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LETTERA AGLI AMICI

Korogocho, 26/8/2000

Kajado, 6/6 – Korogocho, 26/8/2000

(non per la pubblicazione)

 Lettera agli amici

 Carissimi,

da questo eremo delle Piccole Sorelle di Gesù, da questa terra arida, il Masailand, dove la fame e la siccità sono così evidenti, da Kajado, jambo ! Una settima di preghiera insieme col compagno di viaggio Antonio, mi ha permesso di “fare memoria” di questo primo scorcio di anno giubilare dentro i sotterranei della vita e della storia, ma soprattutto di assaporare la densità del presente (secondo la felice espressione di Gutierrez), nonostante le fitte tenebre che ci avvolgono. Mistero che mi è rivelato ogni giorno sui volti dei crocefissi di Korogocho. “Il luogo del teologale è l’antropologale – dice il teologo francese Chauvet – Ciò che è più spirituale si dona in ciò che è più corporale”.

Dopo un anno duro come la pietra (il ’99!) il dono di un anno giubilare. Parola potente questa del Giubileo: parola che sgretola ogni società umana che tende per natura sua a strutturarsi nella disuguaglianza. Israele era nata all’ombra dei grandi Imperi e delle città – stato, come società alternativa, come espressione del “Gran Sogno di Dio” (Salmo 104). Un Sogno che postula come base un’economia di uguaglianza che può essere realizzata solo da una politica di giustizia. Questo però, può avvenire solo se un popolo è mosso dalla fede in un Dio che è il Dio dei poveri, degli oppressi, delle vittime del Sistema. Israele comprese ben presto quanto fosse difficile da realizzare quel Sogno e inventò le istituzioni legali per favorirlo: il sabato (il settimo giorno!), i sette anni di sabati, poi il numero perfetto: “sette volte sette anni”… “queste sette settimane di anni si assommano a 49 anni” (Lev. 25,8).

Sono istituzioni che esprimono tutta la passione di Dio per l’uguaglianza! Se un povero perde la sua terra, gli venga restituita, se la libertà, ritorni libero… “Globalmente queste disposizioni giubilari contengono elementi essenziali dell’alleanza – dice un documento del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Periodicamente si dovevano correggere l’ingiustizia, l’esclusione, l’asservimento inevitabilmente prodotti dalla distorsione delle strutture sociali ed economiche. Il Giubileo doveva spezzare il ciclo della dominazione e della dipendenza! Per questo “al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba (jobel) dell’acclamazione…Dichiarerete santo il 50° anno e proclamerete la liberazione per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo: ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia” (Lev.25, 9 – 10).

Nel cuore della notte di Natale, quel corno è risuonato anche a Korogocho proclamando “l’anno di grazia” che Gesù aveva proclamato a Nazareth. Una lunga veglia quella di Natale, attorno al grande fuoco (è Pasqua!) attendendo l’alba, la Luce. Perno di quella celebrazione sono gli oltre 200 ragazzi di strada invitati per l’occasione. Non sono stati facili da gestire (non sono certo avvezzi a celebrazioni liturgiche!) eppure sono stati un segno grande. Erano loro il volto di quel Bimbo che ci è nato, fuori le mura. Accogliere quei ragazzini è accogliere quel Bimbo. Due centri (Boma Rescue Center e Korogocho Strett Children Program) accolgono per qualche ora al giorno questi ragazzi dove possono trovare, “amore, dignità, speranza”! In questa notte, illuminata dal grande fuoco, sono il volto di quel Bimbo. “E la Parola si fece carne”. E la tocco con mano accarezzando i volti di questi bimbi, dei malati di aids… è la carne del Dio vivente. Carne martoriata, carne scarnificata, carne crocifissa… “Ciò che era fin da principio, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita” (1 Gio. 1,1). Il Dio che ha preso carne in Gesù è un Dio parziale, è il Dio delle vittime del sistema. È un Dio che non può accettare un mondo così assurdo come quello attuale. È quello che Sobrino, teologo della liberazione, chiama “the partisan quality of his humanity” (l’umanità di Gesù è di parte, ha fatto una precisa scelta di campo).

