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Abbiamo bisogno di questo ‘sviluppo’?

lettera dal Brasile di P. Dario

Scrivo dal Brasile, non conosco da vicino la situazione in Italia, so che si sta vivendo un momento duro. Un momento che, forse, è figlio dello stesso modello, proposto a varie latitudini, in vari modi, adattato alle varie tappe del ‘progresso’ installato in ciascun popolo.

Açailandia: siderurgiche costruite all'interno del quantiere di Piquià.

Quello che chiamano sviluppo, qui da noi non ha il minimo sapore di novitá. Ripropone da 500 anni la stessa storia: saccheggiare le risorse della terra, il patrimonio di biodiversitá e la potenza delle grandi acque amazzoniche. Da tempo il grande scrittore uruguaiano Eduardo Galeano definisce questo modello con la metafora delle “vene aperte dell’America Latina”. 

Un simbolo di questo saccheggio, dettato dalla fame di materie prime e di profitti a basso costo, è il treno che attraversa le nostre terre. È il piú lungo del mondo: quasi 400 vagoni che passano 25 volte al giorno a fianco delle case e baracche della nostra gente. Trasportano ferro della miniera piú ricca del Pianeta: Carajás. Scavano nelle viscere della nostra terra per esportare 100 milioni di tonnellate di ferro ogni anno, lasciando nella zona delle miniere circa il doppio in scarti minerari. Abbiamo fatto il conto che ogni giorno questo treno trasporta ferro per un valore bruto corrispondente a 40 milioni di dollari… mentre la gente che vive a fianco della ferrovia deve barcamenarsi e sopravvivere con circa 10 dollari quotidiani!

Eppure, si dice, il nostro stato del Maranhão è cresciuto, si sta sviluppando grazie a questi investimenti e grandi opere di infrastruttura. E dovrá crescere ancora di piú, per soddisfare la sete di nazioni straniere affamate di risorse: è in vista la duplicazione di tutto il sistema estrattivo, di trasporto ed esportazione. Le imprese ed i politici, deturpando il Vangelo, vogliono far credere che, nell’alimentare la fame di sviluppo di altri, molte briciole cadranno anche sul nostro piccolo tavolo.

Costi quel che costi, dobbiamo obbedire al ritmo del progresso, che inevitabilmente, per sussistere, ha bisogno di alcune “zone di sacrificio”. Si tratta di periferie urbane o grandi aree rurali che, secondo progetti macroeconomici e piani direttori di larghe vedute, vengono ‘sacrificate’ in favore della produzione. Concentrare i danni in zone predeterminate è, un poco, come nascondere la polvere sotto il tappeto di casa; ammettere che, realmente, il progresso ha i suoi costi inevitabili e qualcuno deve pur pagarli, se vuole garantirsi lavoro, opportunitá, crescita.

È questa la logica da cui è stato coniato il termine “razzismo ambientale”: anche nella gestione dei territori, della produzione e degli scarti, si è dimostrato tanto negli USA come qui in Brasile che le vittime dei rifiuti sono generalmente gli abitanti di favelas, i ghetti di afrodiscendenti, le periferie urbane piú povere. E l’impatto delle grandi monoculture ricade sulle piccole comunitá agricole isolate, dimenticate dalla politica e dai mercati. Questo razzismo ambientale ha anche una dimensione internazionale: sapete come chiamano, nel nord America, la primissima lavorazione del ferro fatta qui in Brasile, per l’esportazione? Pig Iron, il ferro dei porci, perché la sua produzione è altamente inquinante. Lasciamo i porci rotolare nel fango, mentre le tappe piú sofisticate, pulite e redditizie della lavorazione le portiamo ‘a nord’.

