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ALLA SCOPERTA DI PAULO FREIRE NELLA PEDAGOGIA ATTUALE

Giuseppe Milan

Giornata di studio
Centro di documentazione Paulo Freire

ALLA SCOPERTA DI PAULO FREIRE NELLA PEDAGOGIA ATTUALE
Relazione di Giuseppe Milan
(Docente di Pedagogia interculturale, Univ. di Padova)

Il contributo del prof. Milan sostiene l’attualità della proposta pedagogica di Paulo Freire, individuando la pertinenza – anche ai giorni nostri – della sua denuncia dei molteplici aspetti della disumanizzazione, che negano la vocazione umana ad “essere di più”. Uno di questi aspetti è indubbiamente l’educazione depositaria, alla quale Freire contrappone l’educazione problematizzante, intimamente dialogica. Il dialogo educativo, che si esplica nella dimensione relazionale e della comunione, implica alcuni presupposti nel pensare-agire dell’educatore – e perciò nella sua parola trasformatrice -:
l’amore, l’umiltà, l’autorevolezza, l’ascolto, la speranza, la coerenza, la creatività.
Tutte queste dimensioni sembrano oggi imprescindibili se si intende assegnare all’educazione il compito – per il quale Freire si è impegnato senza sosta - di effettiva costruzione di un’umanità migliore.

 

 

 INDICE:

 

INTRODUZIONE

Paulo Freire è un pedagogista che non ammette mezze misure: o lo si ama o lo si evita scrupolosamente. D’altronde la sua vita, la sua azione, la sua pedagogia non ammettono mezze misure: operano nette scelte di campo e spesso, di conseguenza, rotture.
La sua attualità, a dieci anni dalla morte, è dovuta anche a questa chiarezza di opzioni, alla coerente determinazione etica, teorica ed esistenziale che impregna la sua azione e il suo pensiero.
Naturalmente è impossibile raccontare-spiegare Freire in una relazione.
Evidenzierò alcuni aspetti, che ritengo particolarmente importanti e attuali, della sua pedagogia: la sua visione antropologica e il contrasto con una realtà ingiusta e opprimente; il suo orizzonte teleologico, con l’indicazione di finalità irrinunciabili nel percorso di umanizzazione che l’educazione è chiamata a promuovere; alcune modalità dell’educazione come “dialogo”, con le implicazioni che ne derivano per gli insegnanti, per gli educatori in genere, per quanti possono essere attori di umanizzazione in ogni contesto e ad ogni latitudine.

La profondità con cui Freire vive l’impegno pratico-teorico, educativo-pedagogico, e la “passione vocazionale” con cui attua l’opzione per i poveri, gli “straccioni”, gli “analfabeti”, gli oppressi di ogni tipo e di ogni latitudine, lo includono a buon diritto nel novero di quei grandi pedagogisti-educatori che hanno lasciato un segno importante proprio per la sapienza con cui hanno dinamicamente legato il pensiero e l’azione, la parola e la vita, mettendo comunque in rilievo – quasi si trattasse di una logica necessità – la priorità della testimonianza coerente, dell’esempio vissuto, dell’ “agire per trasformare”, in nome di una determinazione etica capace di ascoltare in primo luogo l’urlo silenzioso dei muti e di uscire così dalla falsa neutralità che avvantaggia i prepotenti.
La storia della pedagogia è ricca di tali pedagogisti-testimoni, e non possiamo qui percorrerla evidenziando adeguatamente i suoi tanti punti luminosi. Basti ricordare, soltanto per fare pochissimi nomi, le figura ormai lontana nel tempo, ma tutt’altro che sbiadita, di Enrico Pestalozzi o quelle a noi più vicine, ma non sempre valutate come meriterebbero, di Lorenzo Milani, Aldo Capitini, Danilo Dolci: tutti – allo stesso modo di Freire, benché con diverse soluzioni metodologiche (che qui non è possibile approfondire) - testimoni di una prassi educativa impregnata di forte idealità e sostenuta da una profonda visione filosofica.
Freire è, come essi, profeta e “rivoluzionario” non-violento, spinto da una fede autenticamente evangelica, capace di scorgere Cristo nei poveri e in tutti gli uomini, negli oppressi come negli oppressori, bisognosi entrambi di autentica liberazione e di coraggiosa apertura al dialogo.
Di testimonianze come quella di Paulo Freire (e dei pensatori prima citati) abbiamo estremo bisogno, oggi più che mai. Spero che queste pagine possano risvegliarne l’esigenza tra quanti operano e ricercano in ambito pedagogico.

L’INDIGNAZIONE DI FRONTE ALLA REALTA’

