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Leggi il racconto di Paolo Della Torre della sua esperienza di servizio nel nord dell'Uganda.

Comete al centro dell’Africa

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Cosa differenzia un viaggio missionario da un viaggio turistico? La risposta che personalmente mi sono dato è: l’incontro con le persone prima della bellezza del luogo.

Cercherò quindi di ricostruire la mia breve esperienza estiva di tirocinio e volontariato nel nord dell’Uganda attraverso le persone che, personalmente, come “comete” hanno lasciato un segno.Innanzitutto, le comete non solo brillano di per sé come le altre stelle, ma lasciano una scia anche dopo essere passate.

Questa mi sembra la metafora migliore per rappresentare i fondatori del St. Mary’s Lacor Hospital di Gulu: Piero Corti e Lucille Teasdale Corti.

Piero era un medico pediatra che, volendo dedicare la propria professione alle popolazioni povere dell’Africa, nel 1961 si trasferì a Lacor, un piccolo villaggio del Nord dell’Uganda abitato dalla tribù Acholi, dove i missionari comboniani avevano aperto un piccolo dispensario gestito da suore infermiere e levatrici.

In questa sua scelta di vita coinvolse anche Lucille Teasdeale, un brillante medico chirurgo canadese conosciuto durante dei corsi di aggiornamento e che, in realtà, all’inizio proprio non voleva saperne dell’Africa. I due si sposarono lo stesso anno proprio al Lacor e l’anno seguente nacque la figlia Dominique.

Questi due medici non dedicarono solo la propria professionalità, ma tutta la loro vita per l’ospedale e per il bene degli Acholi, lavorando incessantemente e impegnandosi nel formare il personale locale. Una dedizione che dovette costantemente interfacciarsi con le difficoltà dovute sia alle continue guerre civili tra tribù che alle epidemie che in contesti di povertà si diffondono maggiormente.

Inoltre, dovettero affrontare in prima persona una delle piaghe più invalidanti di quella realtà: l’HIV. Infatti, durante un’operazione chirurgica Lucille contrasse il virus da un paziente positivo, con le conseguenze fisiche devastanti che questa malattia provocava quando ancora non erano disponibili farmaci efficaci. Ma nemmeno questa condizione riuscì a farla desistere dall’impegno verso i pazienti.

Un altro evento che colpì duramente l’ospedale fu un’epidemia di ebola nell’autunno 2000. In questa grave situazione emerse la figura del Matthew Lukwiya, un ottimo medico che già da tempo era divenuto una figura fondamentale al fianco dei coniugi Corti. Grazie alle sue competenze e al suo intuito riuscì a contenere un’epidemia molto grave, impegnandosi in prima linea nella cura dei pazienti affetti e dedicandosi fino a donare la vita: il 5 dicembre morì vedendo esaudita la sua preghiera di essere l’ultimo ad andarsene.

Gli sforzi e la passione di questi medici non sono però stati inutili; infatti, oltre ai numerosi riconoscimenti ricevuti da Italia, Canada, OMS e altre organizzazioni internazionali, i risultati raggiunti oggi dal Lacor Hospital sono sotto gli occhi di tutti: in poco più di 50 anni si è passati da un piccolo dispensario di pochi letti a un grande ospedale all’avanguardia, il secondo migliore dell’intero stato, che ogni anno cura più di 300.000 pazienti e che, soprattutto, è gestito quasi totalmente da personale locale.

Forse il successo di questa realtà risiede proprio nell’ideale di non considerare il proprio sapere in maniera egoistica, ma come ricchezza da condividere con i propri colleghi e con le generazioni che si stanno formando. E questo l’ho vissuto personalmente costatando una forte propensione all’insegnamento da parte dei più anziani e una continua collaborazione presente tra medici, infermieri e studenti tirocinanti.

Personalmente, dato che attualmente le mie conoscenze e competenze sono ancora limitate, ho potuto imparare molte cose incontrando persone molto professionali che sanno responsabilizzare i giovani senza lasciarli allo sbaraglio.

Un altro punto di forza di questa realtà sta nella consapevolezza della necessità di uno studio e aggiornamento continuo affinché si possano offrire ai pazienti le cure migliori, un atteggiamento che spinge tutti a studiare costantemente e che porta diverse figure accademiche a considerare questa realtà; infatti, durante il mio periodo di permanenza ho potuto conoscere diversi professori provenienti da diversi atenei italiani e inglesi.