Nel ’91, in un rapporto segreto preparato per la Banca Mondiale che fu poi divulgato senza molti scandali, l’economista Lawrence Summers commentava: “Detto tra noi, la Banca Mondiale non dovrebbe incentivare di piú la migrazione di industrie inquinanti verso i paesi meno sviluppati?”. La sua teoria si basava su tre considerazioni: la difesa ambientale sarebbe una questione piú che altro “estetica”, tipica dei paesi che se la possano permettere; le persone piú povere non vivono, in genere, il tempo sufficiente per soffrire gli effetti dell’inquinamento ambientale, muoiono prima, per altri tipi di malattie; per la logica economica, le morti nei paesi poveri hanno un costo piú basso che in quelli ricchi.

Questo razzismo internazionale mostra che ancora una volta, 500 anni dopo, le sorti dela nostra terra e della nostra gente sono decise ‘da fuori’. Mi fa pensare il fatto che anch’io e molti di noi missionari veniamo da questo ‘fuori’. Non dovrebbe essere una prioritá della nostra profezia missionaria porre in dialogo permanente questi mondi tanto distanti?

A settembre, un avvocato militante dei diritti umani che vive e lavora con noi sará testimone in Germania degli impatti socioambientali sofferti qui. La chiesa tedesca promuove una tavola rotonda con la maggior industria automobilistica nazionale, per esaminare in dettaglio il ciclo della produzione dell’acciaio e provocare, cosí, una selezione piú accurata dei contratti tra il centro e le periferie del mondo, a partire da criteri etici, ecologici ed umanitari. La sensibilitá della chiesa su questi temi sta crescendo molto. Mi piace evidenziare la dimensione ecumenica di questo impegno; il patriarca Bartolomeo, arcivescovo della chiesa ortodossa a Costantinopoli, ha proclamato recentemente: “La biodiversità è opera della sapienza divina e non è concesso all’umanità di gestirla in maniera indisciplinata. Per lo stesso motivo, il dominio sulla terra e dintorni implica l’uso razionale e il godimento dei suoi benefici e non l’acquisizione distruttiva delle sue risorse per un senso di avidità. Tuttavia, soprattutto in questi tempi, si osserva un abuso eccessivo delle risorse naturali, con la conseguente distruzione del bilancio ambientale degli ecosistemi del pianeta e, in generale, delle condizioni ecologiche, cosicché le norme divinamente ordinate dell’umana esistenza sulla terra vengono sempre più trasgredite”.

E noi Missionari Comboniani, figli di un profeta che ha lottato strenuamente contro le schiavitú della sua epoca, non dovremmo reagire con estrema sensibilitá ed impegno alle nuove forme di razzismo ambientale che si moltiplicano, benedette da questo modello di sviluppo che non accetta alternative, ma solo eventuali mitigazioni?

Siamo nati con il carisma di affiancarci “ai piú poveri ed abbandonati”. Oggi, il grido dei poveri si fa sempre piú soffocato: la madre terra, con tutti i suoi figli e figlie, soffre violenza e raramente riesce a far ascoltare il suo grido. Masse di “migranti climatici”, costretti a fuggire dalle loro regioni in cerca di terre piú fertili, meno secche e piú accessibili, dimostrano che non si puó piú separare la difesa dell’equilibrio ambientale dalla giustizia sociale.

Il corpo ha molte mSiderurgiche ILVA a Tarantoembra: quando una soffre, tutto il corpo ne risente. È urgente sviluppare una teologia che evolva dall’antropocentrismo alla promozione della vita in tutte le sue forme, come creatura di Dio dai mille volti interattivi. Non stiamo abbandonando l’evangelizzazione cosí come la si intende tradizionalmente: lavoriamo duramente, ad esempio, nel costruire le comunitá cristiane, formare leaders locali e proporre cammini di vita piena ai giovani che incontriamo. Ma sentiamo che la profezia della vita religiosa, oggi, è chiamata a dire qualcosa in piú, ad arricchire la pratica quotidiana dell’accompagnamento pastorale con una visione piú ampia ed inclusiva del Corpo di Cristo torturato, ucciso e risorto nella storia di oggi. È il nostro posto nella chiesa di oggi, lo credo e lo vivo con entusiasmo.

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