L’esperienza umana, educativa e pedagogica di Paulo Freire prende le mosse da un’esigenza imprescindibile di concretezza, dalla necessità di un rapporto stretto e vitale con la realtà, fatto innanzitutto di ascolto, attenzione, conoscenza.
Abitiamo la realtà e spesso non ne siamo consapevoli: immersi in essa, invischiati in una anomala indistinzione, viviamo schiavi di un’interpretazione ingenua, magica, superstiziosa, spesso ereditata dalla cultura dell’immobilismo. Oppure trattiamo della realtà, ne argomentiamo a volte con artificiosa abbondanza di speculazioni, ma non la conosciamo: abbiamo la presunzione di possederla, senza essere in autentica relazione con essa.   
Per Freire, la realtà è interlocutore vivo e problematico: è sfida, provocazione, sollecitazione, nella consapevolezza della sua indiscutibile alterità e delle pressanti richieste che – a partire dalle contraddizioni  che la attraversano – essa ci rivolge.
La genesi dell’educazione si radica proprio in tale incontro-scontro con le condizioni reali in cui gli esseri umani si trovano a vivere, nella ribellione e nel riscatto di cui l’educazione stessa deve farsi interprete, per salvare e promuovere i valori autentici insiti nella persona.
Nell’incontro con se stesso e nel rapporto complesso con la sua realtà, l’uomo – chiamato a non chiudere gli occhi al mondo endogeno ed esogeno, “accoglie la sfida drammatica del momento presente” (Freire, 2002, p. 47) e riconosce “la disumanizzazione, non solo come ipotesi ontologica, ma anche come realtà storica”.
È a partire da queste premesse che Freire denuncia a più riprese “la realtà brutale” in cui l’autentica vocazione umana viene “negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nell’oppressione, nella violenza degli oppressori” (Freire, 2002, pp. 48-49), in cui prevale a volte “un ‘ordine’ ingiusto, che genera la violenza degli oppressori”, altre volte  la “falsa generosità, che si alimenta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria”.
Si tratta di una denuncia che risente indubbiamente di uno specifico contesto storico, il Brasile di alcuni decenni fa.
Anche successivamente, tuttavia, in altri luoghi, tempi, contesti socio-culturali-politici, Freire indaga criticamente sulla realtà e ne coglie intimi e diversi aspetti di oppressione e ingiustizia.
Il nostro mondo occidentale, con i suoi miti, non sfugge certo a tale critica.
In Pedagogia dell’autonomia, ad esempio,  scritto nel 1996, Freire afferma che “è un’immoralità, che agli interessi radicalmente umani si sovrappongano, come si sta facendo, quelli del mercato” (Freire, 2004, p. 80).
Allo stesso modo, nell’ultimo suo scritto, Pedagogia da indignação, egli critica proprio qull’etica del mercato che si manifesta nell’economicizzazione della persona, secondo la quale il nostro valore risulta direttamente proporzionale al nostro “potere d’acquisto” .
Alla brutale violenza di un’esplicita dinamica di oppressione si sostituisce a volte, in altri luoghi e in altri tempi tempi, “il potere invisibile dell’addomesticamento alienante capace di un’efficienza straordinaria”: si attua la “burocratizzazione della mente”, uno “stato raffinato di estraniazione, di ‘autodimissioni’ della mente”, una sorta di “conformismo dell’individuo, di accomodamento”. (Freire, 2004, pp. 88-91) Anche in questi casi, comunque, l’errore e l’ingiustizia fondamentale consistono nel vivere la realtà come “fatalità”, nel guardare “ai fatti come a qualcosa di già consumato, come a qualcosa che è successo perché doveva succedere”, alla “storia come determinismo e non come possibilità”.
L’odierna “globalizzazione”, ad esempio, potrebbe essere recepita e vissuta – denuncia Freire – come “destino”, di fronte al quale restarsene “impotenti”, accettando la strategia antipedagogica della neutralità, del pilatesco “lavarsene le mani” in un contesto culturale cosificante e alienante.
Questa “visione meccanicistica” degli eventi umani si esplica oggi, denuncia Freire, non tanto attraverso relazioni elementarmente grezze e di facile lettura – come in rapporti interpersonali e sociali che si reggono sull’esplicito sopruso – ma attraverso modalità di dominio e di subalternità che si attuano per mezzo di “sofisticazioni fantastiche”, che tuttavia non mutano la natura dell’ingiustizia e della disumanizzazione (Freire, Gadotti e Guimarães, 1995, p. 94).
Uno di tali artifici disumanizzanti è costituito chiaramente dall’onnipotenza della cosalità, dall’ “eccesso di ‘razionalità’ nel nostro tempo così altamente tecnologicizzato” (Freire, 2004, p. 28): una pseudo-razionalità, che assolutizza  - anche nella prassi educativa – la quantità a scapito della qualità, la “specializzazione esagerata” a scapito del vero sapere (Freire, 1973, p. 109 e p. 119) , la produzione meramente materiale e consumistica a scapito dei valori autentici:

E ancora: “Assistiamo ogni giorno, dove più, dove meno, in tutte le parti del vasto mondo, allo spettacolo doloroso dell’uomo semplice schiacciato, umiliato e adattato, trasformato in spettatore teleguidato dalla forza dei miti….che, rivoltandosi contro di lui, lo distruggono e lo annientano” (Freire, 1973, p. 53).
Freire, pertanto, nella sua lucida analisi critica della realtà, passa in rassegna molteplici forme di disumanizzazione e ritrova – nelle diverse latitudini e nelle varie situazioni economico-culturali -, il diffuso pericolo della passività, del mutismo imposto o assunto per abitudine a vivere terra-terra, del “gregarismo” di chi si conforma al dominio dell’effimero o di chi in vari modi detiene un potere disumanizzante.

L’educazione comincia dalla consapevolezza che “cambiare è difficile, ma è possibile”, dalla fattiva sostituzione della “ribellione come denuncia” alla passiva rassegnazione: io, essere umano, “ho il diritto di provare collera, di manifestarla, di averla come motivazione per la mia lotta” (Freire, 2004, pp. 61-64).

