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GESÙ INCONTRA PIETRO: la fragilità e l' 'onnipotenza' del Cristo risorto

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami? ”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene? ”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,15-17).

Cos’è che ci rende umani e ci mantiene umani? Sono le relazioni che intessiamo con i nostri fratelli e sorelle. E così, quando una relazione importante si interrompe in maniera brusca e violenta, per noi è un trauma molto difficile da superare, un trauma che ci lascia ferite aperte. Nel capitolo precedente del Vangelo di Giovanni, il Risorto aveva mostrato tutte le sue piaghe: “mostrò loro le mani e il costato“ (Gv 20,21). E sappiamo che il Crocifisso portava ferite nelle mani ma anche nel cuore, per essersi sentito tradito o abbandonato dai suoi amici.

Come afferma Schreiter, le ferite ci ricordano “quanto facilmente possa essere leso il corpo umano. Ci ricordano che tutti i nostri progetti, personali e sociali, possono facilmente essere scompigliati”. Le nostre ferite ci ricordano che i nostri sogni sono fragili, e che anche le nostre speranze di comunione che a noi sembrano ben fondate in realtà sono esposte all’imprevedibilità della precarietà umana.

Gesù aveva un legame molto speciale con Simone: aveva voluto condividere con lui la luce e la gioia della Trasfigurazione, aveva pianto vicino a lui nel Getsemani, e lo aveva scelto come prima pietra della comunità messianica: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia comunità” (Mt 16,18). Inoltre, era l’unico apostolo cui aveva dato un nome nuovo: “Tu sei Simone… Ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,42). Dare un nome nuovo a una persona era un atto di amore e di fiducia grandissima, come se Gesù gli dicesse: ‘Caro Pietro, d’ora in poi un nuovo orizzonte si apre per la tua vita, e sarà la nostra relazione di amicizia – simboleggiata da questo nuovo nome - a orientare la tua esistenza’. E accettando questo nome, era come se Pietro gli rispondesse: ‘Caro Gesù, mi hai dato un nome nuovo, una vita nuova che mi rende felice. Io l’accetto con gratitudine: sono figlio e amico tuo!’.

Ebbene, proprio Pietro rinnegò Gesù per ben tre volte, affermando: “Non conosco quell’uomo” (Mt 26,27 e Gv 18,17). Il Risorto porta ancora nel cuore la ferita di questo rinnegamento: sentirsi dire ‘Non ho niente a che fare con te’ proprio dall’amico cui aveva dato massima fiducia e in cui aveva posto le più grandi speranze dev’essere stato un dolore straziante per Gesù. E così adesso uno dei principali desideri del Risorto è quello di riallacciare questa relazione spezzata. Quindi, dopo aver mangiato del pesce insieme ai discepoli, il Risorto prende in disparte Pietro e gli domanda: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” (Gv 21,16). Qui Gesù sta dando voce a uno degli interrogativi più profondi e più ‘umani’ del nostro cuore: c’è qualcuno che mi vuole bene? su chi posso davvero contare?

Abbiamo bisogno di saperlo, anche Gesù ha bisogno di saperlo, e con grande coraggio si espone al rischio del rifiuto: “Mi vuoi bene?”. Questa, dunque, è la principale manifestazione dell’umanità di Dio: condivide con noi la fragilità di essere esposto alle ferite.

Ma perché il Risorto vuole sapere se Pietro lo ama? Perché vuole sapere se ha ancora una dimora in cui poter riposare. Vi ricordate dove Gesù aveva detto che avrebbe trovato la sua dimora? “Se uno mi ama… il Padre mio lo amerà e noi… prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Sono le persone che ci amano la nostra dimora. A cosa varrebbe la resurrezione se Dio non potesse contare su qualcuno che gli vuole bene? E così il Crocifisso Risorto, abbandonato da tutti, torna a cercare casa. E la cerca, prima di tutto, nel cuore del suo amato Pietro. Gesù aveva preso dimora in Pietro e negli altri discepoli, e si sentiva abitato da loro: “Io in loro” (Gv 17,23). E’ quel sentirsi reciprocamente abitati che è il dono più bello dell’amicizia e l’anelito più intimo del nostro cuore. Ebbene, Gesù si era sentito rifiutato e rinnegato proprio da chi abitava in lui: una lacerazione intima, profonda… E’ molto triste quando un giorno ti svegli, e d’un tratto ti accorgi che non hai più una dimora: il Risorto è un Dio che al risveglio dalla morte si rende conto di non avere più una dimora, e allora si rimette in cammino alla ricerca di amici… 