È questo il nostro Natale: un Dio che ha preso carne nella carne crocifissa dei poveri, degli oppressi. Stessa profonda sensazione celebrando la liturgia natalizia del giorno, guidata dalla Piccola Comunità dell’Ujamaa (composta di ciechi, storpi, lebbrosi, tutti tanzaniani che vivono elemosinando al centro della città). Mi è bastato vedere i loro volti raggianti durante l’eucarestia per assaporare la gioia natalizia dei poveri. È una comunità straordinaria questa dell’Ujamaa: hanno una capacità di amare, di sorridere, di cantare canti nella loro lingua sukuma, così malinconici, ma così carichi di speranza. Korogocho è davvero un Presepe vivente. E quel Bimbo che nasce si trova qui a suo agio. “Yesu ni mjinga – afferma Nyoro della Piccola Comunità del Mukuru – commentando il Vangelo di Natale. Amekuja kwa sisi wajinga” (“Gesù è un pirla ed è venuto per noi pirla che siamo!”). E con lo stesso spirito che abbiamo celebrato l’arrivo del Millennio, l’anno giubilare, vegliando nella notte, camminando per oltre 4 ore per i gironi infernali di Korogocho, aspettando l’alba, la Luce del nuovo anno. Buone nuove per i poveri?

All’indomani, il 2 gennaio, festa dell’Epifania, festa dei bimbi. (le mamme porteranno i loro neonati per la solenne benedizione). Dopo il Vangelo (i Magi), tre bimbi di strada vengono all’altare cantando:

Sisi ndio mamajuzi

Tumekuja kumwona mtoto Yesu

(Siamo noi i Magi,

 vogliamo vedere il bimbo Gesù).

La prima è una ragazzina: “Mi chiamo Wairimu – dice rivolgendosi all’assemblea -. Prima rubavo, dormivo in discarica… Ora ho deciso di cambiare vita”. E depone il suo dono, oro, davanti a Gesù. “Io derubavo gli ubriachi – dice Mburu – Poi andavo a comprarmi la colla per sniffare e anche la droga. Ora ho lasciato tutto questo. Oggi profumo come mirra”. E depone il suo dono. La terza è una bimba. “Mi chiamo Catherine. Andavo a raccogliere rifiuti in discarica per comprarmi la colla. Ma dopo aver scoperto Gesù, ho cambiato la vita che ora profuma come incenso”. E lo depone davanti al presepio. Poi è il turno delle ragazze madri venute per la benedizione dei loro bimbi. “La mia vita è stata poco di buono. Quando mi sono accorta di essere incinta – dice Atieno all’assemblea – avevo subito pensato di abortire. Ma alcuni amici mi hanno aiutato a ripensarci. Alla fine ho deciso di tenermelo. Si chiama Padre Arcadio! Sono così fiera ora di questo bimbo!”. E lo mostra con gioia grande all’assemblea. Lo stesso fa un’altra ragazzina splendida dell’Udada, Milka, che ha fatto un cambiamento di 360 gradi. È festa, festa di volti, di bimbi…