Indignarsi di fronte a se stessi – quando ospitiamo in noi l’oppressore -  e di fronte alla realtà disumanizzante: questa dimensione critico-decostruttiva è per Freire tappa iniziale ed essenziale di un processo che tuttavia nell’ottica pedagogica – libera dalla tentazione dell’odio come pure dalla pratica della violenza e del terrorismo -  deve rivestirsi di speranza e assumere decisamente il compito di invertire la tendenza e di promuovere l’umanizzazione.
L’indignazione di Freire lo conduce ad una chiarissima scelta di campo, come afferma in Pedagogia dell’autonomia: “Il mio punto di vista è quello dei ‘dannati della Terra’, quello degli esclusi”.
 In Pedagogia degli oppressi, la sua dedica è significativamente indirizzata “agli straccioni nel mondo e a coloro che in essi si riconoscono e così riconoscendosi con loro soffrono e con loro lottano”. Il metodo di questa “lotta” è soltanto l’educazione autentica, dialogica, democratica.


LA VOCAZIONE AD “ESSERE DI PIÙ”

L’approccio critico alla realtà provoca spesso  “giusta collera” (Freire, 2004, p. 34) ed esplicita ribellione perché la realtà stessa in vari modi tradisce e nega la vocazione specifica dell’essere umano: quella “ad essere di più”.
vocazione  al miglioramento in un contesto che tuttavia si accontenta dell’esistente e, in ultima analisi, “genera un essere di meno” (Freire, 2002, pp. 47-48). Un rimpicciolimento.
La persona umana, per Freire,  è ontologicamente “soggetto di rapporti” (Freire, 1973, p. 47), chiamato ad andare “oltre i condizionamenti” (Freire, 2004, p. 23) e a ritrovarsi come relazione nella consapevolezza che “è l’‘alterità’ del ‘non io’, o del tu, che  mi fa accettare la radicalità del mio io”.
               (affinità con Buber)

Per il pedagogista brasiliano, allora, l’autentica identità relazionale-dialogica degli esseri umani dovrebbe indurli a superare i muri del mutismo, dell’alfabetismo integrale, e ad assumersi decisamente “come esseri sociali e storici, che pensano, che comunicano, che trasformano, che creano, che realizzano sogni, che sono capaci di indignarsi perché capaci di amare” (Freire, 2004, p. 35).

Ogni relazione non va vissuta in termini di autocentramento ma come creativa possibilità di “dare un nome al mondo”: “Il dialogo è questo incontro di uomini, attraverso la mediazione del mondo, per dargli un nome, e quindi non si esaurisce nel rapporto io-tu” (Freire, 2002, p. 107).
Si tratta di un dialogo che, allargandosi, può diventare “esperienza di comunione”: un concetto, quello di comunione, che Freire introduce con una certa frequenza nei suoi scritti, alludendo sia alla dimensione “plurale” che ci costituisce – in quanto l’essere umano è socialità, “popolo”, sia ad una realtà sempre da costruire tra di noi.

Questa dimensione dialogale, che si amplia nella dimensione della più vasta comunione, implica evidentemente l’idea di essere umano “inconcluso”.
“Dove c’è vita, c’è incompiutezza”, scrive Freire in Pedagogia dell’autonomia (p. 41): gli uomini sono “esseri in divenire, incompleti, inconclusi” (Freire, 2002, pp. 98-101), caratterizzati dalla storicità. Vanno visti come “esseri che vanno oltre se stessi, come ‘progetti’, come esseri che camminano in avanti, che guardano in avanti”, verso ‘l’essere di più’, verso l’umanizzazione”.
In questa prospettiva, dimensioni esistenziali imprescindibili sono la “ricerca” e la “curiosità”, il porsi domande e cercare risposte, continuamente e, in particolare, rispetto alla propria realtà di uomini.
È proprio da qui che si genera, in fondo, la possibilità di diventare attori di se stessi e del mondo. È da qui che, evidentemente, emerge la necessità dell’educazione stessa, come Freire afferma proprio all’inizio de La pedagogia degli oppressi:
“Gli uomini, accogliendo la sfida del momento presente, si collocano di fronte a se stessi come problema. Scoprono di saper poco di sé, del proprio posto nell’universo, e sono inquieti perché vogliono saperne di più” (Freire, 2002, p. 47).
La consapevolezza della “tragica ignoranza” che ci costituisce diventa la molla per lanciarci nell’avventura della ricerca, nella via sempre incompiuta dell’umanizzazione. L’incompiutezza, il “so di non sapere” apre anche per Freire – e non possiamo non pensare a Socrate – alla maieutica della ricerca dialogica, che sola può consentire di procedere verso una maggiore “compiutezza”, anche se mai definitivamente raggiunta. L’essere umano è questo perpetuo tendere al meglio, nel dinamico gioco delle opposizioni polari incompiutezza-pienezza, umilmente consapevole della propria “inconclusione” e testardamente deciso a migliorare.
Freire esclama la sua meraviglia per questa ontologica “inconclusione” che sollecita ad un oltrepassamento continuo: “Mi piace essere uomo….Mi piace essere Persona perché la Storia in cui mi realizzo con gli altri e della cui costruzione faccio parte, è un tempo di possibilità e non di determinismo” (Freire, 2002, p. 43).
 “Non è possibile stare nel mondo senza fare storia, senza essere da essa plasmati, senza fare cultura, senza ‘trattare’ la propria presenza nel mondo, senza sognare, senza cantare, senza fare musica, senza dipingere, senza prendersi cura della terra, delle acque, senza usare le mani, senza scolpire, senza fare filosofia, senza punti di vista sul mondo, senza fare scienza, o teologia, senza timore davanti al mistero, senza imparare, senza insegnare, senza idee di formazione, senza fare politica” (Freire, 2004, p. 47).
L’uomo, “situato e datato” – secondo un’espressione che Freire cita da Gabriel Marcel - , è perciò chiamato al “dominio della Storia e della Cultura”, ad essere presente nel tempo e nello spazio come vero soggetto di cambiamento

La concezione di Freire, in ultima analisi, eleva a dignità altissima l’essere umano: quasi paradossalmente, è proprio “l’incompiutezza” – di cui l’uomo deve farsi consapevole - a conferirgli grandezza, a dargli protagonismo nella dialettica adattamento-integrazione, ad obbligarlo a cercare, a migliorare, a farsi imprenditore di cultura, di storia, di socialità, di politica.

