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Nel mutare dei tempi e delle circostanze, il fratello comboniano mantiene alcune caratteristiche di fondo: vicinanza agli ultimi, professionalità e creatività nel lavoro. E l’impegno per la trasformazione sociale è la sfida di oggi.

Fratelli comboniani / Artigiani della missione

Il vangelo della prossimità. Riflessione di Fr. Alberto Parise

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Il contributo dei fratelli comboniani (consacrati alla missione, ma non sacerdoti) nella storia dell’istituto si modifica con l’evolversi della missione lungo il corso degli ultimi 150 anni. Al tempo di Comboni, i fratelli erano numerosi quanto i preti e svolgevano un ruolo di pionieri nella fondazione delle stazioni missionarie. Le loro abilità pratiche e conoscenze tecniche erano indispensabili anche per curare la logistica in territori ancora sconosciuti, con un clima estremo e condizioni di vita proibitive. Comboni riteneva che i fratelli artigiani giovassero al ministero missionario più dei sacerdoti, in quanto le popolazioni africane venivano a contatto facilmente con i fratelli, i quali attraverso questa condivisione di vita potevano comunicare il vangelo più efficacemente. Questo è il cuore della vocazione del fratello secondo Comboni: la vicinanza alla gente, lo stare assieme in solidarietà e fraternità, e testimoniare Gesù con la vita, il lavoro e la parola. Al periodo pionieristico ha fatto seguito il bisogno di fondare una Chiesa in cui gli africani fossero i protagonisti della missione. Questo significava aiutare la gente a crescere e a ottenere migliori condizioni di vita attraverso l’istruzione, sviluppando mestieri e attività per il bene sociale. I fratelli si sono quindi spesi nella costruzione di scuole e centri di assistenza medica, oltre che in progetti per la sovranità alimentare e per la promozione di arti e mestieri. Con le indipendenze dal colonialismo europeo e le spinte per uno sviluppo umano integrale, il fratello si è trovato ad affrontare una doppia sfida: professionalizzare sempre più il proprio servizio e coltivare la tensione verso una società più giusta, riconciliata, che promuove la pace. I cambiamenti epocali richiedono un continuo riposizionamento dei missionari e del loro servizio di evangelizzazione, ma alcune caratteristiche essenziali rimangono immutate nonostante la varietà di servizi per l’evangelizzazione. Per esempio, mi ha sempre colpito l’etica e l’estetica del lavoro nella storia dei fratelli comboniani. Venendo dagli studi di architettura, mi impressionava il loro lavoro di costruzione, con mezzi esigui, in situazioni precarie, senza poter contare su personale specializzato e su materiali di alta qualità. Avevano, però, creatività e soprattutto stavano con le persone, con le comunità con le quali costruivano, formando artigiani e sistemi produttivi. Hanno dato così vita a opere corali, guidate con ingegno, maestria e fede. Dei fratelli che ho conosciuto, mi ha colpito la gioia del vangelo che li animava, la consapevolezza di appartenere a una missione più grande di loro e il senso di gratitudine per aver potuto contribuirvi con tutta la propria vita. Dunque le loro opere sono significative non tanto per la forma o lo “stile” quanto perché lasciano trasparire la bellezza dell’incontro, del cammino condiviso con la comunità locale, della solidarietà e della fraternità.  

 

Condivisione

Ho avuto la fortuna di partecipare in prima persona a un processo di condivisione a Kariobangi (Nairobi), in una missione in cui la gente si stava interrogando sul significato del giubileo del 2000. Mi era stato chiesto di accompagnare un processo comunitario per discernere cosa la comunità cristiana fosse chiamata a intraprendere per vivere il giubileo. Abbiamo condotto prima un’analisi sociale sulla realtà locale che ha portato a identificare nei bambini abbandonati che vivevano sulle strade il gruppo più bisognoso con cui lavorare. Non si trattava di fare un progetto, ma di trasformare la relazione tra questi bambini e la comunità, coinvolgendoci tutti nella loro cura. Ogni piccola comunità cristiana (gruppi di vicinato, allora ce n’erano 76 nella missione) andò a incontrare i bambini sulle strade, a parlare con loro, ad ascoltarli, a cercare di capire come vivevano e come si sentivano, e individuare i loro bisogni e aspirazioni. Da quell’esercizio nacque la proposta di cominciare una scuola comunitaria. Abbiamo così fatto un cammino di progettazione partecipata, sia della struttura della scuola sia della cura educativa e sociale, con servizi di sostegno ai tutori dei bambini orfani, un programma nutrizionale e di assistenza sanitaria. Come fratello comboniano, questa è stata un’esperienza che mi ha insegnato a coniugare professione e ministero sociale. Ma era solo l’inizio di un cammino, per me, di riqualificazione in risposta alla profonda trasformazione in atto in Kenya a cavallo del nuovo millennio. Un piccolo laboratorio dei grandi processi di trasformazione del continente, sotto la spinta delle forze della globalizzazione e dell’economia neo-liberista. Nelle baraccopoli di Nairobi, funzionali a un sistema economico che arricchisce alcuni e impoverisce i più, la gente non trova opportunità per una vita dignitosa. Disoccupazione, insicurezza e violenza, negazione di fatto dei diritti socio-economici, precarietà delle condizioni di vita, degrado ambientale e corruzione si combinano e formano un sistema di esclusione sociale. L’architetto statunitense Louis Kahn (1901-1974) vedeva l’architettura come la «creazione ponderata di spazi». Nel contesto dei cambiamenti sociali che ho vissuto in Kenya, ho maturato la convinzione che la missione ha bisogno di un’“architettura” specifica: quella che progetta spazi di riconciliazione, di fraternità, di trasformazione sociale. Spazi costruiti non con le bellissime pietre blu dalle cave attorno a Nairobi, ma con la presenza discreta che va incontro agli esclusi, con l’accompagnamento di gruppi e comunità per una vita dignitosa e piena di senso. Noi missionari, camminando a fianco degli esclusi, ci mettiamo nelle condizioni di poter cogliere il soffio dello Spirito nella storia e di lasciarci coinvolgere, per scoprire e annunciare la presenza del Risorto che guarisce, trasforma, dona vita in pienezza. Lì, nelle periferie umane ed esistenziali, Dio precede e aspetta la Chiesa.  

