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LETTERA DA LAMPEDUSA - Laici Comboniani Palermo

“Quello che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv 1,3)

“Quello che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv 1,3)



“I poteri hanno visto nelle isole luoghi di reclusione, hanno piantato prigioni su ogni scoglio, il mare nostro brulica di sbarre. Gli uccelli, invece, vedono nell’isola un punto di appoggio dove fermare e riposare il volo, prima di proseguire oltre. Tra l’immagine di un’isola come recinto chiuso, quella dei poteri e l’immagine degli uccelli, di un’isola come spalla su cui poggiare il volo, hanno ragione gli uccelli”
(Erri De Luca al cimitero di Lampedusa. Tratto da “Che tempo che fa” del 20 maggio 2009)



La nostra presenza a Lampedusa durante l’ultima settimana di marzo e i primi giorni di aprile, ci ha dato la possibilità di ascoltare tante storie, piccole e semplici, a volte diverse da quelle raccontate dai giornali e dalle televisioni. Durante questi giorni, i nostri occhi si sono incrociati con tantissimi sguardi e il nostro cuore ha vissuto emozioni drammatiche, profonde, vere, di disperazione e di rabbia. Per questo, adesso, vogliamo raccontare. Sentiamo, quasi come un bisogno, il desiderio di narrare quello che abbiamo visto e ascoltato, le scene di dolore che hanno riempito di lacrime i nostri occhi; ma anche i segni di vita che hanno alimentato la nostra speranza e i nostri sogni.
Un “grazie” alla comunità di Lampedusa per l’accoglienza e la solidarietà. “Sorpresi nella notte” non si sono lasciati spaventare, ma sono stati capaci di restare svegli e non “addormentarsi” davanti l’assenza e la mancanza di una “volontà” reale di affrontare l’emergenza da parte delle istituzioni. Non si sono arresi alla cultura della paura. Senza tante parole, in un modo bello e creativo, hanno “costruito ponti” e “distrutto muri”. Come in altre occasioni, in una realtà difficile e piena di sofferenza, sono riusciti a mettere insieme forze morali e spirituali, convinzioni e sentimenti che li ha portati a vivere in un modo diverso le risposte ai bisogni.

Molte storie, molti nomi… volti concreti
Le storie ascoltate sull’isola erano fatte di sogni, progetti e aspettative… un po’ come le nostre. Ci siamo incontrati con volti stanchi, affamati, disperati, tristi, anche se nei loro occhi la speranza non era del tutto scomparsa… momenti fugaci di un sogno ancora vivo nel cuore. Nei loro volti ci siamo riconosciuti vicini, diversi e uguali. Se la costruzione di una società accogliente inizia dal coltivare l’attenzione e la sensibilità verso le persone, l’emergenza immigrati a Lampedusa non solo ha seppellito la loro dignità, ma ha eliminato anche ogni possibilità di vivere un’umanità al plurale… una “società altra”.
Come tutti ben sappiamo, sin dal loro arrivo, gli immigrati sono esposti alla stigmatizzazione e al razzismo. La loro condizione d’irregolarità, non scelta ma determinata dalle norme, da tempo è stata trasformata in una categoria quasi ontologica, marchiata con lo stigma di una pericolosità naturale, utilizzata come capro espiatorio cui imputare gli effetti della crisi economica e di ogni genere di contraddizioni che viviamo come italiani. Una realtà così evidente ai nostri occhi, facciamo fatica a riconoscerla come tale giustificandola e mascherandola in tanti modi. Forse perché interroga profondamente le nostre coscienze, fautrici di politiche sociali ed economiche dominate dal neoliberismo (la logica del profitto). Non possiamo nascondere il sole con un dito: i flussi migratori avvengono ancora per sfuggire a situazioni drammatiche dei Paesi di origine - povertà, carestia, fame, guerra, violenza - e oggi gli strumenti di analisi ci fanno capire quanta responsabilità dei governi soprattutto occidentali sta dietro ogni situazione drammatica, ogni condizione inumana. Un sistema che assicura ricchezza, potenza economica e finanziaria a pochi può stare in piedi solo se impoverisce la maggior parte della popolazione mondiale. Quello che cercano sbarcando sulle coste dell’Italia è libertà, dignità, una possibilità di lavoro, così come il rispetto dei propri diritti fondamentali.
In un sistema così fatto sono diventate acquisite, senza provocare nessuna reazione di sdegno, espressioni come “esuberi”, “eccedenze”… riferite a persone o a popoli. Se non saranno respinti, il loro futuro sarà pieno di lavori flessibili, informali, precari, deregolati. Il che può produrre soltanto condizioni di perenne illegalità e incertezza e/o la scelta del definitivo ritorno in patria; o ancora il continuo spostamento, nel corso di tutta la vita, tra un paese e l’altro, una città e l’altra, un lavoro e l’altro.
In tutto questo come dimenticare che dietro chi ce l’ha fatta c’è la scia di cadaveri sepolti nel mare o sotto la terra dei cimiteri di entrambi i lati del canale di Sicilia? Sono loro i nuovi martiri di una storia dove Dio è presente come il Signore della Vita. Che la loro morte ingiusta sia fermento di una società accogliente, giusta e solidale. Nessun muro o frontiera riusciranno a fermarli.
Gli africani continueranno a venire in Europa con tutti i mezzi, anche al prezzo di morire nel deserto o per mare, finché l’equilibrio economico ed ambientale tra Africa e resto del mondo non verrà ristabilito da chi ne è responsabile e cioè dall’Occidente!”. (Mons. W. Avenya. Sinodo Africano, 4-25 Ottobre 2009)

