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“Quando uno è costretto a ‘desplazarse’ e a fuggire dal luogo in cui era abituato a svegliarsi ogni mattina, vive come sospeso nel vuoto. Non senti più la terra sotto i piedi, senti che le radici che ti davano vita e ti tenevano legato a quel luogo si sono spezzate, e adesso sei alla ricerca di una nuova terra in cui radicarti, ma non è facile… Devi ricominciare tutto da zero, e tu lotti per ritrovare un senso, un orizzonte, una comunità di cui sentirti parte per poter vivere una vita umana”.

Vite sospese: camminando insieme verso una nuova Terra Promessa

LETTERA DI FR. ALBERTO DALLA COLOMBIA

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Care amiche e amici, grazie per i tanti messaggi che ho ricevuto in risposta alla mia ultima lettera, nella quale – fra le altre cose – dicevo: “Quando uno è costretto a ‘desplazarse’ e a fuggire dal luogo in cui era abituato a svegliarsi ogni mattina, vive come sospeso nel vuoto. Non senti più la terra sotto i piedi, senti che le radici che ti davano vita e ti tenevano legato a quel luogo si sono spezzate, e adesso sei alla ricerca di una nuova terra in cui radicarti, ma non è facile… Devi ricominciare tutto da zero, e tu lotti per ritrovare un senso, un orizzonte, una comunità di cui sentirti parte per poter vivere una vita umana”.

Tra le tante ‘risposte’ ricevute, ne scelgo una: “Caro Alberto, la lettera che hai scritto mi ha fatto molto pensare… Prego per tutte quelle persone che hanno dovuto fuggire dal ‘barrio’ e nascondersi. Mi ha colpito molto quando dici che le persone costrette ad andarsene vivono sospese nel vuoto.  Lavorando in Italia con i migranti, questo concetto di ‘sospensione’ torna spesso: anche i ragazzi che abbiamo in accoglienza vivono ‘sospesi’, tra la terra delle loro origini e quella in cui stanno cercando di costruirsi un futuro migliore, tra attesa e paura, tra sogno e realtà, tra accoglienza e rifiuto… Spesso è difficile sostenere e accompagnare queste ‘vite sospese’, soprattutto in questo tempo in cui le politiche del nostro paese, e non solo, sono costruite sulla minaccia del diverso, sulla paura, e spesso istigano all'odio… Prego per tutte le persone "sospese", perchè il Signore dia loro forza e coraggio!”.  

 

In Colombia

Qualcuno dice che dobbiamo difendere il diritto di tutti a vivere sulla propria terra, il diritto a non essere obbligati ad emigrare. E’ vero! Ma purtroppo il nostro sistema economico va in tutt’altra direzione. Ad esempio, in Colombia, nel municipio di Suratà una multinazionale ha ricevuto il permesso da parte del Governo colombiano di sventrare le montagne e costruire una miniera per estrarre oro, di cui queste terre sono ricchissime. “Ma la costruzione di questa miniera”, afferma Gonzalo Peña, ingegnere ambientale, “contaminerebbe le acque di questa regione, causando un danno irreparabile a più di 2.000.000 di persone che vivono nella regione di Santander”. Per questo migliaia di studenti e cittadini hanno organizzato varie manifestazioni affermando: “Il nostro oro è l’acqua. Vogliamo difendere il futuro della nostra acqua e il futuro nostro e dei nostri figli”.  

