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L'esperienza missionaria a Moïssala di un gimmino di Padova.

Lettera di Ephrem Nastasio dal Ciad

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« N……, mḭ m-mbél màn dͻí tə kǝ ḭ tél kǝ kíjǝ, Kǝ tͻ Alà Bͻw, Ngͻnaá, kǝ Ndíl kǝ kàr yàng ». 

«N......, io verso l’acqua sulla tua testa ora, perché tu ritorni nuovo, nel nome del Dio Padre, del Suo Figlio, dello Spirito che è il più puro».

È con questa formula che a partire dalla domenica di Pasqua, ma ancora in questi giorni, centinaia (esatto, centinaia; e forse quest’anno si è addirittura raggiunto il migliaio!) di catecumeni hanno ricevuto il battesimo e sono finalmente diventati cristiani dopo un percorso di preparazione di quattro anni. È stata una grande festa, vissuta nella gioia con canti e danze. Qua i ragazzi e gli uomini che chiedono il battesimo sono davvero pochi rispetto alle ragazze e alle donne ed è stato emozionante vedere anche alcune signore veramente anziane farsi battezzare in questa folla di giovani... persone che sono verso il termine della loro vita (tanto più tenendo conto dell’aspettativa di vita di qui) e che desiderano rinascere nuovamente!

Il primo gesto è stato quello dell’acqua e nonostante la fatica di attingerla al pozzo e di trasportarla sulla testa fino al luogo della cerimonia non si è certo lesinato nel suo uso: quando si battezza, si fa sul serio! Poi, ancora grondanti d’acqua, trasportati in esultanza sulle spalle degli amici, di corsa a cambiarsi per indossare l’abito bianco, che molti si sono cuciti da sé e che non sarà usato solo in questo momento, ma per tutto il periodo seguente, tradizionalmente fino a Pentecoste. Così vestiti, l’unzione con l’olio e poi il simbolo della luce: non una candela, ma una lampada a petrolio; sia perché qua le candele si trovano difficilmente (non sono adatte al clima e si sciolgono!) sia per l’utilità di una lampada per illuminare nella notte, essendo quasi tutte le case senza corrente elettrica. Infine la croce da portare al collo: croce che portano così fieramente in quanto è il simbolo distintivo tra catecumeni e cristiani e non un semplice ornamento. E subito dopo il battesimo tutti i nuovi cristiani e le nuove cristiane hanno ricevuto anche la prima comunione.

Mi ha colpito molto vedere il numero impressionante di battezzati: soltanto la domenca di Pasqua, e soltanto nel villaggio dove ero in quei giorni, che non è il centro della parrocchia, sono stati 148! È vero che i comboniani sono presenti qua a Moïssala da più di quarant’anni (è proprio questa la loro prima missione qui in Ciad) e che prima di loro, dagli anni ’30, arrivarono gli spiritani e i gesuiti; ma una chiesa di 90 anni è ancora molto giovane, soprattutto se si tiene conto delle difficoltà incontrate nei primi decenni (una fra tutte la guerra), per cui si può dire che il Ciad sia ancora una missione di prima evangelizzazione. In un Paese a maggioranza musulmano e con una buona percentuale di adepti delle religioni tradizionali, soprattutto qua al sud (dove, se da una parte i musulmani sono ancora pochi ma in aumento, dall’altra la popolazione è fortemente attaccata alla tradizione e ai riti locali) il principale impegno dei missionari è di far conoscere Gesù Cristo e la sua Buona Novella.

E nell’enorme parrocchia di Moïssala (pensate che come superficie fa 7.000 km quadrati, ovvero due volte la diocesi di Padova) ciò significa ore e ore di piste sterrate e piene di buche da percorrere in macchina o in moto (con eventualmente qualche attraversamento del fiume in piroga) per raggiungere ognuno degli oltre 120 villaggi dove sono presenti le comunità critiane, alcune di centinaia di fedeli, altre di una decina o poco più, e celebrare con loro la messa sotto un albero di mango o nella loro piccola cappella di paglia o di mattoni.