La vergogna e la sconfitta
Per il governo italiano e i politici tutti, Lampedusa è stata, come le tante altre emergenze presenti sul territorio (rifiuti, terremoto in Abruzzo, ecc.) la possibilità di trasformare le tragedie umane in vantaggi personali, economici e politci. Ed è così che s’inaugura l’epoca delle frontiere chiuse e del controllo, della paura dell’invasione e del migrante come nemico, che trovano la loro perfetta sanzione negli accordi di Schengen, i quali realizzano la sovrapposizione politico-amministrativa tra frontiera, crimine e immigrazione, contribuendo in tal modo a incrementare il processo di stigmatizzazione degli stranieri non ricchi, alimentando xenofobia e razzismo. Del resto in Italia l’immigrazione – vecchia ormai di un trentennio – non è ancora riconosciuta come una componente intrinseca e strutturale dell’economia e della società.
Davanti a tutto ciò non possiamo essere indifferenti. Quando la vita umana è in pericolo, siamo chiamati a fare una scelta di parte… dalla parte della vita. Per questo

Gridiamo vergogna:
  • Per l’incapacità da parte delle istituzioni governative di gestire una emergenza umanitaria. Servizi igienico sanitari, alimentazione, luoghi protetti per trascorrere la notte… tutto è mancato, una catastrofe dopo l’altra.
  • Per lo show imbarazzante per i lampedusani del nostro presidente del consiglio sull’isola. Come giullare di corte ha rallegrato per qualche ora l’umore degli isolani con battute, come suo solito, ripugnanti e sensa senso. Riempire di false speranze il cuore di chi aspetta una parola vera è la foto di una politica al servizio del profitto e non della vita.
  • Perché non c’è stata volontà politica di fare le cose per bene. Del resto gli immigrati sono ancora considerati esseri di seconda classe. Gli animali sono trattati molto meglio nelle nostre “case trincerate” perché incapaci di amare e di essere amati.
  • Perché la protezione civile non è stata messa in condizione di agire con le strutture (arrivate a Lampedusa) adeguate all’emergenza (cucine da campo, strutture di prima necessità, ecc.).
  • Perché pur definendoci tolleranti e accoglienti, non appena vediamo intaccati il nostro territorio o i nostri interessi diventiamo violenti, nel linguaggio e nei gesti.
  • Per la mancanza di umanità negli imbarchi degli immigrati sulle navi nei trasferimenti. Trattati come detenuti… scene umilianti e senza un misero “perché”.

