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I colori, gli animali, la foresta, la savana, le persone e i loro sorrisi incontrati sulle strade di Mungbere

Il canto della terra rossa di Mungbere - Congo

La foresta ti avvolge, la savana ti circonda lasciandoti un’ampia visione di quanto la natura sia meravigliosa.

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Se voi vedeste il cielo del Congo, non avreste dubbi nel dire che si tratta di una meraviglia.

Ricordo che in una parte del rapporto sull’ospedale era scritto che “Mungbere si trova esattamente sul confine tra foresta e savana”. Rileggendo quella frase dopo qualche giorno dal mio arrivo nel village, sono rimasta lungamente dubbiosa.

Per raggiungere le cappelle e i villaggi di cui i Padri comboniani si occupano, la moto è sicuramente il mezzo migliore, ma non l’unico: si può anche andare a piedi o usare la bicicletta, ricordandosi però che le distanze sono chilometriche e le strade faticose. Quelle che vengono chiamate strade, non sono minimamente paragonabili a quello a cui noi occidentali siamo abituati: spazi ricavati all’interno della foresta e battuti dalle persone che vi passano. Terra rossa che compone buche nelle quali bisogna far attenzione a non cadere e precise rotte tracciate da chi è passato prima e che vanno abilmente seguite. Quando piove, poi, la terra diventa come sapone sul quale anche i locali scivolano incessantemente.

La fortuna di essere passeggera sulla moto è poter sempre guardar intorno e, nonostante la strada sia ormai conosciuta, c’è sempre qualcosa di nuovo per cui entusiasmarsi. Si passa in mezzo a villaggi dove le case di poto poto e bambù costituiscono l’unica realtà edilizia; non appena i bambini sentono in lontananza il rumore di una moto che sta per passare, corrono fuori dalla casa ed iniziano a gridare, a salutare, a rincorrerti.

Vi sono poi infiniti canneti sotto ai quali la strada timidamente si apre; i raggi del sole illuminano le foglie delle piante e il colore del bambù, donando come un’aria mistica al luogo dove si sta passando.

Per strada non si è mai soli: che siano moto o biciclette, ci sono commercianti che portano grandi quantità di prodotti – tipicamente olio di palma – nelle città un po' più distanti per poterli vendere. Queste particolari figure sono uomini in sella a moto talmente cariche che ci si chiede come facciano a rimanere in equilibrio. E chi invece parte con la bicicletta, spesso deve usarla come mezzo da spingere per il troppo peso che non si riuscirebbe a portare pedalando.

Si creano poi grandi ingorghi: gruppi di vacche che migrano da un territorio all’altro occupano la strada fino a quando i pastori riescono a farle spostare in disparte per lasciar passare i viandanti.

Non sono certamente gli unici animali che si presentano per strada: molto spesso ci si deve fermare perché una capretta o una gallina proprio non si vogliono spostare. Come precedentemente accennato, la strada da seguire è quella tracciata precedentemente: vuol dire che c’è una scia di circa 25 cm da rispettare e, quasi sicuramente, il nostro animale sceglierà di fermarsi proprio lì.

Non solo biciclette, moto e animali: la strada si compone soprattutto di persone che camminano a lungo. C’è chi va a lavorare nel proprio campo – solitamente a molti chilometri da casa -, chi cammina con grandi taniche d’acqua sulla testa riempite alla sorgente più “vicina”, bambini che vanno a scuola – anche quest’ultima spesso lontana chilometri dall’abitazione -, donne che si recano alla pozza per lavare i panni, commercianti che portano a mano prodotti casalinghi, viaggiatori verso mete lontane.

I villaggi sembrano così disperdersi lungo una linea di terra rossa che attraversa la foresta, costellata da uomini, donne e bambini sempre in viaggio per svariati motivi.

Tutto questo è sempre accompagnato dalla foresta. I colori sono vivi, la luce filtra dagli alberi e il rumore degli animali si disperde nell’ambiente. Ma dov’è questa savana allora?

Domenica ci rechiamo in una cappella non molto distante da M’re; questa volta la strada è una novità: direzione Isiro, ne ho sentito tanto parlare ma non ci sono mai passata. Ad un certo punto, con il sole che batte forte, eccola: la savana. L’ambiente è completamente diverso! Non credo ci siano abbastanza parole per descrivere una bellezza del genere: una distesa di erba e piante che accompagnano lo sguardo verso un paesaggio che sembra non finire mai, il cielo azzurro e il sole che alto nel cielo illumina ogni singolo colore.

La foresta ti avvolge, la savana ti circonda lasciandoti un’ampia visione di quanto la natura sia meravigliosa.