“Entrati nella casa, videro il bimbo con Maria sua madre…”. Festa del Bimbo! L’incontro quella sera per strada… “Alex prega per me! – mi dice uno scugnizzo nella notte offrendomi la bottiglietta con la colla – Prendila, Alex! Bruciala! Prega su di me perché il signore mi dia la forza di smettere di sniffare”. Gli imponiamo le mani e preghiamo su di lui. (Era la prima volta che un bimbo di strada mi offriva spontaneamente la boccetta della colla!) sono questi i doni del Natale! Così differenti dai nostri doni, dai nostri alberi di Natale così carichi…di tante cose. “Noi americani – mi diceva un visitatore Usa – assomigliamo a degli ambulanti alberi di Natale. Quando veniamo a Korogocho è così naturale che i poveri allunghino le mani…” Alberi carichi, uomini vuoti… Ma una cosa è sicura: la celebrazione del Natale con i poveri mi ha ridato una forte carica per riprendere a tessere le fila della resistenza dentro e fuori Korogocho. Le fila del coordinamento delle oltre 100 baraccopoli di Nairobi. I primi mesi dell’anno infatti mi hanno visto impegnato a ricostruire il Muungano Ya Wanavijiji (coordinamenti delle baraccopoli). L’anno scorso sembrava che tutto si fosse fermato. Invece lentamente tramite il Land Caucus (un piccolo gruppo di attivisti sul problema della terra che si ritrovano una volta al mese), tramite persone-chiave come l’avvocatessa americana Christine Bodowes (missionaria laica di Mariknoll) e l’avvocatessa keniana Jane Weru (direttrice del Centro di Aiuto Legale per i poveri), tramite la creazione del Pamoja Trust (un’istituzione legalmente riconosciuta che fa da ombrello al movimento per la terra), tramite persone dedicate ad organizzare i baraccati come A’pyo, Schola, Gitau, siamo riusciti a rilanciare il movimento che è diventato la “campagna per la terra”.

Una campagna morale che vuol porre a tutti gli abitanti di Nairobi una sola domanda: è morale che il 60% della popolazione di Nairobi sia costretta a vivere nell’1,5% della terra totale di Nairobi? È giusto che oltre due milioni di cittadini siano costretti a vivere nell’1,5% della terra e neanche quella infima parte su cui vivono non appartenga ai baraccati, ma al governo? È morale che così tanta gente sia costretta a vivere peggio degli animali, davanti ad una ostentazione di ricchezza e di opulenza da fare invidia agli svizzeri? Noi chiediamo che tutti i cittadini di Nairobi rispondano a queste domande fondamentali. Nel frattempo i baraccati sono venuti organizzandosi sulla base di 9 circoscrizioni politiche di Nairobi. È stato un lavoro duro, ma denso di significato. Si tratta infatti di trasformare oltre 2 milioni di baraccati in un soggetto politico.

Lentamente i baraccati di Nairobi hanno scritto il loro manifesto che così suona: “Noi baraccati di Nairobi proclamiamo:

1)      è ora il tempo dell’azione. Siamo vissuti troppo a lungo come rifugiati nella nostra stessa patria. Vogliamo oggi riaffermare la nostra umanità calpestata.

2)      È immorale che il 55% della popolazione di Nairobi sia costretta a vivere nell’1,5% della terra totale di questa città.

3)      Come baraccati, solennemente e pubblicamente, affermiamo che la terra dove viviamo ci appartiene e che non la lasceremo più. Ci rifiutiamo di vivere come rifugiati nella nostra nazione, senza un luogo dove vivere, crescere e prosperare. Noi siamo cittadini di questa bellissima terra e non vogliamo viverci da vagabondi.

4)      Noi condanniamo tutti coloro che si appropriano illegalmente della terra, siano essi uomini del governo o speculatori, come nemici dei poveri e del popolo keniano.

5)      La terra deve diventare parte integrante del processo di riforma costituzionale in atto in questo paese.

6)      I baraccati vogliono affermare apertamente e unitariamente la loro umanità (utu), il loro diritto ad essere considerati uomini.

