutto all’inizio è stata dura dover imparare a comunicare, a gestire gli imprevisti e a lasciarsi sconvolgere le giornate e i programmi da ciò che via via si presentava, accettare di non poter capire e risolvere tutto. Ma, come ricorda Giulia, “la vita inizia dove la tua zona di comfort finisce!”. Così, hanno effettivamente potuto “scoprirsi e scoprire”, hanno imparato che la fragilità non è solo un limite, ma può aiutare a essere più vicino e avvicinabile agli altri, a capirli nelle loro difficoltà.

Si è, inoltre, scardinata l’idea di missione con cui erano partiti. Infatti, “missione non è salvare gli altri, ma essere compagni di viaggio”, e cercare di farlo con la logica della non violenza, intesa come capacità di ascolto, mediazione e presenza, scegliendo di stare accanto. Anche se costa fatica, è questo stile che fa la differenza, perché, come ricordava Marta, “anche se non posso salvarti, non ti lascio solo!”.

Grazie a questo stile, dalle difficoltà iniziali è germogliata bellezza, sperimentata nel sentirsi profondamente accolti e ospitati, anche da chi non ha niente, nell’incontro con il piccolo che disarma, interroga e riempie, nel lasciarsi contagiare da quella spontaneità e semplicità di vita, che hanno tanto da insegnarci. Anche la vita dei poveri “lì” ha qualcosa di diverso, è vissuta con più fiducia, dignità e solidarietà, essendo una condizione comune e non di minoranze. Sembra, quindi, meglio parlare di impoveriti piuttosto che di poveri, anche perché ciò che rende povero veramente è la solitudine, la mancanza di relazione, cura e attenzione.

Federica, Marta, Benedetta, Giulia e Matteo sono quindi tornati arricchiti, avendo maturato più forza, capacità di adattamento e tranquillità di vita. Dalle loro parole e dai racconti emerge la certezza di aver trovato un tesoro prezioso, che è capace di cambiare la vita. Perché il cuore si è allargato, lo sguardo sulla nostra realtà è diverso, ci si accorge improvvisamente che qui si corre sempre, c’è meno semplicità e meno umanità.

E, confrontandosi con domande profonde, si è anche acquisita maggiore consapevolezza di ciò che conta davvero... così sia i nostri giovani missionari, sia noi, contagiati dalle loro testimonianza, siamo pronti a vivere la missione anche da qui, cominciando a cambiare noi stessi!

Buona missione a tutti!

Elena Ovidi

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