Un’altra cometa che ha lasciato il segno in questa zona un po’ sperduta al centro dell’Africa è Bernardetta Akwero, una maestra d’asilo che negli anni Ottanta, nel pieno della guerra civile, decise di aprire il St. Jude’s Children’s Home per accogliere i bambini più vulnerabili: orfani, abbandonati, disabili. Un’opera estremamente all’avanguardia in una realtà di povertà generalizzata dove i più deboli erano visti come un peso. Ora questo orfanotrofio accoglie circa 80 bambini divisi in 8 casette, ognuna gestita da una “mamma” adottiva. L’orfanotrofio è poi collegato con una “farm”, un appezzamento di terreno abbastanza ampio in cui si coltiva il necessario per sfamare i bimbi e che serve per dare lavoro agli orfani cresciuti e alle mamme adottive durante il giorno, quando i bimbi sono a scuola. Si tratta quindi di un sistema virtuoso che si autosostenta, garantendo contemporaneamente sia la cura dei bimbi abbandonati che opportunità di lavoro a giovani locali in un Paese dove la disoccupazione giovanile sta diventando un grave problema. Infatti, l’Uganda, essendo entrata oramai da 10 anni in una condizione di pace, sta vivendo un periodo di grande crescita demografica alla quale, però, non si associa un aumento proporzionale delle opportunità lavorative.

Alle spalle di tutta questo meccanismo così positivo ci sta un’altra cometa molto splendente, Fratel Elio Croce, missionario comboniano presente in Uganda ormai da 50 anni. Arrivato al Lacor agli inizi degli anni ’70, ha avuto un ruolo fondamentale sia nello sviluppo dell’ospedale, organizzando e gestendo tutta la parte tecnica che sta dietro la semplice attività medica, sia nell’ampliamento del St. Jude’s Children’s Home, del quale è diventato direttore dopo la morte di Bernardetta nel 1992, con l’acquisizione della “farm”.

Grazie alle sue competenze tecniche ha trasformato l’ospedale in un villaggio di circa 800 persone; infatti, oltre ai padiglioni strettamente medici (pronto soccorso, medicina, chirurgia, maternità, pediatria, laboratori, radiografia, fisioterapia e ambulatori) il Lacor Hospital presenta gli uffici amministrativi, le case per i medici e gli infermieri, i dormitori e le aule per gli studenti infermieri, le case per i missionari, le case per il personale internazionale, una cappella e le officine. La presenza di queste strutture ci permette di capire proprio l’approccio che i missionari comboniani hanno nel trasmettere la propria Fede, ossia quella di impegnarsi concretamente per i fratelli più poveri, seguendo il motto del proprio fondatore San Daniele Comboni: “Salvare l’Africa con l’Africa”.

Questa mentalità declina il messaggio evangelico mettendo al centro le persone più povere e abbandonate, aiutandole concretamente a crescere, a essere padrone del proprio futuro e a portare a un miglioramento della realtà sociale. Quindi, partendo dalla costruzione di un ospedale che porta a un miglioramento delle condizioni sanitarie, si passa alla formazione di personale locale che garantisce lo sviluppo e il mantenimento della struttura, indipendentemente dalla presenza dei missionari.

Questo porta perciò all’istituzione di scuole che permettono una diffusione culturale più ampia, condizione fondamentale per lo sviluppo. E, dato che il motore di tutto questo sistema è la Fede in Dio, il passo ulteriore è quello di costruire Chiese, sia come strutture fisiche che come comunità di uomini che pregano insieme.

Durante la mia permanenza al Lacor, ho vissuto insieme a Fratel Elio, costatando come riesca ancora a dedicarsi in maniera incessante alle opere della missione, coniugando le attività pratiche con molti momenti di preghiera. Si tratta, dunque, di una figura emblematica che riesce a vivere veramente la propria fede nel concreto insieme agli altri. All’interno del Lacor, questo stile di vita viene condiviso anche dalle suore comboniane che in passato hanno dato e ancora oggi continuano a dare tanto all’ospedale e a tutte le persone in difficoltà. In particolare, mi hanno colpito la grande fede di Suor Miriam, che non potendosi più muovere passa gran parte della propria giornata a pregare gioiosa e che ancora racconta con fervore tutte le proprie vicissitudini, o Suor Giovanna che continua a dedicarsi incessantemente alla gestione delle opere missionarie.