L’EDUCAZIONE
 
L’educazione deve essere, per Freire, “pratica della libertà”, esperienza di liberazione: esperienza difficile, impegnativa, alla quale egli assegna un compito importantissimo, anche perché la finalità è veramente alta.
In questo processo, infatti,  “la liberazione è un parto. Un parto doloroso”, e l’essere che “nasce da questo parto è un uomo nuovo”: “l’uomo che libera se stesso” (Freire, 2002, p. 54).

L’EDUCAZIONE DEPOSITARIA

L’errore per eccellenza, in ambito educativo, quello che travisa totalmente il significato stesso di educazione, è per Freire la “contraddizione educatore-educando”: quella che polarizza le posizioni, innalzando una parte a abbassando l’altra, assegnando all’una il protagonismo assoluto e l’assoluta responsabilità delle decisioni e delle azioni e all’altra l’unica possibilità di essere passava ricezione.
“La rigidità di queste posizioni – afferma Freire – nega l’educazione e la conoscenza come processo di ricerca” (Freire, 2002, p. 83).
Ecco l’educazione “depositaria”, che “fa ‘comunicati’ e depositi”, che nega qualsiasi protagonismo negli educandi e “li trasforma in vasi, in ‘recipienti’ che l’educatore deve ‘riempire’”.
Caratteristica evidente di questa educazione, il cui compito sacro è ‘riempire’, è l’a-simmetria anti-dialogica, che dicotomizza la realtà con un’iniqua distribuzione delle parti:
“l’educatore educa, gli educandi sono educati;
l’educatore sa, gli educandi non sanno;
l’educatore pensa, gli educandi sono pensati;
l’educatore parla, gli educandi ascoltano docilmente;
l’educatore crea la disciplina, gli educandi sono disciplinati;
[…] l’educatore infine è il soggetto del processo; gli educandi puri oggetti”.

In questo modo, la realtà dell’educazione perpetua e aggrava l’opposizione oppressore-oppresso, facendosi paladina di una concezione del sapere, della scienza, della storia in possesso soltanto di alcuni, mentre gli altri, la maggioranza, vengono “alienati” in una condizione di minorità e di ignoranza.
In questa “cultura del silenzio”, gli uomini, ridotti al mutismo, all’analfabetismo cronico, rimangono “semplicemente nel mondo, e non con il mondo e con gli altri. Uomini spettatori e non ri-creatori del mondo” (Freire, 2002, pp. 87-88).

L’errore antropologico connesso a tale errore pedagogico non penalizza soltanto l’oppresso, depauperato di umanità: pure l’oppressore, nei propri riguardi, è interprete di una reale sottrazione di umanità, di un misconoscimento dell’umanità più vera, e dovrà egli stesso ritrovare il senso autentico dell’esistenza.  Ma l’iniziativa per il reale recupero dell’umanità, nell’uno e nell’altro caso, non potrà che essere intrapresa, secondo Freire, dagli oppressi e da quelli che insieme a loro soffrono e lottano.

L’EDUCAZIONE PROBLEMATIZZANTE

L’educazione che rispetta la soggettività dialogica e creativa degli esseri umani è quella che non li considera “vuoti” da riempire, ma “corpi coscienti”, portatori di una “coscienza in rapporto intenzionale col mondo”.
In questa prospettiva l’educazione si fa “problematizzante”, supera perciò la dogmatica e predefinita struttura oppressiva educatore/educandi e assume l’intima caratteristica della dialogicità, che  reimposta creativamente e in modo sempre nuovo sia la relazione interpersonale-sociale sia il rapporto con il mondo e con i contenuti.

È implicato, indubbiamente, un nuovo rapporto con i “contenuti” dell’educazione, che non sono più considerati come statica “proprietà” dei detentori del sapere, “ritagli della realtà” da trasferire così come sono in docili e passivi contenitori, ma entrano in gioco come “mediatori” di una relazione dinamica e vitale.
Devono essere guardati, letti, interpretati, insegnati attraverso una “curiosità epistemologica” e “critica” che investe pratiche intersoggettive e comunitarie attive e sempre arricchiti dalla dinamica del dialogo.
In tal modo, si rompe l’ingiusta struttura di potere oppressore-oppresso e l’esperienza educativa rispetta la sua natura autentica e umanizzante: “Gli uomini si educano in comunione, attraverso la mediazione del mondo”:
 “Non più educatore dell’educando; non più educando dell’educatore; ma educatore-educando con educando-educatore. In tal modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa”.
Questo nuovo setting  educativo supera la pratica “depositaria” e “anestetizzante”, che mantiene le coscienze nello stato di immersione intransitiva e la conoscenza a mero “livello di ‘doxa’”, e risveglia le coscienze stesse, facendole emergere e provocando la loro “inserzione critica” nella realtà (Freire, 2002, pp. 95-96). I contenuti del sapere si rivestono di “logos”, di significato, e richiamano l’attiva curiosità e l’inesauribile ricerca.
L’educazione problematizzante si pone perciò come antidoto efficace contro ogni forma di passività e come continua provocazione responsabilizzante.
L’insegnante stesso costruisce la sua competenza professionale attraverso la continua problematizzazione del suo sapere, che esige “rigore sistematico”, capacità di mettersi in gioco, “curiosità epistemologica”; si perfeziona nel dialogo aperto con gli altri, con il mondo, con le conoscenze, a patto che sappia insegnare-imparare-ricercare. Il “ciclo gnoseologico” gli chiede, accanto alla ricerca continua, la pratica dialogica della “do-discenza”, la “docenza-discenza”: la disponibilità ad insegnare strettissimamente legata alla massima disponibilità ad imparare (Freire, 2004, p. 25).