Così suona il Manifesto della campagna per la terra, nato dai bassifondi della storia, ma carico di tanta speranza e voglia di vivere. È stato in questo spirito di impegno, di lotta, di giubileo, di esodo, che ci siamo preparati a celebrare la Pasqua. È stata la più forte quaresima che ho vissuto a Korogocho, ritmata, ogni venerdì, dalla Via Crucis, celebrata nelle vie di Korogocho. Che potenti queste Via Crucis vissute nelle strade dove Cristo oggi è crocefisso nella carne dei poveri. Noi celebriamo la Via Crucis della nostra gente. Via Crucis di Sarah Wangu, la responsabile della Cooperativa della discarica. Una donna eccezionale che era riuscita ad uscire dalle macerie della sua vita per ricostruirla insieme alla gente della discarica, della sua piccola comunità. Per questo era stata scelta per a rappresentare le donne di Nairobi in occasione di un incontro in India. Durante la sua assenza, per invidia, le hanno bruciato la sua baracca. Col cuore a pezzi, malata anche lei di aids, ha tentato di ricostruire e proseguire, ma dopo vari attentati notturni alla sua baracca, è stata costretta a nascondersi in un’altra baraccopoli, dove nel giro di pochi mesi, l’aids ha avuto la meglio. Quando l’abbraciai, mentre la mettevano in macchina diretta in ospedale (il suo corpo era tutto una piaga!) mi disse con una vocina e il pollice alzato: “Tutashinda!” (Vinceremo). “Tutashinda!” le risposi con le lacrime agli occhi: una grande, piccola donna nell’inferno di Korogocho. L’abbiamo ricordata così nella nostra Via Crucis… che è sfociata poi in quella gioiosa processione delle Palme… sempre per strada… dove i poveri di Korogocho hanno accolto il loro Messia povero, il Messia dei poveri, la loro speranza… e poi in quella notte di Pasqua dove con gli ultimi ho sperimentato il soffio della vita in questo “cantone dei morti”.

Nella notte di Pasqua le 36 Piccole comunità cristiane, si sono date appuntamento nel cortile di St.John’s per la solenne veglia pasquale. In silenzio profondo abbiamo toccato con mano la notte di Korogocho, l’oscurità che ci avvolge, esemplificata nel racconto – memoria di una donna, Wanjiku, che aveva vissuto la sua passione, pochi giorni prima, proprio a pochi passi da lì.

Wanjiku, mamma di quattro figli, aveva avuto un alterco con il proprietario di un bar, dal quale era stata poi aggredita e ferita. Wanjiku era andata di notte a fare l’esposto alla polizia. Il proprietario aveva subito assoldato 5 malviventi (dando loro 10.000 scellini keniani) che presero la donna, all’uscita dalla polizia e la trascinarono in una baracca, dove per 2 giorno la violentarono in continuità e la picchiarono a sangue. La notte del terzo giorno, la trascinarono davanti allo stagno che chiude Korogocho (una vecchia cava piena d’acqua!), la violentarono a più riprese e poi la fecero a pezzi con un machete e la buttarono nello stagno. Uno dei tanti episodi di violenza soprattutto sulle donne che fanno la “notte” di Korogocho. In questa notte dei poveri, in questa oscurità della violenza sul corpo di una donna, di tante donne, in questa notte dell’Africa dilaniata da conflitti insanabili… un grande fuoco, che sprigiona una luce intensa, squarcia la notte di Korogocho. E la gente balla, canta, fa festa… Le differenti etnie si danno il turno per danzare intorno al fuoco… c’è speranza che viene dal basso. In questa notte, la speranza è personificata da un uomo, Daniel Kiule che è venuto da lontano, da Thika, a portare la sua testimonianza… è il capo carismatico del maggior sindacato dei lavoratori della Del Monte (2000 iscritti), la grande azienda che coltiva gli ananas. “Lavoro per la Del Monte – dice con voce chiara -. È da anni che mi batto per i diritti dei lavoratori della Del Monte, violati così clamorosamente. L’anno scorso con l’appoggio del Centro Nuovo Modello di sviluppo (Gesualdi) e dalla Commissione keniana per i diritti umani (Willi Motunga) abbiamo lanciato una campagna di boicottaggio contro i prodotti della Del Monte finché non offra un migliore trattamento ai propri operai (su 6.000 operai, quasi 4.000 sono stagionali, pagati con salari da fame). È stata una lotta dura contro il potere economico. Sono stato minacciato di licenziamento. Sono vissuto con la paura di essere arrestato, torturato e ucciso. Ma ho tenuto duro. Hanno cercato di comperarmi offrendomi una bella villa a Nairobi. Ma sono rimasto fedele a Dio e alla mia coscienza. Continuerò a lottare a fianco dei miei compagni”. La gente assiepata nel piccolo anfiteatro di St.John l’ascolta attonita. È ancora possibile che in questo Kenya così corrotto ci siano delle figure pulite come Kiule? E scoppia in un applauso irrefrenabile.