In un’altra regione colombiana, il Caquetá, ci sono almeno 15.000 ettari coltivati a coca. Per molti contadini la coltivazione della coca è stata – finora - l’unica possibilità di mantenere le proprie famiglie. Per questo lo Stato colombiano aveva fatto un accordo con i ‘campesinos’ di questa regione, promettendo di aiutarli a ‘sradicare’ manualmente la coca e sostituirla con altre coltivazioni. 50.000 famiglie del Caquetà si sono dichiarate d’accordo con questo progetto. Sennonché il nuovo presidente colombiano, Ivan Duque, si è rimangiato la promessa del governo precedente e ha annunciato che fra un mese inizieranno le fumigazioni con il glifosato per distruggere le piante di coca. Sembra che gli Stati Uniti stiano facendo molte pressioni per risolvere il problema in questo modo, e il presidente Duque ha ceduto alle pressioni nordamericane. Qual è dunque il futuro che aspetta i contadini del Caquetà? E’ un futuro molto simile a un passato recente. Circa 20 anni fa (me lo ricordo bene perché ero qui in Colombia) i mercenari di una compagnia privata statunitense - la Dyncorp – gettarono quantità enormi di glifosato dai loro elicotteri su varie regioni colombiane. E, come affermò Alexandra Durbin, una pacifista statunitense che denunciò la politica del suo governo, “il glifosato non distrugge solo la coca ma ogni altro tipo di vegetazione, contamina i fiumi e colpisce la pelle, gli occhi, soprattutto dei bambini”. Il Caquetà è una regione dai paesaggi stupendi e con grandi potenzialità turistiche ma, ovviamente, se il territorio sarà infestato di glifosato, ogni possibilità di attività turistica rischia di cadere.

Ecco, dunque, quello che succede. Rendiamo la vita impossibile alla gente di queste terre: gli inquiniamo l’acqua, spargiamo sul loro territorio veleni che distruggono la vegetazione, causando danni gravissimi alla salute della popolazione. E così la gente sarà costretta a fuggire ed emigrerà in altri paesi. E noi? Noi gli chiudiamo le porte… Abbiamo costruito un mondo in cui c’è la libertà di avvelenare le acque e di distruggere la salute dei bambini . Un mondo disumano. Cosa possiamo fare di fronte a tutto ciò? Fuggire! Fuggire dalla disumanità!  

 

La marcia dei settemila

Ed eccoli lì, settemila honduregni, cui si stanno affiancando tanti altri, tutti in fuga dalla disumanità. ‘Ma siete matti a voler entrare negli Stati Uniti?’, gli domandano in molti. ‘Vi ricacceranno indietro a forza, o vi metteranno in carcere’. A queste obiezioni i fuggitivi rispondono: ‘Sappiamo bene che negli Stati Uniti la vita sará difficilissima per noi, e che corriamo pericoli, però il luogo da cui fuggiamo è ancora più pericoloso’. Come dire: fra due disumanità, scelgo la meno peggio. Ma sarà vero che il massimo cui può aspirare l’uomo del ventunesimo secolo è scegliere - tra due - la disumanità minore? Non esiste una terza opzione: un futuro umano per tutti? Non sará possibile sognare e trovare uno spazio umano in cui vivere insieme? Ma se uno spazio umano non lo trovo sul pianeta degli esseri umani, dove posso andare a cercarlo?

Eppure, se questi settemila ‘fuggitivi’ riescono a camminare nonostante tutto, significa che hanno ancora la speranza di trovare comunque un posto per cui vale la pena tutto questo sforzo. Noi spesso rinunciamo a camminare, e ci rassegniamo a vivere nella disumanità, accontentandoci di trovare un angolino dove questa disumanità punga meno forte. I poveri, invece, fanno rinascere l’utopia e la speranza.Nel mondo dei poveri”, dice Jon Sobrino, “c’è un mistero, c’è un qualcosa che dà loro voglia di vivere e camminare nonostante tutto: una speranza di umanità che offrono a tutti, anche a coloro che hanno smesso di sperare”.

Certo, da solo, non riesco a fuggire dalla disumanità; da solo non riesco a trovare quella terra umana che è l’anelito più profondo del mio cuore. E allora lancio un appello su facebook, chiedo a tutti gli innamorati di umanità e giustizia di unirsi a me, di camminare con me. Per rendere visibile la nostra speranza, e per lanciare un grido che risuoni in tutto il pianeta: Dentro questo neoliberismo disumano non è più possibile andare avanti! Dobbiamo camminare, dobbiamo cercare una strada alternativa: lo dobbiamo a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri nipoti! E così nasce la marcia dei settemila honduregni che, a partire dal mese scorso, ha attirato l’attenzione di tutto il mondo. “Sappiamo molto bene che in Messico non tutti ci ricevono a braccia aperte”, dice Juan Carlos Flores, ”e che qui ci sono narcotrafficanti che rapiscono e uccidono i migranti. Ma nel nostro paese siamo abituati a convivere con paure ancora più grandi, e così andiamo avanti con la nostra marcia”.