È qua a Moïssala, nel sud del Ciad, vicino al Centrafrica, in questa regione caratterizzata da una savana arboreggiante e in mezzo al popolo mbay che ho già trascorso questi primi tre mesi di missione. Qui nella comunità siamo in cinque: tre comboniani, un prete diocesano e io. Padre Michael dallo Zambia è quello che è qui da più tempo, da 12 anni. Padre Jacob dal Messico e padre Jean Nestor dal Togo sono qui da qualche mese soltanto e li avevo incontrati a N’Djamèna nei miei primi giorni in Ciad mentre studiavano la grammatica della lingua mbay. Infine abbé Edmond, ciadiano e prete diocesano (quindi non comboniano) è qui nella comunità da un anno perché c’è il progetto di separare il settore della parrocchia che sta oltre al fiume per farne dapprima un vicariato (se tutto va bene già alla fine di quest’anno) e poi una parrocchia a sé. Parrocchia che sarà dedicata a san Daniele Comboni.

Quando sono arrivato qua a Moïssala ancora non sapevo cosa avrei fatto e nemmeno che realtà avrei incontrato, per di più sono giunto in un momento particolare: giusto il tempo di ambientarmi un po’ ed è cominciata la quaresima, che qui è un periodo particolarmente intenso e pieno di attività. Siccome visitare tutte le comunità è impossibile, ogni settore o sottosettore organizza dei “ritiri di quaresima” di qualche giorno “en brousse” (ovvero nella foresta, non nei villaggi) con dei momenti di catechesi e di condivisione. Ci sono poi i ritiri per i catecumeni per la loro formazione in vista del battesimo e tante altre attività. Così in quel periodo ho viaggiato parecchio accompagnando l’uno o l’altro padre della comunità nelle attività pastorali. Per esempio ho fatto tre giorni in riva al fiume per un ritiro, dormendo sulla spiaggia sotto le stelle (anzi, sotto la zanzariera!) e ascoltando le catechesi, quest’anno sul tema dell’eucarestia, all’ombra degli alberi. Non capivo quasi nulla della lingua mbay, ma avevo partecipato in precedenza al campo di formazione dei catechisti, in francese, per cui anche durante il ritiro riuscivo in qualche modo a seguire e partecipare. In particolare la formazione dei catechisti qua è di cruciale importanza: sia per la questione della lingua, che non tutti i missionari hanno modo di studiare a fondo e parlare correntemente, sia perché in una missione così vasta, tre missionari (ma anche se fossero cinque o sei sarebbe la stessa cosa) hanno bisogno dell’aiuto e della collaborazione di catechisti autoctoni. Per la domenica delle palme ho accompagnato l’abbé Edmond a Mousnini, il villaggio che divverrà il centro della nuova parrocchia; e per il triduo pasquale sono stato a Bekourou con padre Jacob e padre José Alberto (un mozambicano che ora non è più nella comunità di Moïssala, ma che era tornato per dare una mano in quel periodo intenso) e qua abbiamo celebrato i primi battessimi di cui raccontavo all’inizio.

Dopo la Pasqua gli impegni pastorali sono diminuiti e da maggio/giugno cominciano le “vacanze” per i missionari: molte delle attività sono concentrate durante la quaresima non soltanto perché è un tempo forte dell’anno liturgico, ma anche per adattarsi ai ritmi della vita locale, infatti fra poco comincerà la stagione delle piogge (abbiamo già avuto i primi temporali, ma poi è tornato il gran caldo) e sarà impossibile raggiungere le altre zone della parrocchia in quanto le strade, ora sabbiose, diverranno dei veri e propri fiumi di fango e saranno persino a tratti sommerse (faccio fatica a immaginarmelo vista la siccità che ho trovato, ma così mi hanno detto...) e tutti saranno a lavorare nei campi.