L’EDUCATORE DIALOGICO

La distinzione di fondo, attuata da Freire, tra educazione depositaria e educazione problematizzante ci offre un chiaro criterio interpretativo per stabilire le caratteristiche dell’educatore autentico, l’educatore dialogico, sul quale ora ci soffermeremo più analiticamente.
Innanzi tutto, l’educatore dialogico sa usare la parola in modo pertinente, rispettandone i suoi elementi costitutivi, cioè le due dimensioni che Freire considera in essa imprescindibili, cioè “azione e riflessione, talmente solidali, strette da una interazione così radicale che, sacrificandosi anche parzialmente una delle due, immediatamente l’altra ne risente” (Freire, 2002, p. 105).

Critica al verbalismo, la cui parola è vuota e “senza impegno a trasformare”, sia al superficiale attivismo, all’azione per l’azione, a sottovalutare il ruolo del pensiero, della riflessione, dello studio.
L’analfabetismo – l’essere senza parola - è una piaga culturale, la cui componente più grave è proprio il mutismo globale di chi non possiede lo strumento essenziale, la parola autentica, che gli permetta di “leggere” il mondo e la storia e di “scrivere” con le proprie mani e con la propria azione qualcosa di nuovo, che contribuisca a dare un nome al mondo stesso.
In questa prospettiva l’educazione, chiamata a non essere sterile e a-storica ma ad entrare criticamente in dialogo costruttivo con la realtà, con la cultura, non può non farsi “educazione politica”, impegno attivo di ciascuno a “partecipare”, ad essere attore protagonista di cambiamento del mondo che gli viene consegnato: gli uomini sono tenuti, attraverso l’educazione concreta a superare la “schizofrenia storica”, che li vuole assenti dal mondo, e ad essere veramente “bagnati di realtà” (Freire, 2002, p. 106).

Tornando all’educatore autentico, egli è quello che sa dare la parola a tutti: “Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma il diritto di tutti gli uomini” (Freire, 2002, p. 106).
L’uomo è parola, è dialogo: soltanto un’educazione fondata su un’antropologia dialogale può corrispondere perciò alle più intime istanze di ciascuno.
Freire individua alcuni presupposti fondamentali del dialogo, ai quali l’educatore deve costantemente riferirsi. Si tratta di dimensioni sulle quali egli si sofferma più volte nei suoi scritti, e che qui cerchiamo di presentare in forma sintetica.


amore

L’ “amore profondo” per gli uomini, per il mondo, per il sapere, per la propria professione è una delle virtù tipiche dell’educatore, secondo Freire.
Ogni rivoluzione autentica deve essere “amorosa” e il vero rivoluzionario non può che essere “biofilo”,  amante della vita, degli altri, del mondo. Al riguardo, Freire riporta la seguente affermazione di Guevara: “Mi lasci dire, a rischi d’apparirle ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti di amore. È impossibile concepire un autentico rivoluzionario che non abbia questa qualità” (Freire, 2002, p. 108, in nota).
Si può rischiare, tuttavia, anche nell’educazione, di travisare il significato autentico dell’amore e di mettere in atto una vera e propria “patologia dell’amore”: “Sadismo in chi domina, masochismo in chi è dominato. Amore, no.”
L’amore autentico presenta caratteri specifici. Esige coraggio, per assumere decisamente l’impegno con gli uomini, per la loro causa, per la loro reale liberazione.
Inoltre, non può essere bigotto, ma intelligente, flessibile, aperto, contrario a qualsiasi manipolazione, libero e “generatore di atti di libertà”.
In un paragrafo di Pedagogia dell’autonomia, significativamente intitolato “Insegnare esige voler bene agli educandi”, Freire insiste sul “piacere” e  sul “coraggio” di voler bene . Non significa “voler bene a tutti gli alunni allo stesso modo”, perché ogni essere umano è unico; significa che “non mi spaventa l’affettività né che ho paura di esprimerla”, che “sono disponibile alla gioia di vivere”. Significa anche amare la propria professione, e questo spiega anche “la quasi devozione con cui la maggioranza del corpo insegnante resta al suo posto, nonostante l’immoralità degli stipendi” (Freire, 2004, pp. 112-113). Allo stesso tempo, questo amore non può essere passivo e sdolcinato ma comporta che il corpo insegnante “non desista dalla lotta politica per i propri diritti e per il rispetto della dignità del proprio compito”. Freire, in altre parole, stigmatizza la generale sottovalutazione del ruolo e dell’azione dell’insegnante, che nonostante tutto non tradisce la dimensione etica che fonda la propria professione: “Non rispettato come persona nel generale disprezzo in cui viene relegata la pratica pedagogica, non per questo non devo amarla e amare gli educandi” (Freire, 2004, p. 54).
La professionalità pedagogica ha un valore e una dignità altissimi ed “esige un alto livello di responsabilità etica” proprio perché – afferma Freire -  “ho a che fare con persone […] e non con cose” e, in questa dimensione dell’educare-insegnare, “non sono mai riuscito a concepire l’educazione come una esperienza fredda, senz’anima, nella quale i sentimenti e le emozioni, i desideri, i sogni dovessero essere repressi da una specie di dittatura razionalista”. Gli educatori, in altri termini, sono chiamati ad  un “voler bene” che esclude “l’arroganza intellettuale” e “l’assenza di semplicità”: sono chiamati ad un impegno etico delicato: diventare essi stessi, attraverso la concretezza dell’amore, “persone migliori. Persone più persone” (Freire, 2004, p. 115).