La mia mente corre veloce all’incontro del 19 dicembre dello scorso anno nella sede della Commissione keniana dei diritti umani con la partecipazione dei sindacalisti della Del Monte e di Gesualdi. Ero rimasto così colpito dalla forza di volontà dei sindacalisti di procedere nonostante le minacce ricevute. “Come Commissione keniana per i Diritti umani abbiamo deciso che questo impegni a fianco dei lavoratori della Del Monte sarà il nostro principale lavoro per il 2000 – afferma sobriamente Motunga -. È la prima volta che questa Commissione si impegna per la difesa per i diritti economici dei lavoratori. È un passo storico: finora i diritti umani erano principalmente quelli della classe medio – alta”. Gli risponde Gesualdi: “è un momento importante. È la prima volta, per quanto ne so, che un’organizzazione non governativa del Sud fa propria l’azione di una sua controparte del Nord”. Sono questi i passi, piccoli, ma essenziali, per la liberazione dei poveri. Ne ho provato un’intensa gioia pasquale. Lo stesso senso di Pasqua che ho sperimentato quando sono stato invitato a Thika ad un incontro di migliaia di lavoratori, stipati nel cortile di una scuola elementare. Danzavano, gridavano, cantavano… solidarizzavano con Kiule che era stato nuovamente minacciato. Ho detto che Dio era lì, nella loro lotta… Ho spiegato loro il Giubileo: il grande sogno di Dio! Potente la sensazione di vita, di vittoria, di energia che sentivo dentro… e attorno a me! Dio vuole tirare fuori oggi il suo popolo dall’Egitto. È Pasqua! La pasqua dei lavoratori della Del Monte, la Pasqua di tanta gente che ha risposto così generosamente alla campagna di boicottaggio. (è questo il vero uovo di Pasqua!). Alberi di natale… uova di Pasqua…

E la gente di Korogocho, dopo aver ascoltato Kiule, danza, prega, e passa… dal grande fuoco all’aperto… alla luce del cero pasquale dentro la chiesetta, con la proclamazione del Vangelo di Marco. (“è vivo… vi precede in Galilea…”) e l’esplosione spontanea del Gloria, cantato da una comunità che ha voglia di celebrare la vita nonostante tutta la morte che l’attanaglia. Gioia che riesplode nel battesimo degli adulti, dei giovani, dei ragazzi… è festa di acqua (scorre a St. John’s!), di Spirito… Gente trasformata dalla potenza del Risorto. Mi basta guardare il volto di un uomo, Njeroge, volto pieno di cicatrici ma radianti, come quelle del risorto. Njeroge, battezzato quella notte, dopo tre anni di catecumenato, lascia alle spalle una vita alcolizzato, drogato, non – uomo, per una vita da figlio del Papi! La luce brilla sul volto di Njeroge, ma anche sul volto di tanti altri amici battezzati in questa notte… luce che brilla ormai anche all’orizzonte… La salutiamo con gioia. Una Pasqua che mi ha rincuorato, che mi ha dato lo Spirito del Risorto per continuare a camminare, per credere che anche a Nairobi i poveri potranno cantare vittoria.

