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Testimonianza del provinciale italiano padre Giovanni Munari

Durante il week-end GIM di marzo a Venegono padre Giovanni Munari, provinciale italiano dei Comboniani, ha tenuto una testimonianza ai giovani gimmini, facendo luce su cosa sia Missione oggi e su cosa sarà domani.

Giovanni Munari ha speso trent’anni della sua vita in Brasile, di cui quattro a Salvador Bahia, dodici nella periferia di Rio e quattordici a San Paolo. La sua esperienza missionaria, come ha raccontato, è stata guidata da due immagini bibliche. La prima è quella in cui a Mosè viene chiesto di togliersi i sandali quando incontra Dio sul monte Horeb, perché la terra che sta calpestando è Terra Santa: così il missionario deve andare scalzo perché la terra su cui sta camminando è sacra; è colui che si mette al passo con la vita delle persone e non colui che va per costruire. L’altra immagine è rappresentata dal Cristo Redentore sulla montagna di Rio: il missionario che arriva trova già Gesù, che arriva prima di lui ed è pronto ad accogliere tutti a braccia aperte.

In particolare, padre Giovanni ha raccontato della sua esperienza a Salvador, una bellissima città sul mare, che attira turisti tutti l’anno. È costruita su due livelli: la parte alta, quella dei ricchi e la parte bassa, quella dei poveri. Tra le due realtà non c’è comunicazione, se non un trenino e un ascensore che le collega. La città rappresentava il porto principale di arrivo degli schiavi dall’Africa e ancora oggi si respira il richiamo a quei tempi, nell’aria aleggia la storia e il passato.

In estate, infatti, dopo il tramonto, si sentono in lontananza dei tamburi che richiamano al Candomblè: si tratta di un’espressione della spiritualità africana importata dagli schiavi, che sopravvive ancora oggi e mantiene vivo il ricordo della cultura e dalla tradizione di “mamma Africa”. Padre Giovanni, nella veste di padre missionario, si è chiesto cosa bisogna fare di queste realtà: è una religione? Se si, Dio è presente o no? Se c’è, che Dio è?

Per rispondere a queste domande non ha fatto altro che andare a conoscere da vicino il Candomblè. Si tratta di momenti di festa e di incontro in saloni ornamentati con bandierine, dove alcune persone suonano dei tamburi in un ritmo incalzante e travolgente. Così la gente è richiamata, danza, balla e qualcuno cade in trans. Queste persone vengono allontanate dalla sala, per poi rientrare vestite con abiti nuovi e per riprendere a ballare con un’energia unica.

Gli schiavi africani credevano e ancora oggi credono che Dio esista, ma che non abbia tempo di occuparsi degli uomini e allora si serve di Orixà, che fungono da intermediari tra noi e Dio. Sono persone normali, che vivono in Africa e che hanno caratteristiche particolari, ognuna diversa, e il loro scopo è fare uscire i loro figli dall’angoscia. Ogni persona che è associata a un orixà si veste dei colori che lo rappresentano e si considera fratello a tutti gli effetti di coloro che sono attribuiti allo stesso orixà.

Padre Giovanni, allora, ha raccontato la vicenda di padre Ettore Frisotti, il quale si è rivolto a un sacerdote del Candoblè, il quale con il gioco delle conchiglie, gli ha comunicato che gli orixà volevano che lui facesse il rito di iniziazione per entrare nella comunità. A questo punto, padre Ettore fece il rito, entrò nella comunità e, nonostante i problemi che derivarono, venne sempre sostenuto dal provinciale brasiliano dell’epoca.

Infatti Ettore credeva che c’è un momento nella vita in cui, invece che bere dal proprio pozzo, è necessario bere dal pozzo altrui per dissetarsi. Questo è proprio quello che accade tra Gesù e la Samaritana ed è l’attitudine che un missionario deve avere: andare in missione comporta vivere dei processi di conversione profonda e questo è possibile se si riesce ad essere persone fuori dagli schemi, se ci si mette nell’anima della gente.

Per tornare alla domanda “il Candomblè è una religione e Dio c’è?”, si può affermare che sì: si tratta dello stesso Dio, della stessa spiritualità, di una dimensione in cui si trovano le risposte che sostengono la vita e il cammino di una persona. Dal punto di vista razionale si può parlare di sincretismo tra cattolicesimo e candomblè, ma è necessario, invece, partire dalle vite delle persone e dal loro dolore per favorire l’incontro e la conoscenza vera. È Dio che si rivela in forme diverse.                                            

Se solo si riuscisse a leggere sotto quest’ottica tutte le manifestazioni di spiritualità, allora i conflitti legati alla religione verrebbero superati. Proprio per questo è importante che il missionario sia il primo a doversi convertire e non a convertire: deve conoscere a fondo la realtà in cui è mandato, deve ascoltare e agire nella consapevolezza di trovarsi in una terra sacra.

Questo cammino di conoscenza e avvicinamento alle realtà e alle forme di spiritualità diverse dura vite, generazioni. Dunque mi viene da chiedere: e noi giovani cosa c’entriamo in tutto questo? Cosa dobbiamo fare e qual è il nostro compito per portare avanti questo percorso?

Per quanto riguarda, invece, l’esperienza comboniana in Italia, padre Giovanni ha ricordato come la maggior parte dei padri siano anziani e malati. Tuttavia l’attività svolta è intensa ed efficiente, soprattutto negli ambiti di immigrazione, promozione del laicato, pastorale giovanile e accompagnamento, nel favorire giustizia e pace e nella comunicazione. Se si guarda al futuro, in veste di attuale provinciale, padre Giovanni ha una visione molto chiara: i Comboniani di oggi sono destinati a sparire. Se ci saranno, saranno vivi solo in alcune realtà tra quelle suddette.                                            

Allora, ancora una volta, mi viene da chiedere: e noi giovani? Che cosa siamo chiamati a fare? Che responsabilità abbiamo davanti a questa prospettiva futura?

Infine, padre Giovanni ha sottolineato che le scelte sono personali e devono essere condotte dalla domanda: io cosa voglio davvero? Perciò, inserito nel percorso GIM e nel discernimento che noi giovani stiamo facendo, ci dobbiamo chiedere: cosa voglio dalla mia vita?

Nella speranza che le parole di padre Giovanni ci guidino nelle nostre scelte, posso solo augurare a noi gimmini di essere, ognuno nel proprio modo e seguendo la propria vocazione, missionari che camminino scalzi e rispettosi della terra sacra su cui sono e pronti all’ascolto, prima che all’azione.    

 

Anna Angarano Villa

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