Ogni mattina mi reco in un quartiere diverso del villaggio (ce ne sono ben 9, con più o meno 45 avenues principali, ognuno dei quali ha un nome impronunciabile dalla sottoscritta) dove incontro le mamme che partecipano alle riunioni per la prevenzione della malaria. Ci si raduna sotto ad una tipica capanna di bambù ricoperta da foglie ben legate (precedentemente ho avuto la grandissima opportunità di poter provare a costruirne una in un villaggio pigmeo, seguendo passo per passo le mosse di un Tata e rendendomi conto di quanto bambù, foglie e corde naturali possano essere resistenti), sotto alla quale ci si riunisce con i piccoli sgabellini che ognuno porta con sé. Durante gli incontri ho modo di presentarmi, di farmi osservare per bene, con la mia pelle bianca, i miei capelli castani corti e “quello strano modo di fare che i bianchi hanno”. Alcune mamme hanno paura, si siedono lontane e mi osservano senza dire niente, incuriosite dalla mia presenza; altre, invece, si presentano e iniziano a sorridermi e a parlami nella loro lingua che, sebbene io capisca ancora poco, inizia a suonarmi familiare. Sorrisi.

Quando scoprono che a 21 anni sono partita da sola per il Congo e che non ho né marito né figli, un coro di “Wapi!!” risuona tra di noi. Com’è possibile si chiedono, “a 14 anni ho avuto il mio primo figlio!”, “tu si che sei fortunata”,”Bandeko Mama, cette fille!”.

Ogni mamma porta sempre con sé almeno un paio di pargoli; sono veramente affascinata dalla manualità con la quale posizionano i propri figli sulla schiena e li legano con il pagne – rigorosamente in tinta con il vestito che indossano -; c’è una mama che mi è rimasta particolarmente impressa. Tenendo in braccio il suo bambino di forse un paio d’anni, lo coccolava con tanto amore, con uno sguardo dolce, con una dedizione che davvero in poche donne ho visto qui. Mi ricorda un po' la mia mamma, quando da piccola mi metteva sulla coperta in giardino e, dato che scappavo per andare a mangiare la ghiaia, mi guardava con uno sguardo finto arrabbiato, prendendomi poi in braccio e facendomi giocare con lei.

Penso ora a Mama Marie. È un’insegnante della scuola Comboni, la mattina ogni tanto viene a prender il caffè a casa ed è sempre vestita bene, con abiti colorati e ben fatti.

Un pomeriggio, mentre Mama Lele mi portava alla rivière – qualche chilometro persa nella foresta -, vedo in lontananza una donna tutta sporca di terra, sudata, con una tanica in testa e una cesta contenente maceti sulla schiena; mi sembrava proprio di conoscerla, ed effettivamente si, era proprio Mama Marie. Mi saluta con tutto il suo entusiasmo e mi ricorda che qui, se nel pomeriggio non vai al tuo campo a lavorare, non avrai da mangiare.

Qualche giorno prima ho lavorato qualche ora nel campo di arachidi dietro casa; strappando le erbacce – esperienza comunque non nuova - ho avuto però come un’epifania. Da un semplice lavoro come quello, mi sono resa conto che devi stare attento a ciò che strappi. Se strappi per sbaglio un’arachide, avrai meno cibo. Ma tutto quello che coltivi, proprio quello lì, è il tuo unico cibo! Se non fai attenzione alle tue coltivazioni, se non le curi, se non impari ad amarle, non avrai da mangiare.

Un brivido mi è corso dietro la schiena quando ho realizzato che quello che stavo facendo era curarmi di quello che ora sarebbe stato il mio cibo.

Mungbere non è solo la meravigliosa rappresentazione della natura, è anche simbolo del duro lavoro che ogni abitante deve compiere. Intendiamoci: la stagione delle piogge – che dura circa 8 mesi - è meravigliosa. Fa sempre caldo, il sole splende nel cielo e più o meno una volta al giorno arriva un temporale che innaffia la terra e rinfresca. Il fatto che piova così bene, fa sì che la terra sia rigogliosa e che nei campi sia possibile coltivare senza problemi legati alla siccità – presenti invece durante la stagione secca -. Certamente questo non basta. Il lavoro che gli abitanti svolgono nei loro campi è faticoso, richiede ore sotto al sole senza mangiare né bere. Non c’è né ma né se, tutti devono lavorare al campo, costantemente; altrimenti, non si mangia.

La Domenica è una giornata bellissima. Due volte al mese mi reco in una cappella sempre diversa fuori da M’re, dove JeanMarie celebra la messa in piccole chiesette costruite spesso con bambù e qualche volta in mattoni. L’atmosfera è intima, i canti sono meravigliosi e le persone attente. Dopo la Messa siamo sempre invitati a pranzo a casa del catechista, dove sua moglie prepara per noi un pranzo tipicamente congolese ( riso, pondu, carne o poisson fumé, si impara presto ad amare la cucina tipica).