L’ho sentito questo con forza quando il 1 luglio, oltre un migliaio di rappresentanti delle oltre 100 baraccopoli della città si sono ritrovati all’Ufungamano House. Una giornata intensa, pasquale, carica di Spirito capace di creare il nuovo dentro la storia. Una solenne processione con le bandiere e scritte ha portato in sala i delegati che hanno deposto sul palco 9 vasi di terra, la terra delle baraccopoli. Poi la torcia che era passata per tutte le baraccopoli nei 9 giorni precedenti il lancio della Campagna, è entrata in sala al grido: “Uhuru!” (Libertà) a cui faceva eco la gente “Ardhi” (Terra). Poi i delegati delle 9 circoscrizioni hanno presentato la situazione nelle loro zone e come si sono organizzati. Ogni rapporto era ritmato da canti, trilli, danze. C’era un’intensa aria di festa. Poi quattro anziani hanno religiosamente mescolato la terra , proveniente da tutte le baraccopoli, per farne un’unica realtà. Un vecchio kikuyu l’ha poi benedetta con una solenne preghiera. Un giovane, Ghitei, ha ricordato a tutti che la lotta di oggi per la terra, ha radici molto antiche in Kenya: la lotta per l’indipendenza fatta dai Mau – Mau era connessa strettamente alla lotta per la terra. Ricordo a tutti che la lotta per la terra è parte essenziale del Sogno di Dio (un’economia di uguaglianza che richiede una politica di giustizia che sottintende un’esperienza religiosa dove Dio è percepito come il Dio dei poveri, degli oppressi).

La terra è parte essenziale del Giubileo. “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia – dice Jahvè al suo popolo nel proclamare il Giubileo – e voi siete forestieri e inquilini”.

Gli anziani depongono sul palmo della mano dei presenti un po’ di terra delle baraccopoli. Con questa terra abbiamo proclamato insieme il Manifesto della Campagna, un’alleanza per la difesa di un diritto fondamentale. Che gioia veder brillare di speranza i volti dei baraccati (Quante tragedie dietro ad ogni volto!). è Pasqua per questa gente, ma una Pasqua che dovrà trovare nuovi Mosè perché diventi vera liberazione. Saprà la Campagna per la terra trovare questi nuovi Mosè per far uscire il popolo dei baraccati dall’Egitto? Il 3 agosto questo movimento riceve un’altra spinta, questa volta dalle forze religiose di Nairobi. È lo stesso vescovo anglicano Gitari a patrocinare l’evento. “Finora – afferma Gitari all’inizio dell’incontro – abbiamo abbinato il Giubileo alla cancellazione del debito, ma oggi proclamiamo che il Giubileo della terra a Nairobi. Da parte mia e della Chiesa anglicana offro un appoggio incondizionato alla campagna per la terra”. I capi religiosi si dicono pronti a portare il Manifesto della Campagna al Presidente Moi. È troppo presto? L’incontro dei rappresentanti delle chiese e delle religioni si chiude con una solenne cerimonia di alleanza (covenant, che nel mondo biblico significa un patto di sangue) fra tutte le forze religiose per far pressione sul governo affinché venga data giustizia ai baraccati di Nairobi.

“Come i nostri antenati hanno rifiutato la schiavitù, il colonialismo – proclamano i rappresentanti religiosi – oggi noi denunciamo un’economia di apartheid che domina la città di Nairobi e vogliamo distruggere il muro di Berlino che divide i ricchi dai poveri…” Parole? Le chiese sono lontane a Nairobi dall’aver assunto le istanze dei poveri! È solo un piccolo, timido passo in avanti.

È questo il processo politico – economico che mi ha visto impegnato in questo periodo anche fuori di Korogocho. Ma ho sempre continuato ad essere presente dentro la drammatica realtà di Korogocho sia a livello comunitario come personale. Dopo un anno disastroso, anche la cooperativa Bega kwa Bega (Spalla a spalla) che raccoglie 6 gruppi di lavoro (Udada, Kindugu, Batik, Ghetto, Mama wa Ciondo, Kochkanga) hanno fatto un notevole passo in avanti (e questo grazie anche alla presenza di Antonio). Nonostante ripetute crisi nei vari gruppi, oggi si può dire che la cooperativa ha incominciato a dimostrare che potrebbe farcela. È una buona notizia!