 

 

"Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: 'Mi vuoi bene'?" (Gv 21,17). Il fatto che Gesù non sembri soddisfatto delle sue prime risposte e gli faccia per la terza volta la stessa domanda provoca tristezza in Pietro: Cefa percepisce un dubbio e una ferita nel cuore di Gesù, forse per la prima volta riesce a intercettare la profondità del dolore che ha causato al suo amico, e questo lo fa soffrire. E risponde: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).

Molti commentatori dicono che le tre domande di Gesù ricordano i tre rinnegamenti di Pietro. In realtà, non è che Gesù voglia recriminare qualcosa a Pietro ma vuole fargli capire che la fedeltà dell’amore non è scontata né automatica ma è un dono da implorare costantemente. E Pietro risponde con sincerità: ‘Tu sai tutto, Signore, tu conosci tutti i miei limiti e le mie fragilità, e sai che, pur con tutti questi limiti, io ti voglio bene davvero, e non vorrei perdere mai la tua amicizia’. Gesù apprezza la sincerità di Pietro, e gli conferma che vuole continuare a dimorare in lui, e che continua ad avere verso di lui quella stessa speranza e quella stessa fiducia: sarà lui a guidare la comunità messianica: “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,16). Come ogni autentico incontro, anche questo è un incontro nelle ferite: Gesù con la ferita di essere stato rinnegato, e Pietro con la ferita di aver perso la stima di se stesso per aver abbandonato il suo amico. Adesso, nella richiesta di amore di Gesù e nella dichiarazione d’amore di Pietro (‘Sì, ti voglio bene’) queste ferite si incontrano, si abbracciano e si rappacificano.

E’ interessante notare che la Resurrezione non cancella la vulnerabilità. Il Risorto è ancora vulnerabile: sente ancora il bisogno dell’appoggio dei suoi amici ed elemosina affetto, esponendosi ancora al rischio di un possibile rifiuto. In questa vulnerabilità c’è tanta bellezza, come se Gesù stesse dicendo: ’Corro il rischio di essere ancora ferito perché ci tengo troppo alla tua amicizia, caro Pietro! Sì, sono disposto a umiliarmi pur di ridare vita alla nostra relazione’. Insomma, Gesù implora affetto a chi l’ha appena rinnegato, chiede amore a chi ha appena detto di non avere niente a che fare con lui. Sì, si sta ‘umiliando’; ma quanta forza, quanto coraggio, quanta bellezza in questa umiliazione! Non tutti riescono a coglierla; Pietro sì! Solo la vulnerabilità, solo la fragilità può essere veicolo di questa bellezza.

Insomma, dobbiamo rivedere il nostro concetto di onnipotenza divina. Perché il Risorto è un Dio umanamente fragile, ma è davvero onnipotente, solo che lo è in un modo diverso da come lo intendiamo noi. Noi un Dio potente ce lo immaginiamo come un Dio che è in grado, con la forza, di imporre il suo punto di vista, ma questo Dio ‘potente’ non avrebbe il potere di sanare e riconciliare le ferite: solo un Dio umano e fragile ha il potere di abbracciare chi l’ha ferito e di riconciliare il peccatore con se stesso. Quindi la fragilità di Dio in realtà è più potente della ‘potenza’ umana (che spesso segue criteri dis-umani). La Resurrezione, dunque, non cancella il ricordo del dolore ma ha il potere di far respirare la speranza spezzata che si stava soffocando dentro quel dolore, il potere di far risorgere in tutta la sua struggente bellezza quell’antico desiderio di comunione. Chiediamo anche per noi il dono di questa bellezza e di questa fragilità divina, e la grazia di saperlo mettere al servizio della resurrezione dei nostri sogni più profondi: sogni di umanità, di fraternità, di pace e giustizia!

fratel Alberto Degan

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