In Honduras, a causa di politiche economiche imposte dall’esterno e appoggiate dalle elite locali, il 70% della popolazione vive nella povertà, il 60% è senza lavoro e il 35% mangia solo una volta al giorno. A tutto ciò si aggiunga l’estrema crudeltà della bande armate (“pandillas”) che dominano tanti quartieri popolari. “In questo viaggio verso gli Stati Uniti non mangiamo bene”, dice la signora Maria Aguilar, “dormiamo pochissimo, non riposiamo mai. Ma a tutto questo siamo abituati da tanto tempo. Quanto a Trump, non ci ama? Per noi cambia poco, neanche il nostro presidente – servo dei grandi poteri finanziari - ci ama o si preoccupa per noi”. La signora Maria viaggia con due figlie e quattro nipoti.

Insomma, di fronte a situazioni disperate, i poveri non si rassegnano, continuano a lottare, alla ricerca di un male minore, ma sempre sperando di trovare prima o poi, finalmente, un bene, quel bene tanto desiderato. Loro sì credono in un futuro diverso, in un cielo nuovo: non sono interessati in un domani che sia una semplice proiezione ortogonale di questo presente disumano.  

 

E noi?

Ma se i poveri del Sud – di fronte a tante ingiustizie strutturali - devono fuggire fisicamente, anche noi del ‘Nord’ del mondo siamo chiamati ad intraprendere un viaggio, forse non fisico, ma certamente un viaggio spirituale e politico verso una nuova terra, per approdare in un mondo dove tutti possano vivere una vita umana. “E così”, scrivevo in una mia riflessione di due anni fa, “è tutta l’umanità che è chiamata a mettersi in cammino, in una specie di carovana solidale, alla ricerca della pienezza, della bellezza, della giustizia: di un nuovo approdo”. Di fronte alle difficoltà economiche e ai cambiamenti climatici che si sono manifestati in maniera così drammatica anche nella nostra Italia, la tentazione potrebbe essere quella di cercare un angolino di salvezza solo con i ‘nostri’, lasciando fuori i poveri che bussano alle nostre porte. Ma questo è impossibile. Come dice Jon Sobrino, “ci può essere salvezza e umanizzazione solo ‘con’ i poveri. ‘Senza’ i poveri non ci sarà nessuna salvezza, per lo meno nessuna salvezza umana”. Perché quando cominciamo a trattare in maniera disumana un gruppo di persone, o anche solo accettiamo passivamente che questo accada, mettiamo in moto un vortice di abbrutimento e disumanizzazione che, prima o poi, travolgerà anche noi.

Come dice papa Francesco, “la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo ma anche sui diritti dei popoli. Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna nazione, bisogna sempre ricordare che il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità” (EG 190). In altre parole, difendendo i diritti dei poveri, stiamo difendendo i diritti di tutta l’umanità. Una ‘salvezza’ senza i poveri o contro i poveri ci porterebbe, nel giro di poco tempo, nell’abisso di una crudeltà da cui non riusciremmo più ad uscire. Dobbiamo evitare quel pericolo che il papa denuncia con forza, e cioè “agire e decidere come se i poveri non esistessero” (EG180).  

 

Alla ricerca di una nuova Terra Promessa

I recenti disastri ambientali ci hanno riconfermato che l’umanità condivide una situazione di estrema fragilità. Oggigiorno, è tutta l’umanità che vive una vita sospesa, sospesa tra le minacce di morte, la tentazione di ritagliarci un angolino di salvezza escludendo o uccidendo i poveri, e l’alternativa di metterci in cammino insieme, alla ricerca di una nuova Terra Promessa a livello planetario, alla ricerca di una utopia possibile di pace e fraternità. Parafrasando Martin Luther King, potremmo dire: ‘Oggi la scelta non è più tra giustizia e ingiustizia, o tra egoismo e fraternità. La scelta è tra la giustizia e la morte, tra la fraternità e l’abisso infernale. O ci mettiamo tutti in cammino per cercare una nuova Terra Promessa e costruire insieme un mondo giusto e fraterno, o sarà la morte per il pianeta e per l’umanità. Che Dio ci aiuti a scegliere la vita!  

 

Un grande abbraccio fraterno!

fr. Alberto Degan.

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