Un pensiero speciale va poi a Suor Romilda, venuta a mancare pochi giorni fa e che ogni sera, nonostante qualche problema di deambulazione, continuava a recitare il rosario delle 20:00 all’interno dell’ospedale insieme a tutti i malati e ai figli del personale, in ricordo di tutte le vittime dell’ebola e della guerra.

L’ultima parte di questo racconto è doveroso dedicarla ai bambini incontrati che con i loro bellissimi sorrisi brillano come “comete”. Ma avvicinandoci al Natale e immaginandoci l’orfanotrofio come la grotta di Betlemme, diventa facile considerare i bimbi “Come-Te”.

Infatti, come Gesù Bambino, spesso si tratta di bambini che non vengono accolti, principalmente per disabilità fisiche e neurologiche. Entrare in contatto con la sofferenza delle persone non è mai facile, ma mentre nell’ospedale si è già consapevoli di cosa si deve affrontare, all’orfanotrofio sono stato inizialmente scosso dalla situazione di questi bambini.

Quale futuro possono avere dei bambini con gravi disabilità in un sistema statale che difficilmente riesce ad accoglierli e a proporre nuove prospettive? Questa domanda mi ha accompagnato per diverso tempo, finché non ho capito che la soluzione era cambiare punto di vista, entrando realmente in contatto con questi bambini, senza considerarli in maniera generica dei “bambini poveri e in difficoltà”, ma chiamando ognuno di loro per nome. In quest’ottica ho conosciuto Moses, un bambino affetto dalla sindrome di Down, sempre sorridente e gioioso, che non è mai riuscito a camminare, finché un volontario, sorreggendolo, lo ha stimolato a muovere i primi passi: da quel momento in poi ha mostrato continui miglioramenti.

Oppure Rubangakene, Cynthia e Jordan, tre ragazzi affetti da gravi problemi neurologici, con difficoltà nel parlare, costretti in carrozzina e che, inizialmente, sembravano completamente inespressivi. Ma quando abbiamo iniziato a spingerli sulla carrozzina e a dedicargli delle attenzioni, ci siamo accorti che in realtà sapevano esprimersi benissimo, mostrandosi ben contenti di potersi muovere ed entrare in contatto con gli altri bambini. A questo riguardo, una delle scene più belle è stata vedere altri bambini fisicamente normali come Jonathan, Genesis e Lorenzo o, addirittura, con qualche problema nel camminare come Opio o Ochen che, osservando noi volontari, hanno iniziato a loro volta ad accompagnare in carrozzina i loro compagni meno fortunati. Un altro bellissimo segno è stato vedere come Jackie, una bambina autistica, sia lentamente passata dal fuggire il contatto con noi ad accettare semplicemente di farsi prendere per mano, tutto senza necessità di parlare. Oppure Edmond, un bambino con forti problemi di equilibrio impossibilitato nel camminare da solo, ma che, sorretto dai volontari, ha mostrato a sua volta degli enormi progressi di deambulazione, fino ad arrivare a salire le scalette di uno scivolo quasi autonomamente!

Tutti questi esempi positivi sono delle dimostrazioni di come, nonostante in un mese non si possano fare miracoli, grazie alla semplice attenzione e all’affetto dei volontari, questi bambini riescono ad avere dei miglioramenti davvero notevoli. Spero che la testimonianza di queste persone così significative vi abbia aiutato a immedesimarvi in questa realtà che sembra così lontana dalla nostra, senza la necessità di descrivere nello specifico l’ambiente naturale, perché in fondo, come detto, un viaggio missionario ha come scopo principale l’incontro con l’altro.

In conclusione, potrei dire che è interessante notare quante “comete” siano cadute proprio nello stesso punto, ma se facciamo un po’ più di attenzione notiamo che questa realtà apparentemente straordinaria, sia in fondo naturale, dato che tutti questi protagonisti sono accomunati dal desiderio di volere il bene dell’altro, ossia una “Co-Meta”.

Capisco di essere stato abbastanza prolisso in questo racconto, ma se siete riusciti ad arrivare in fondo, allora Afwoyo totwal pi winya, che in lingua Acholi significa grazie mille dell’ascolto.

Paolo Della Torre

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