Altrettanto, dopo un anno (1999) molto difficile, la cooperativa che Mukuru Recycling Centre (Mukuru A, Mukuru B, Makaa e Borea) ha finalmente iniziato a trovare la sua strada unitaria. Che gioia l’averli visti finalmente insieme il 20 agosto scorso! Che bello vedere la seconda comunità (Mukuru B) rinascere, rinserrare le fila, recuperare le persone perdute! (questo grazie anche alla presenza di Gino).

Secondo anno di bilancio positivo anche per la Scuola Informale di St. John’s retta ora dalla comunità che paga il 51% delle spese mentre i ricchi di Nairobi offrono il 49%. Un bell’esempio di scuola autogestita.

Bella anche l’esperienza dell’Hair – dressing (scuola di parrucchiere) dove 60 ragazze di Korogocho ricevono una formazione professionale per acconciature afro. Otto mesi di corso offrono la possibilità di cambiare vita e danno lavoro. Questo grazie alla presenza di suor Marta (comboniana) impegnata a Korogocho nella lotta contro la violenza sulle donne e a favore e della vita. La celebrazione eucaristica, la domenica 13 giugno, animata da queste ragazze, è stata di una rara bellezza: autentica voglia di danzare la vita.

Sento fondamentale questo rimanere radicato con i poveri, con gli ultimi, non solo come comunità (le 36 piccole comunità) o i loro ministeri (huduma), ma soprattutto con le persone, con le loro storie e tragedie, con i volti… I volti! Il volto di Omari, una ragazzina con due bimbi che mi è capitata un giorno in baracca… - “Come ti chiami?” – “Non lo so” mi rispose. – “Come non lo sai!” – “Mi chiamano Omari” mi fa. – “Come, ti chiamano? Ma a che etnia appartieni?” – “Non lo so. Non so chi siano i miei genitori! Mi sono trovata a 3 – 4 anni a girare per le strade di Nairobi. I ragazzi mi chiamavano Omari. Sono vissuta per 7 – 8 anni nella zona industriale di Nairobi. Sono stata un giorno violentata ed ecco il mi primo bimbo. Poi qualche anno dopo sono stata violentata di nuovo ed ecco il mio secondo figlio. Allora sono fuggita dalla città e mi sono rifugiata nella discarica cercando di sopravvivere raccogliendo rifiuti, ma sono stata cacciata perché non ero dei loro. E sono venuta a Korogocho. Non ho casa. Sono vissuta mangiando frutta scartata e dormendo con i miei due bimbi sotto le bancarelle del mercato Njinga. Ora non ce la faccio più. Aiutami!”. L’ho invitata a cercare un po’ di lavoro nella Piccola Comunità della discarica… Così fece e riuscì anche a pagarsi l’affitto di una baracca… Poi scomparve. Me la vidi ritornare alcuni giorni fa con 3 bambini. “Ma chi è questa bimba più grande che hai con te?” le chiesi. “L’ho incontrata per caso un giorno in città. È una ragazza di strada come me. Mi ha chiesto se potevo accoglierla… Le ho detto di sì e così è ora con me! Il Signore provvederà!”.