umiltà

L’umiltà è per Freire “lo specchio di una delle poche certezze che posso avere: che nessuno è superiore a nessuno”. In vari modi e nei diversi contesti la carenza di umiltà trasgredisce a questa certezza e all’autentico rispetto della persona umana e delle diverse identità culturali, manifestandosi “nell’arroganza e nella falsa superiorità di una persona sull’altra, di una razza sull’altra, di un genere sull’altro, di una classe o di una cultura sull’altra” (Freire, 2004, p. 96)
Essere umile, scrive Freire, significa semplicemente essere “capace di sentirsi e di sapersi uomo come gli altri”. La definizione si avvicina a quella di Martin Buber, per il quale l’umiltà è “sentirsi uno dei tanti”.
Questa “virtù” ci induce ad avere una relazione obiettiva con noi stessi, a riconoscere e “proclamare il nostro stesso errore […] e annunciare il suo sofferto superamento” (Freire, 2004, p. 41)
 Se alieno l’ignoranza, vedendola “sempre nell’altro e mai in me”, se mi pongo su un piedestallo trattando gli altri come cose, come strumenti; se mi chiudo in una “élite di uomini puri, padroni della verità e del sapere” e se credo che “dare un nome al mondo è compito di uomini scelti”: tutta questa superba presunzione di superiorità dimentica che “non ci sono gli ignoranti assoluti e nemmeno i saggi assoluti”. In questo caso, dice Freire, mi risulterà assai difficile, se non impossibile, avvicinarmi agli altri: “devo camminare ancora molto, per arrivare all’incontro con essi” (Freire, 2002, p. 109).
Un insegnante poco umile, che si ritenga “un sole che illumina l’allievo senza luce […], anche se è competente nella sua materia, dimostra di essere incompetente dal punto di vista umano” (Freire, Gadotti e Guimarães, 1995, p. 101)
L’umiltà è, in ultima analisi, l’atteggiamento che si fa invito credibile all’altro, reale ospitalità da parte di chi, non possessore di un castello inaccessibile ma “senzatetto”, può offrire ad un essere umano soltanto la propria vicinanza di essere umano simile e solidale.

autorevolezza

Non sempre il pensiero pedagogico di Freire viene giustamente interpretato in relazione alla sua concezione del rapporto autorità-libertà. C’è spesso la falsa convinzione che dialogare significhi, anche per Freire, totale disponibilità all’altro e, nel caso specifico, all’educando.
Va subito detto, al riguardo, che Freire definisce con assoluta chiarezza l’imprescindibile asimmetria della relazione educativa.
Scrive infatti in Pedagogia dell’autonomia: “Non posso permettermi l’ingenuità di pensarmi uguale all’educando, di disconoscere la specificità del mio compito […], devo stare attento al difficile passaggio dall’ eteronomia all’autonomia, attento alla responsabilità della mia presenza”.  Proprio per l’autorità che riveste, l’insegnante è chiamato ad esporsi, a prendere delle decisioni, a non rimanere lontano, neutrale, indifferente per paura di ledere l’autonomia del soggetto educativo: “Il tirarsi indietro dell’insegnante in nome del rispetto verso l’alunno, è probabilmente il modo migliore di non rispettarlo” (Freire, 2004, p. 57).
Il concetto freiriano di autorità, un’autorità che libera, promuove, orienta, viene precisato in termini suggestivi:
“L’autorità coerentemente democratica è convinta che non vi è autentica disciplina nella stasi, nel silenzio di chi viene messo a tacere, ma nel subbuglio degli inquieti, nel dubbio che istiga, nella speranza che risveglia” (Freire, 2004, p. 74).
Freire, insomma, sottolinea l’importanza dell’autorità rettamente intesa e critica apertamente quanti, da vari punti di vista, mettono in dubbio ingenuamente la struttura flessibilmente asimmetrica della relazione educativa e, orientati da un errato concetto di democrazia, da “una malintesa libertà” e da un’impropria reazione alla tradizione autoritaria, esprimono un giudizio comunque negativo sull’autorità in quanto tale, confondendo l’autoritarismo con “l’esercizio legittimo dell’autorità” e trascurando l’importanza pedagogica “dei limiti senza i quali la libertà si trasforma in arbitrio e l’autorità in autoritarismo” (Freire, 2004, pp. 83-84).
“Qui da noi non abbiamo ancora ben risolto la tensione sollevata dalla contraddizione autorità-libertà, e confondiamo quasi sempre autorità con autoritarismo, permissività con libertà”.
L’auspicio di Freire è che una pratica pedagogica realmente competente e rispettosa della “vocazione ontologica” vinca sia la “tirannia della libertà” sia l’“esasperazione dell’autorità” e trovi la giusta misura: “Sarebbe bene sperimentare il confronto realmente teso nel quale l’autorità da un lato e la libertà dall’altro, misurandosi, si valutassero e imparassero man mano ad essere o diventare se stesse, nel prodursi di situazioni dialogiche. Per questo è indispensabile che entrambe, autorità e libertà, si convertano sempre più all’ideale del rispetto comune, unico modo per riuscire a diventare autentiche” (Freire, 2004, p. 71).
L’antica questione pedagogica del rapporto autorità-libertà viene perciò affrontato da Freire con decisione e interpretato alla luce della sua pedagogia dialogale.

