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L'altra Colombia

I volti dimenticati della Colombia

Sottoposta per anni a un’accurata operazione di cosmesi, la Colombia sta ora rivelando il suo volto di miseria e violenza. La mancanza di legalità e gli interessi occidentali frenano il processo di pacificazione

 

Per anni la Colombia è riuscita a nascondere sé stessa. Al mondo, raccontando che la sua barbarie era tutta colpa di Pablo Escobar. E a quanti la visitavano, che di quella barbarie non vedevano segno. Né nelle strade caotiche di Bogotà, vicino al Museo dell’Oro o dal belvedere di Monserrate, né a Cali, né nella malfamata Medellin, straordinariamente efficiente e accogliente, né tra le viuzze coloniali di Cartagena. Né, tanto meno, sulle spiagge caraibiche, sui valichi andini o nei principali siti archeologici.

La Colombia non è mai apparsa attanagliata dalla paura e da una rivoltante miseria come, ad esempio, il Perù o il Guatemala, Paesi ben più frequentati dai turisti occidentali.

L’altra Colombia, dei record di sangue, quella descritta impietosamente dai contabili internazionali della violenza, è sempre stata invisibile. Qualche mitraglietta o fucile di troppo, nelle zone commerciali davanti ai supermarket, o nei quartieri residenziali, sulle spalle dei custodi dei palazzi. Qualche posto di blocco. Molti mendicanti, ma ormai ne è pieno il mondo. E nulla di più.

L’altra Colombia appariva fugacemente soltanto sui giornali e nei noticieros, nel menù del giorno di omicidi mirati e di massacri indiscriminati di contadini, di battaglie campali e di sequestri di cocaina, gocce nel mare di droga. Ma bisognava cercarla, volerla a tutti i costi trovare, impresa dissonante con le normali aspirazioni di un turista di sole, riposo e allegria.

Cosa d’altronde difficile. Il Paese di Macondo è grande quasi quattro volte l’Italia, bagnato dai due oceani, diviso da tre cordigliere, tagliato da fiumi potenti come il Magdalena, perduto nelle immensità delle selve equatoriali e delle pianure orientali. C’era e c’è spazio per tutti: per lo Stato e per tanti altri anti-Stato. Ma non poteva durare.

In questi ultimi anni la barbarie ha continuato a crescere, insieme al numero dei battaglioni anti-guerriglia, dei fronti guerriglieri, dei reparti dei macellai paramilitari, degli elicotteri da combattimento e dei consiglieri mandati da Washington.

E ora, col Duemila, l’altra Colombia è completamente uscita dai nascondigli, nei quali era relegata. Visibile ormai dovunque.

 

Militari, guerriglia e pesche miracolose

Anche nelle grandi città, dove si rifugiano le sue prime vittime. I desplazados, o profughi interni, o sfollati: comunque tutti coloro – e sono quasi due milioni, cioè un colombiano su venti – costretti ad abbandonare la casa e la terra e a fuggire portandosi solo quello che può stare in una mano o sulle spalle. Pochi credono di trovarvi il Paese del Bengodi, che vedono in tv, dove tutti mangiano e sembrano divertirsi. I più vengono a sopravvivere. Molti a rivendicare i loro diritti. Come le comunità di resistenza degli sfollati del rio Cacarica, che da due anni tentano di ritornare nelle loro terre, da dove furono cacciati nel sangue dai paramilitari di Carlos Castaño, e che hanno occupato a centinaia i dintorni della sede della Croce Rossa sulla Carrera 14 per costringere il governo Pastrana a rispettare gli impegni presi. O i gruppi di indios Embera-Katios che si sono piazzati nei giardini del Ministero dell’Ambiente per avere dal governo un altro territorio in cui vivere visto che il loro sarà allagato dalla nuova immensa diga di Urra, nella regione atlantica di Cordoba.

La violenza sotto casa, nei quartieri bene. Anche la gente ricca comincia a sentirsi assediata dai miserabili. Quando cala il sole, non le rimane che affrettarsi a tornare a casa dove, grazie alle antenne paraboliche, può illudersi di vivere a New York o Parigi. Ormai sono un ricordo le scampagnate di fine settimana verso il bellissimo gioiello coloniale di Villa de Leyva o le discese dall’altopiano dei 2800 metri di Bogotà fino alle caldissime cittadine di Salgar o Girardot, punteggiate di centinaia di ville con piscina quasi abbandonate. La mobilità dei ricchi è legata sempre più e solo all’aereo. E lo stesso vale per i turisti.