I poveri sono grandi maestri di vita e vangelo! Volti… Soprattutto di malati di aids… Suor Gill che ha iniziato un programma di assistenza segue quasi 800 malati… Sembra che almeno il 50% della gente di Korogocho sia sieropositiva. È una tragedia immensa quella dell’aids in Africa. La conferenza di Durban (Sudafrica), tenutasi agli inizi di luglio, ne ha rivelato tutta la drammaticità. “L’epidemia dell’aids è la peggior catastrofe sociale dopo lo schiavismo – ha affermato la conferenza – è la più seria malattia infettiva di tutta la storia umana”. E il continente più minacciato è l’Africa. Dei 34 milioni di malati di aids, 24 milioni sono in Africa. In Kenya ogni giorno muoiono 500 persone di aids. Il Kenya è al 5° posto nella classifica mondiale. Le conseguenze sono devastanti. In Uganda i morti di aids hanno già lasciato un milione e mezzo di orfani. E tutto questo avviene in un continente dove almeno 300 milioni di persone sopravvivono con meno di 1 un dollaro al giorno! I poveri non possono permettersi il lusso delle medicine anti – aids che i ricchi usano! È questa l’ingiustizia profonda (che fa un male boia!) che si sperimenta a Korogocho. Solo i ricchi possono sopravvivere con l’aids, i poveri sono condannati a morire. È stato questo il lavoro splendido di padre Arcadio Sicher, francescano, che per due anni ha assistito i nostri malati. È stato un dono grande per noi e per la gente. Un autentico Francesco d’Assisi. Ci ha lasciato a giugno per Accra, capitale del Ghana, per inserirsi nelle baraccopoli di quella capitale ed essere a fianco dei malati. (Spero solo che i francescani finalmente accettino questo suo tipo di presenza!). Continuiamo ora meglio che possiamo insieme alle Piccole comunità cristiane questo servizio ai malati. (Gino invece si è impegnato a fondo per creare coscienza tra i giovani sul pericolo dell’aids: è un lavoro splendido).

È un servizio che ti spezza il cuore (le immense tragedie che vedi!) ma anche che ti spalanca le porte del Mistero. Le grida, le urla della sofferenza, ma anche la serenità e dignità dei volti! È il mistero dei volti! Il volto di Beth, di Nduko, di Kamau… Immense tragedie… Vita che sgorga! Come quella di Anyango, quando, dopo lunghi anni venne da me. L’avevo conosciuta come una bellissima ragazza, alta, slanciata… Ora arriva distrutta dall’aids. Non riesce a reggersi in piedi. Si mette sdraiata sulla panca. – “Ti preparo qualcosa da mangiare” le dico. – “Grazie, sono proprio affamata”. Poi mi siede accanto e le tengo la sua testolina fra le mani… e le sgorga spontanea la confessione della sua vita bruciata. Sono fiotti di sangue, sono brandelli di vita… “Queste mie mani che ti stringono la testa, sono le mai tenere del Papi – le dico mentre l’assolvo dai suoi peccati – , un Papi che ti vuole un bene immenso. È il segno del suo amore, della sua accoglienza, e del suo perdono. Alzati e cammina”. Sorreggendola l’accompagno a tavola e mangiamo un boccone. Mi veniva spontaneo ricordare le parole del poeta peruviano Vallejo che parla così del suo popolo

“Nacqui un giorno che Dio era malato,

malato grave…

E Dio bruscamente ci schiaccia

il polso, grave, muto,

e come un padre alla sua piccola,

un tantino,

un tantino appena, scosta le garze insanguinate

e tra le sue dita perde la speranza”.

È quanto sto facendo con Anyango, con tutti i malati di Korogocho. Gli interrogativi su Dio diventano sempre più forti. “Ho abbandonato l’idea del Dio Onnipotente, della mia fede sicura, per ritrovare il Dio che condivide la passione dell’umanità, in seno alla quale rimane il Vivente, colui nel quale ripongo la mia fiducia. Sin da ora egli mi invita a inserire la vita là dove si trova la morte”. Sono parole del teologo francese B.Rey.

Parole confermate dal diario che ci ha lasciato una ragazza ebrea, Etty Hillesum, cremata ad Auschwitz: “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi… Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica cosa che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi, mio Dio. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa fare molto per cambiare le circostanze attuali, ma anche esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendendo fino all’ultimo la tua casa in noi”.

Questo è anche il mio pellegrinaggio giubilare di fede sulle strade dei poveri. E sento proprio che questo mio Papi – mamma guarirà quando noi guariremo. Sarà questo l’unico vero Giubileo. Ne è testimone questa stupenda stella, la Croce del Sud, che mi ha accompagnato luminosa e chiara, in queste drammatiche notti di Korogocho. Ora la s’intravede appena appena all’orizzonte, ma eè sempre lì, luminosa e splendida, la Croce del Sud.

 

Sijambo

 

Alex

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