Le altre due domeniche del mese, invece, la Messa inizia alle 7 di mattina e senza che io me ne accorga termina alle 10. Durante queste bellissime tre ore, la maggior parte del tempo è occupato da canti gioiosi e da balli coinvolgenti. Mentre tra le file di banchi passano piccoli chirichetti che danzano con campanelli legati alla caviglia a tempo di musica, donne e uomini – seduti in due parti differenti della chiesa – ballano e cantano la gioia del Signore. Le donne hanno vestiti che riempono gli occhi, un’esplosione di colori che a tempo di musica illumina l’atmosfera.

A livello statale.. statale? Insomma. Un territorio grande come quello del Congo non è sicuramente facile da gestire, ma la mancata capacità governativa influisce incredibilmente sulla vita di ogni persona. A partire da cose “semplici” come la costruzione e la manutenzione delle strade, fino a citare l’incapacità di attuare politiche continuative e stabili volte al benessere generale. Tutto questo deriva sicuramente in primis dal governo congolese, incapace di incarnare tale ruolo, ma la colpa è anche attribuibile a fattori internazionali circa lo sfruttamento delle risorse e le conseguenti lotte, ad esempio.

A differenza di quello a cui la maggior parte degli occidentali è abituata, tutti salutano tutti. Questo vuol dire che se cammini per strada, anche se a distanza di 100m, devi salutare chi passa.

Ogni tanto mi sento veramente osservata e per alcuni secondi mi chiedo il perché; poi, mi ricordo che sono un puntino bianco visibile da molto lontano e mi rallegro con tutte le finte battute razziste che io e Mama Lele ci facciamo a vicenda. Ma tornando al salutare, i bambini mi corrono incontro per tendermi la mano e dire timidamente “mbote ee” con un sorriso enorme, per poter poi rientrare a casa e informare la famiglia che “ho salutato una donna bianca oggi!!”. Gli adulti salutano un po' per rispetto un po' per curiosità, ma ora che iniziano a conoscermi, tutto è più sincero. “Mbote Marguerite!Sango nini?okey wapi?” e diciamocelo, siamo tutti divertiti dalla mia pessima comprensione, pronuncia e capacità di rispondere. Ma ora che mama Brigitte mi aiuta a studiare lingala, qualche parola basta per accorciare le distanze.

Ma la mia più grande conquista è Exatier. Il bimbo ha circa tre anni e per circa tre settimane dal mio arrivo, vendendomi, non ha fatto altro che piangere come un disperato. Era spaventato dalla mia pelle! Vi lascio immaginare quando Mama Riccarda me lo ha dato in braccio, fortunatamente tutti abbiamo trovato la cosa abbastanza ridicola e non ci ha fatto separare.

Qualche giorno fa, però, Exotier mi ha fissato a lungo e no, non ha pianto. Sono sicura che ancora poco tempo e l’avrò conquistato definitivamente!

 

Qualcosa mi dice che tornare sarà doloroso, ma a presto

 

03/05/2015, Margherita

 

PS: ci sono troppe cose da raccontare, aspettate!

Il mercato si crea attorno ad un binario dei tempi della guerra che è ormai inutilizzato; quando decidi di comprare qualcosa, pesce, carne, legumi, vermi, uova – insomma, tutto quello che puoi aver bisogno è lì, su un banco improvvisato; il mio caro fratello che si occupa di igiene alimentare rabbrividisce ogni volta che si ricorda la foto che gli ho mandata -, arriva la parte più bella. Il sacchetto. Sacchetto, lo chiamo così solo per farvi capire. Il loro “sacchetto” consiste in una foglia verde con un lungo stelo dentro alla quale viene avvolto il cibo e verrà poi ulteriormente chiuso legando lo stelo. Sono affascinata.

 

Per non parlare poi dei dazi statali inventati. Lungo la strada, ogni tot di chilometri, canne di bambù sono poggiate lungo tutta la grandezza della strada. Ad alzarle e a riporle per evitare il transito delle moto, troviamo degli agenti della polizia locale che chiedono dazi per poter passare.

I comboniani ovviamente sono “esonerati” dalla truffa ma, maldestramente e casualmente, i cartelli che rinforzano la sbarra di bambù, cadono. Un piede mal messo che prende dentro per sbaglio la segnaletica.

 

Non posso infine – forse – dimenticare il Libuka.

Che cosa sarà mai? Niente di difficile, un grande mortaio in legno dentro al quale vengono preparati la maggior parte dei cibi congolesi. Un gran bastone di legno serve per “piler”, rendendo la materia come se fosse una pasta. Eppure non è facile come sembra! Mentre le foglie di manyoc si possono pilar in un determinato modo, le arachidi o le banane richiedono movimenti diversi.

Meno male che c’è Mama Lele che mi insegna.

 

Ultima cosa, promesso. Se siete arrivati fino a qui, meritate di scoprire la cosa più bella di Mungbere.

La mattina, quando mi sveglio, mi sveglio con i canti delle diverse comunità. La sera, invece, il canto delle pigmee ospitate nel foyer dietro casa, mi culla nel sonno.

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