«E chi ha più il coraggio di muoversi con la macchina?» si chiede un amico giornalista. La novità dell’anno scorso sono le pesche miracolose: così, con la solita ironia colombiana, vengono chiamati i sequestri collettivi realizzati dai guerriglieri sulle strade nazionali: «Bene che ti vada ti portano ad un loro accampamento sulle montagne dove, dopo magari dieci ore di cammino, ti costringono ad ascoltare la loro arringa revolucionaria. Poi ti lasciano andare, a meno che non annusino che sei ricco e allora, finché i tuoi non pagano il riscatto, là rimani. E ovviamente devi sempre e solo sperare che non arrivi l’esercito o la polizia, perché saresti il primo ad essere ammazzato».

La paura diventa paranoia, anche senza lo spettro della guerriglia, che comunque ogni tanto si affaccia fugacemente sulle colline, verdi di immensi pini, che chiudono Bogotà a oriente. Tra i ricchi si sospetta di tutto e tutti, del fidanzato della cameriera, dell’autista del pulmino della scuola privata, del taxista chiamato col radiotaxi, del lavavetri al semaforo. E per loro la capitale diventa sempre più off limits. Non solo quella meridionale, miserabile e violenta, di Ciudad Bolivar, Usme, Tunjuelito e degli altri quartieri, dove i poliziotti entrano solo in pattuglia e coi mitra spianati e regnano le bande minorili e le _ilicias Bolivarianas, legate alla guerriglia, e da poco anche i paramilitari, quasi tutti poliziotti travestiti. Inferni che si affollano ogni giorno di più di desplazados, disposti a tutto pur di sopravvivere, i ragazzi a rubare e le ragazze a prostituirsi.

Ma anche il centro, i dintorni dei palazzi del potere, la mitica Candelaria e la Carrera Settima. Ci sono ragazzini delle famiglie bene del Chicò che vanno più spesso a Miami che in piazza Bolivar. O che hanno visto solo in fotografia la piazzetta del Chorro Quevedo, dove il sei agosto 1538 il conquistatore spagnolo Gonzalo Jimènez de Quesada fondò Bogotà.

Ma l’altra Colombia, ormai, non ha solo accerchiato le città e invaso le strade di comunicazione principali - quelle che vengono chiamate eufemisticamente “autopistas”. Si è soprattutto impossessata delle campagne.

 

Geografia del terrore

La mappa del terrore risparmia poche regioni. In alcune, come quelle atlantiche o quelle orientali, ogni contendente conduce la sua guerra, l’esercito contro la guerriglia e viceversa, i paramilitari contro i presunti simpatizzanti della guerriglia. E i civili nel mezzo a fare da bersaglio. Senza scampo, senza speranza. Ad ogni massacro (quattrocentodue nel 1999, che qualcuno ha avuto il coraggio di chiamare “l’anno della pace”), appare nei noticieros della tv qualche contadino che, piangendo, racconta di bombardamenti indiscriminati, di incursioni di uomini incappucciati con una lista di persone da fucilare, di cadaveri dispersi lungo i sentieri, di violenze agghiaccianti. «Uno è seduto in salotto e ogni sera vede la barbarie davanti a sé. Non è vero che ci fai l’abitudine. Senza che te ne rendi conto, perdi l’allegria di vivere» ti dice l’amica assistente universitaria. La stessa che ti sconsiglia caldamente, per la prima volta dopo tanti anni, di ündare in giro in bus. Bogotà-Medellin? «Impossibile, sotto Fusagasugà c’è un fronte delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarios de Colombia) che si dedica alle “pesche miracolose”. Lo stesso avviene a Cocornà per opera di quelli dell’ELN (Ejército de Liberación Nacional). E in mezzo, di qua e di là del rio Magdalena, ci sono i paramilitari, che sono dei veri pazzi». La zona di San Jacinto, a sud di Cartagena? «No, si sparano tutti i giorni. E poi fanno le rapine». La zona archeologica di San Agustin? «Dipende da dove vai perché da una parte ci sono quelli delle Farc, dall’altra i militari. E la cosa brutta è che non li distingui». E i paradiso caraibico di Capurganà, ai confini con Panama? «Il mese scorso c’è stata un’incursione di gente del Fronte 57 delle Farc che hanno distrutto il posto di polizia e danneggiato molti hotel. L’obiettivo dell’attacco erano i paramilitari che controllano i traffici di droga e di armi».

Paranoie? Forse, ma ti viene il dubbio che l’unica “ley” che funzioni nella gran parte della Colombia è quella del più forte, o meglio delle armi. Se uno non è armato, “nadie lo respeta” (nessuno lo rispetta). Lo sta dimostrando anche adesso il governo Pastrana, tanto aperto e disponibile con le Farc quanto sordo e violento con qualunque movimento pacifico della società colombiana.