Ma Lampedusa rappresenta anche la sconfitta:
  • Ne esce sconfitta la politica dei partiti, troppo occupata nel far quadrare il  proprio “do ut des”.
  • Ne esce sconfitta la burocrazia (prefettura, questura, commissari straordinari….) lenta nei suoi rimbalzi sulle “competenze”.
  • Ne esce sconfitto l’insieme delle varie organizzazioni umanitarie, presenti ma forse, secondo noi, in pochi rispetto al numero di migranti (ad esmpio i mediatori culturali…)
  • Ne esce sconfitta la chiesa ufficiale, al cui silenzio si contrappone il coro di voci della comunità di Lampedusa  pronta ad accogliere, “sfamare, vestire e dar da bere”, nonostante il forte senso di abbandono da tutti sentito e vissuto.

E’ vero! E’ inutile girare intorno alla tragedia con parole più o meno risonanti: abbiamo perso tutti questo appuntamento importante con l’umanità! Questa sconfitta l’abbiamo vista scolpita sui volti dei migranti in lacrime, l’abbiamo letta negli occhi dei ragazzi della base Loran o della casa della fraternità.


Uscire di casa per mettersi nella pelle dell’altro/a

C’è chi dice che il rafforzamento delle frontiere non serve solo ed in primo luogo a fermare i movimenti migratori - i quali di fatto continuano - ma a definire come irregolari i migranti che le attraversano, dando loro un’identità che li pone in una posizione di inferiorità e di mancanza di diritti: un esercito di invisibili ricattabile e sfruttabile (Mons. Antonio M. Vegliò, VIII congresso Eu, Màlaga, aprile-maggio 2010).
L’arrivo di tanti nostri fratelli non può non interrogarci... sul banco degli imputati siede il nostro stile di vita e le politiche portate avanti da tanti anni dai nostri governi verso i paesi da cui provengono i nostri fratelli. Non è un problema dei nostri giorni, ma viene da molto lontano. La cittadinanza attiva e le associazioni umanitarie però, possono realizzare percorsi per cambiare questa realtà. Dobbiamo avere il coraggio di superare le paure e insicurezze per poter realmente fare spazio all’altro/a.


Questo concretamente significa:

  1. Prima di tutto il rispetto dei diritti fondamentali della persona. E’ il punto di partenza, la base per ogni riflessione e possibili azioni. E’ in questo contesto che si devono sviluppare le politiche di accoglienza e l’integrazione giuridico-politica degli immigrati.
  2. Un nuovo modello di cittadinanza. Una nuova realtà sociale che ci porta ad avvicinarci all’altro/a. Non ha più senso dire “sono loro a doversi integrare…”; l’integrazione è una responsabilità che corrisponde a tutti/e: loro che arrivano e noi che li accogliamo. Solo superando una logica paternalista e protezionista, l’incontro diventa lo spazio privilegiato per costruire una società al plurale.
  3. Saper riconoscere il volto dell’altro/a per dare inizio a una relazione “etica” e veramente “umana”. Nelle nostre mani c’è sempre la possibilità di realizzare una società accogliente, fraterna, segnata da relazioni giuste, rispettuose delle differenze, dove ogni persona possa esprimersi nella sua pienezza.
  4. Non rinunciare all’impegno profetico. La denuncia nasce dall’impegno quotidiano per la vita e deve portarci sempre più a umanizzare la storia.
  5. E’ necessario unire gli sforzi e il nostro impegno per creare spazi di incontro tra le diverse culture e religioni. Questo spazio inizia ad esistere quando siamo capaci di riconoscere il dialogo come strumento di partecipazione di tutti nella costruzione di una società altra.
  6. L’essere sensibili, attenti e solidali con chi realmente ha bisogno deve manifestarsi in azioni concrete.
E’ molto importante uscire dai nostri “ambiti interiori” e da una fede intimista che non porta a nulla. “Essere credibili e non credenti” (Rosario Livatino) continua a essere una sfida per tutti noi, cittadini comuni e soprattutto cristiani.
Con gratitudine

Dorotea, Maria, Alberto, Maria Grazia, Tony e Domenico
Palermo 12 Aprile 2011

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