 

Spazi di umanizzazione

Come quando, ad esempio, mi son lasciato coinvolgere nel movimento degli abitanti delle baraccopoli che da anni lottano per una dimora decente e una vita dignitosa. Si tratta di persone semplici che ogni giorno si occupano di cose concrete, sul territorio, nel loro quartiere. Esperienze che crescono dal basso, a partire da piccoli gruppi che si collegano, hanno degli scambi, intessono reti di solidarietà, includendo partenariati con istituzioni, società civile, organizzazioni internazionali. Ci vogliono lunghi anni per realizzare questo percorso, che è difficile perché bisogna vivere la tensione tra la congiuntura del momento, con i suoi fallimenti, delusioni, lentezze, e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, del sogno di trasformazione. Non è un cammino facile, in quanto anche la realtà degli ultimi è spesso contraddittoria, conflittuale, ambivalente.   Eppure, è proprio tra di loro che ho incontrato il mistero della “rigenerazione dell’Africa con l’Africa”, come lo chiamava Comboni. Mi ha molto colpito vedere che nei momenti più difficili, in cui c’era tensione, la gente si divideva per paura di perdere il proprio tornaconto, o aveva reazioni violente o prepotenti, i gesti di solidarietà, di cura della fragilità dell’altro, di condivisione ci aiutavano a mantenere viva la nostra umanità e a ricercarla nell’altro. Se i protagonisti della trasformazione sociale sono coloro che soffrono le conseguenze dell’esclusione e della cultura dello scarto, abbiamo sperimentato quanto sia importante il sostegno di un ministero sociale che crei degli spazi di umanizzazione. Anzitutto spazi di accoglienza, di fiducia reciproca, di guarigione delle ferite della vita, attraverso la vicinanza alle persone in difficoltà, l’attenzione ai loro bisogni espressi e inespressi, la cura della spiritualità. Questi sono anche spazi di ascolto e dialogo, di condivisione delle esperienze e del vissuto, a partire da piccoli gruppi, associazioni e comunità di vicinato sul territorio. Poi c’è bisogno anche spazi di solidarietà e rispetto, di incoraggiamento e sostegno, che si formano attraverso iniziative di servizio, a partire dagli ultimi, senza creare dipendenze, promuovendo i bisognosi in modo che possano diventare gli artefici del proprio cammino. In questi anni mi sono reso conto che il ministero del fratello si sta evolvendo, pur rimanendo fedele alla propria identità di sempre, cioè la vicinanza fraterna agli ultimi. Ci stiamo muovendo verso un servizio che richiede équipe ministeriali, composte di diversi ministri, con specifiche competenze e doni personali, che collaborano come squadra. La diversità di competenze aiuta la collaborazione; la diversità di nazionalità e culture all’interno dell’équipe, vissute nella fraternità, sono un ulteriore segno profetico in un mondo sempre più diviso e in conflitto. Questa comunione e solidarietà è ciò che contraddistingue un’équipe pastorale, che non è solo una squadra di lavoro affiatata ed efficiente, ma una fraternità di discepoli-missionari. Non lavora in isolamento, ma è anzitutto inserita e collabora con la Chiesa locale. Va anche oltre, cooperando con varie componenti della società civile per una trasformazione sociale ispirata ai valori del Regno. Queste équipe sono anche chiamate a ripensare le strutture in cui vivono o che amministrano nel loro servizio missionario. Queste infatti possono porre una certa distanza tra i missionari e la gente, o anche semplicemente assorbirli così tanto nell’amministrazione da far perdere il contatto diretto con la gente, la disponibilità a camminare accanto a loro.

 

Fratel Alberto Parise

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