In un Paese dove il neo-liberismo continua a produrre disastri, con le sue privatizzazioni e le sue aperture al mercato (arrivando a importare latte dal Venezuela e uova dall’Ecuador), le imprese più floride, oltre al narcotraffico, sono quelle legate alla sicurezza: polizie private, compagnie di sicurezza, auto e porte blindate, sistemi di allarme. E, appunto, tante armi: si calcola che in Colombia ne circolino sei milioni, delle quali soltanto due legali. Armi che non invecchiano nei cassetti. Nel luglio scorso diventarono quasi un simbolo due monache di Tunja, antica città al nord di Bogotà, suor Eva Maria e suor Luz Adelia, che ammazzarono un ladro sorpreso a rubare nel loro convento, ficcandogli in corpo non una ma dieci pallottole. «Ognuno ha il sacrosanto diritto a difendersi» scrissero in molti e a Medellin si costituì anche la “Società internazionale di San Gabriele Possenti”, in onore dell’omonimo prete pistolero italiano, beatificato nel 1920 da papa Benedetto XV° per avere fatto fuori con il suo schioppo dei banditi che volevano rapinarlo.

Revolver che fanno capolino sotto il grembiule del proprietario della caffetteria sotto casa o dal cruscotto dei taxisti, pronti ad impugnarla di notte per difendersi dai rapinatori, ma anche di giorno nelle eterne dispute che li oppongono agli autisti degli enormi e arroganti autobus ejiecutivos. Revolver che in certe regioni immense e isolate, come Los Llanos d’oriente, vengono portate come nei film western alla cintola, vicino all’immancabile machete. E spesso sono sostituiti da armi lunghe di tutti i tipi, dagli schioppi caserecci ai mitra più moderni, made in Italy o made in Israele.

Non a caso la violenza, secondo le statistiche dell’istituto di Medicina Legale, è dal 1980 la prima causa di morte nel paese, seguita a distanza dalle malattie cardiovascolari e dai tumori.

 

La Pace? Solo se conviene

L’altra Colombia non ha soltanto il volto della ferocia e della paura, ma prima di tutto quello della miseria. L’impoverimento progressivo di una parte sempre più consistente della popolazione, la disoccupazione non più nascosta dal cosiddetto sector informal, la scomparsa dei ceti medi e l’esplosione del numero dei desplazados (un colombiano su venti), sono ormai incontenibili. Fino a pochi anni nelle strade centrali delle grandi città appariva solo l’esercito pezzente dei ñeros e dei gamines, barboni adulti e giovanissimi che vagano come cani e dormono sotto i ponti, dove ogni tanto di notte sono sorpresi dalle mitragliate dei giustizieri della impieza social, gruppi di criminali in divisa e in borghese che amano firmarsi con nomi leggiadri come “Cali bonita” o “Amor por Medellin”.

Adesso i mendicanti non indossano più nessuna divisa. Anzi, spesso sono vestiti dignitosamente. Per questo non riesci a scansare la donna con in braccio un bambino che per strada ti chiede la carità con voce bassa, quasi vergognandosi, o a evitare il signore che si offre in un bar di lucidarti le scarpe e al tuo imbarazzato diniego ti chiede il resto del pasto o della colazione, magari solo un pezzo di pane. Miseria vera, che non si fa dimenticare facilmente e che va a braccetto la più sfacciata ingiustúzia. Un documento del febbraio scorso del Dipartimento Nazionale di Pianificazione sostiene che otto milioni di colombiani vivono nella povertà più estrema e che i quattro milioni più ricchi guadagnano centotrentatrè volte di più dei quattro milioni di colombiani più poveri.

üe ne sono accorti anche nel Palazzo di Vetro di New York: «La Colombia è sul punto di vivere una delle peggiori crisi umanitarie di quest’emisfero» afferma un documento del novembre scorso del Programma Mondiale Alimentare delle Nazioni Unite, che per quest’emergenza ha stanziato nove milioni dollari. Briciole se paragonati ai 1200 milioni di dollari in aiuti militari assegnati al governo Pastrana dal Congresso Usa e che si trasformeranno in elicotteri, aerei da combattimento, mitra. Ancora in armi, come se in Colombia mancassero. Ma vallo a dire ai ricconi colombiani. «La società civile vuole la pace...» oppure «La pace conviene... », si continua a blaterare sui giornali, ma nessun potente vuole pagarne neanche in minima parte il prezzo, preferendo stressarsi per la paura dei sequestri (anche a ragione visto che in Colombia viene realizzato il 45% dei sequestri del mondo) e preferendo spendere parte dei capitali in gorilla e automobili blindate. Oppure preferendo mandare la famiglia a vivere in qualche città degli Stati Uniti o dell’Europa.