ascolto

La capacità di ascolto è una delle caratteristiche fondamentali dell’educatore democratico e dialogico: egli “impara a parlare ascoltando” perché, capace di promuovere una relazione educativa fondata sulla reciprocità, “mentre parla, tace per ascoltare l’altro che, silenzioso e non messo a tacere, parla” (Freire, 2004, pp. 93-95).
Freire afferma a più riprese che  “la disciplina del silenzio” – non imposto, ma comunicativo – è “una condizione sine qua non della comunicazione dialogica”.

Ascoltare autenticamente, non è “autoannullamento”, “non sminuisce per nulla la mia capacità di esercitare il diritto a non essere d’accordo, a oppormi, a prendere posizione”, “non significa concordare con la sua lettura del mondo o accomodarsi ad essa, facendola propria”: è per Freire un atteggiamento realmente attivo, nel dinamico gioco del dialogo, in cui “il buon ascoltatore parla ed esprime la sua posizione con disinvoltura”, sa “rispettare la lettura del mondo dell’educando, per superarla”.
Freire è ben consapevole di quanto raro sia oggi, nei nostri contesti culturali e nelle nostre realtà educative, l’ascolto autentico: “Non è difficile intuire quante qualità richiede un ascolto corretto. Qualità che si vanno formando nella pratica democratica dell’ascoltare”.
L’esperienza dell’ascolto partecipativo e dialogico, vissuta in ogni circostanza, è pertanto un elemento essenziale nella formazione continua dell’educatore.

speranza

La “radicalità della speranza” fa parte del bagaglio dell’educatore, consapevole che la realtà dell’ incompiutezza apre la strada al sogno, all’utopia e, concretamente, ad un’intenzionalità educativa da sperimentare ogni giorno nelle relazioni interpersonali e sociali e nella “ricerca permanente” (Freire, 2002, pp. 110-111).
La speranza si applica nei riguardi del singolo educando, per fare fruttare le sue potenzialità latenti, per dare voce alla sua promessa implicita, per percorrere l’impervia strada dell’ “essere di più”, aiutandolo a vincere le tentazioni del ritiro, della paura, della depressione.
Essa va anche alimentata contro il diffuso tentativo di chiudere gli occhi di fronte alla realtà ingiusta, di “mettere a tacere il mondo, di fuggirlo”.
La speranza condivisa “nella comunione degli uni con gli altri” può essere perciò la molla della reazione contro la disumanizzazione provocata dall’ “ordine ingiusto” e, in positivo, la forte sollecitazione alla “ricerca incessante della creazione di una umanità”.
È chiaro in Freire lo stretto, necessario e fecondo legame tra speranza e impegno:
“La speranza non significa però incrociare le braccia e aspettare; mi muovo nella speranza nella misura in cui lotto, e se lotto con speranza, spero”.
La forza della speranza sta anche nel dare intensità all’attesa attiva, che evidenzia il valore della pazienza autentica come dimensione carica di energia trasformante,  sapendo in tal senso mettere in campo la necessaria e giusta tensione tra “pazienza e impazienza”: “La pazienza non è mai conformismo. Vuol dire soltanto che il modo migliore per fare domani l’impossibile di oggi consiste nel fare oggi ciò che è possibile oggi” (Freire, 1979, p. 88)
   

coerenza

L’elemento probabilmente più importante per dar vita e rinforzare la relazione educativa è la coerenza dell’educatore, la testimonianza di autenticità e di congruenza nelle parole e nei fatti.
Freire insiste moltissimo su queste dimensioni:
“La fiducia comporta la testimonianza (che un soggetto dà all’altro) delle sue reali e concrete intenzioni. Non può esistere se la parola, perdendo il suo carattere, non coincide con gli atti. Dire una cosa e farne un’altra, non prendendo sul serio la parola, non può essere uno stimolo alla fiducia” (Freire, 2002, p. 110).
“La pratica educativa – troviamo in un altro suo scritto – deve essere, in sé, una testimonianza rigorosa di moralità e purezza”, e questo vale anche nella trasmissione dei contenuti valoriali, in quanto “non vi è pensiero corretto al di fuori di una pratica testimoniale che lo ribadisca invece di contraddirlo” (Freire, 2004, pp. 28-30)
Anche nelle azioni più specificamente politiche è necessaria la massima coerenza: “Parlare per esempio di democrazia, e mettere il popolo a tacere, è una farsa. Parlare di umanesimo e negare gli uomini è una menzogna”.
È perciò necessaria, soprattutto in ambito educativo, l’ “incarnazione della teoria”, la coerente implicazione pratica, nei comportamenti vissuti, di quanto affermato a parole:
la mia preoccupazione  “deve essere quella di cercare un’approssimazione ogni volta maggiore tra quanto dico e quanto faccio, tra quel che sembro essere e quel che realmente sono nel mio agire” (Freire, 2004, p. 77)