Un’inchiesta Gallup realizzata l’anno scorso su cinqucentotrentotto proprietari o dirigenti delle principali aziende del Paese in tutti i settori dell’economia ha rivelato che solo il 5% degli intervistati è disposto a cedere il 20% dei suoi averi per finanziare le riforme necessarie per ottenere la pace, mentre la gran parte preferisce continuare a pagare “tasse di guerra”, anche sempre maggiori, pur di inseguire il sogno di farla finita una volta per tutte con la guerriglia. L’unica nota positiva: l’84% degli intervistati si è dichiarato d’accordo ad espropriare i latifondi non coltivati per realizzare una seria riforma agraria. Peccato però che tra loro non ci fosse neppure un proprietario terriero.

 

Violenza in appalto

Un Paese ammalato, destinato a soffrire ancora e sempre di più. Non può suicidarsi come fanno in media sei colombiani ogni giorno. E non riesce a cambiare cura. Ai negoziati di pace tra il governo e le Farc ci credono in pochi. Al massimo c’è qualcuno, come padre Javier Giraldo (vedi «Narcomafie», 3/2000 ndr.) che dice che «va mantenuta accesa la speranza» per non piombare nel regno delle tenebre.

Accesa la speranza, in attesa che il mondo si accorga di quanto accade e imponga una cura diversa dalle armi. Per ora è pura utopia. Il mondo è distratto da altre tragedie, lontane dal cortile di casa degli Usa. Oppure manda armi e istruttori militari, giustificandoli con la menzogna della War on Drugs (guerra alle droghe), come fanno gli Usa con l’assenso "complice" dell’Onu. O fa chiacchiere: succede nei Paesi europei, al Parlamento di Bruxelles o nei governi nazionali, ma anche fra gli esponenti dei sindacati e dei partiti progressisti, come quelli che aderiscono all’Internazionale Socialista (di cui fa parte anche il partito liberale colombiano, al governo più o meno da centocinquanta anni, e maggiore responsabile politico dell’attuale barbarie ). Chiacchiere che di volta in volta si traducono in “appelli”, “inviti”, “raccomandazioni”, “richieste di misure urgenti”, “manifestazioni di profonda preoccupazione” o “costernazione” rivolti ai governi di turno, i quali rispondono con eterne promesse di combattere i paramilitari, di rispettare i diritti umani, di mandare in galera gli ufficiali che ammazzano o fanno ammazzare i civili disarmati, di difendere gli attivisti umanitari... Un ipocrita teatrino in cui ognuno fa la sua parte, purché nulla cambi.

Basti vedere, ad esempio, la beffa dei veti sulle leggi sulla sparizione forzata e altri delitti di lesa umanità (di cui si parla nell'articolo successivo, ndr) che il potere politico non approva per non irritare i vertici militari che evidentemente li considerano metodi molto efficaci della lotta anti-sovversiva. Esattamente come i loro colleghi cileni e argentini degli anni Settanta.

I governanti di Bogotà sono convinti, a ragione, che, qualunque barbarie commettano o permettano, l’Occidente ricco, civile e democratico continuerà a far finta di niente.

Nel suo discorso d’investitura dell’agosto 1994, l’ex presidente Ernesto Samper indicò come fermare questo teatrino. «Il compimento di una politica di difesa dei diritti umani è diventata una condizione necessaria per l’apertura di nuovi mercati, per rendere possibili gli investimenti e per accedere ai materiali strategici», disse nel suo primo intervento da Palacio Nariño.

Ma nessun governo ha mai pensato di condizionare i suoi affari o i cosiddetti aiuti al rispetto dei diritti umani. Per evitare un’eventualità del genere, è stata solo raffinata la barbarie. La “guerra sporca”, ad esempio, viene sempre più appaltata ai paramilitari, anche per difendersi dai rapporti di Amnesty International, America’s Watch e delle altre organizzazioni umanitarie.

Una manovra semplice, quasi banale, ma perfettamente riuscita, che permette ora al ministro della Difesa, Luis Fernando Ramìrez, di dichiarare con orgoglio che «i casi di violazioni dei diritti umani attribuiti all’esercito sono passati negli ultimi tre anni dal 54% al 3% dei casi».

Non ci vorrebbe molto per svelare l’arcano, ma tra i governanti, politici e sindacalisti europei nessuno lo fa. Come nessuno si è mai sognato di fare o proporre la benché minima pressione (se non la minaccia di sanzioni economiche) per costringere il gov¯rno colombiano a mantenere almeno qualcosa di quanto promette. Come al solito l’economia vale più dei diritti umani. E i quattro-cinquemila morti per ragioni politiche o le migliaia di desaparecidos o i milioni di desplazados sono un prezzo che vale la pena pagare. O meglio, far pagare agli altri.

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