creatività

Chi ha avuto modo di vedere all’opera Paulo Freire nell’attuazione dei suoi progetti pedagogici ha potuto confermare che il suo metodo “era creativo più che scolastico, ed intensamente artistico” e che era forte la sua concezione dell’educazione come “un momento della cultura vincolata  a espressioni tipicamente artistiche come il teatro e la poesia” (Freire e Betto, 1986, p. 8) .
Si conosce, d’altronde, l’influenza del pensiero e dell’opera di Freire su Augusto Boal e sul suo “Teatro dell’oppresso”.
Non può esserci educazione autentica, per Freire, senza autentica creatività: una creatività che si manifesta nelle relazioni feconde che si stabiliscono, nella critica ricostruzione dei saperi, nell’ascolto delle continue novità provenienti dalla vita reale, nell’attitudine a “svelare il reale”, nell’intuizione e nella attitudine didattica ad uscire da schemi stereotipati e ripetitivi, nella stessa capacità di immaginare e sognare – per edificarla – un’umanità nuova.
In questa prospettiva, Freire allude ad “un educatore creatore, un educatore liberato, o in processo di liberazione, un educatore che si mette in gioco, si avventura, che non ha paura della libertà, un educatore capace di amare, di amare lo stesso processo di educazione, di amare la propria pratica quotidiana” (Freire, Gadotti e Guimarães, 1995, p. 97)
Allargando lo sguardo all’ “importanza delle esperienze informali nelle strade, nelle piazze, nel lavoro, nelle aule delle scuole, nei cortili dove si gioca”, Freire sottolinea il ruolo – quasi sempre trascurato – della creatività e della bellezza che pure in esse possono manifestarsi:
“Vi è un indiscutibile valore pedagogico nella materialità dello spazio” – egli scrive -. E, denunciando la diffusa “devastazione” visibile nelle scuole e, in genere, nella cosa pubblica, valorizza “l’eloquenza del discorso ‘rappresentato’ nella e dalla pulizia del pavimento, nella bellezza delle aule, nell’igiene dei servizi, nei fiori che l’adornano” ( Freire, 2004, p 38).
Gi educatori hanno perciò il compito di ricreare il bello, anche in quel “dappertutto”, panthakù – come lo chiamerebbe Platone – che è l’ambiente complessivo in cui l’esperienza educativa si attua.

Freire, in ultima analisi, esalta la professionalità complessa dell’educatore, la cui formazione è insufficiente “da un lato se risulta estraniata dall’esercizio della capacità critica che implica il passaggio dalla curiosità ingenua a quella epistemologica, e dall’altro, senza un riconoscimento del valore delle emozioni, della sensibilità, dell’affettività, dell’intuizione o del presentimento”. Tutto questo, riconoscendo che in ogni contesto “l’importanza dell’educatore è straordinaria” (Freire, Gadotti e Guimarães, 1995, p. 97)


CONCLUSIONE
   
Le idee-chiave freiriane, che abbiamo percorso, mettono in chiara evidenza il tessuto “dialogico” che sostiene sia la tessitura teorico-pedagogica di fondo sia le concrete trame dell’educazione in atto.
Con questo, Freire offre un regalo non da poco all’odierna cultura pedagogica, chiamata ad aprirsi senza mezzi termini alla dimensione planetaria, sistemica e interculturale, secondo gli auspici formulati – ad esempio, da Edgar Morin, da Zigmundt Bauman e da altri noti interpreti dell’attualità, dei suoi bisogni e delle sue istanze più vive.
Il dialogo, come capacità di coniugare creativamente molteplicità e unità nella prospettiva della pace autentica e del rispetto dell’umanità in ogni persona umana, è probabilmente l’istanza più attuale a livello universale.
Per il dialogo e con il dialogo  Freire ha dato moltissimo, non soltanto al mondo pedagogico. Giustamente egli si è autodefito “un bambino connettivo” – coniugando in questa definizione la curiosità umile del bambino che sempre desidera imparare e la sapiente competenza di chi sa tessere la difficili relazioni tra le diversità culturali, per costruire l’umanità in ciascuno e tra tutti (Freire, 2002, p. 7) .
In un’intervista rilasciata pochi giorni prima di morire ad un giornalista israeliano, Paulo Freire ha formulato la seguente richiesta, del tutto pertinente e condivisibile:
“Voglio essere ricordato come una persona che ha amato la Terra, che ha amato la possibilità di fare di questa terra un’unica comunità” (Gadotti, Nanni e Colombo, 2003, p. 20).

BIBLIOGRAFIA

Freire P. (1973), L’educazione come pratica della libertà. I fondamenti sperimentali della “pedagogia degli oppressi”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1974, 2ª.
Freire P. (1974), Teoria e pratica della liberazione, Roma, AVE.
Freire P. (1979), Pedagogia in cammino, Milano, Arnoldo Mondatori.
Freire P., Frei Betto (1986), Una scuola chiamata vita, Bologna, EMI.
Freire P., Gadotti M., Guimarães S. (1995), Pedagogia: dialogo e conflitto, Torino, SEI.
Freire P. (2000), Pedagogia da indignação, São Paulo, UNESP.  
Freire P. (2002), La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA.
Freire P. (2004), Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Torino, EGA.
Gadotti M. (1995), Leggendo Paulo Freire. Sua vita e opera, Firenze, SEI.
Gadotti M., Nanni C., Colombo F. (2003), Paulo Freire. Pratica di un’utopia, Piacenza, Berti- Terre di mezzo.
Milan G., L’educazione come dialogo. Riflessioni sulla Pedagogia di Paulo Freire, in “Studium Educationis”, 1-2008, pp. 43-65


 

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