Di fatto, se anche si riuscisse a viaggiare per andare a visitare i villaggi, lì si troverebbero deserti. Intere famiglie, anzi intere comunità, per vivere dipendono esclusivamente da quello che riescono a produrre, principalmente miglio, arachidi e manioca, ma anche altri cereali e legumi, e durante il periodo della semina restano giorno e notte nei campi. Qua nella missione, a Moïssala, c’è anche una scuola e già all’inizio mi era stato proposto di aiutare l’abbé Edmond nell’insegnamento religioso prendendo alcune delle sue classi delle medie o del liceo, ma ho potuto cominciare solo un paio di settimane fa perché quando sono atterrato in Ciad ho trovato tutto il Paese in sciopero! Non solo le scuole, ma anche le banche, gli uffici, persino gli ospedali... tutto chiuso! Il motivo è che il governo aveva dimezzato tutti gli stipendi, che già non erano alti, rendendoli di fatto insufficienti per vivere. Lo sciopero quest’anno è durato più di tre mesi, fino a fine marzo. Ho detto “quest’anno” perché anche l’anno scorso ci sono stati due mesi di sciopero generale, in quel caso perché il governo aveva smesso completamente di pagare gli stipendi. Vedete che la situazione economica non è tranquilla, e a rimetterci sono intere famiglie che faticano a trovare da mangiare, i malati che devono aspettare che gli ospedali riaprano (quanto meno il reparto pediatrico non era stato chiuso!) e i giovani, che non hanno accesso a una buona educazione. Già il livello dell’istruzione e la qualità delle scuole è davvero deludente; in più si aggiungono continue e prolungate interruzioni...

Comunque sia, ora ho iniziato questo impegno a scuola: ho quattro classi e anche se all’inizio ero un po’ preoccupato di non esserne all’altezza questo impegno mi sta piacendo. Oltre a ciò mi sono anche proposto per una sorta di doposcuola in matematica e fisica per gli studenti interessati. In realtà dovrei chiamarlo “prima-scuola” e non “dopo-scuola” dato che si svolge la mattina: infatti, non essendoci abbastanza aule per tutti, i bambini della scuola elementare hanno lezione la mattina e i ragazzi delle medie e del liceo il pomeriggio. Si spera di poter cominciare presto la costruzione della nuova scuola e la comunità dovrebbe iniziare a breve a preparare i mattoni necessari, ma bisogna trovare ancora un po’ di fondi. Tornando al mio “prima-scuola”, faccio una mattina con i ragazzi interessati delle classi 6a e 5a (ovvero le nostre prime e seconde medie), una mattina con quelli di 4a e di 3a (terza media e prima superiore) e una mattina con quelli di 2a e delle due 1e (seconda e terza superiore). Manca la classe di “terminale”, che è quella della maturità, perchè ancora non ci sono arrivati in questa scuola: l’anno prossimo gli attuali studenti di “première” saranno i primi a diplomarsi.

E così un po’ alla volta il mio impegno del tempo si sta riempiendo e pian piano sento che si sta creando una routine, sia a causa delle attività, sia perché sto entrando nella cultura locale e mi sto abituando al modo di pensare della gente. La mia esperienza resta sempre piena di sorprese e di novità, certamente, ma ogni tanto mi sorprendo a non vedere più alcune cose come strane (come mi apparivano all’inizio), ma come normali e di non farci più caso! E questo succede sempre più spesso.

Tra le cose che mi hanno colpito di più ci sono la nozione di tempo e la condizione delle donne e dei bambini. Alla nozione di tempo che la gente ha... bisogna abituarcisi. Non esiste la fretta, e nemmeno la puntualità: a mie spese ho imparato che quando do appuntamento a qualcuno posso aspettarmi che arrivi in un qualunque momento tra l’ora dell’appuntamento e il giorno successivo! O anche che non arrivi proprio.

La condizione delle donne e dei bambini è forse ciò che mi ha colpito di più, e più duramente. Se dovessi fare un ritratto della donna la disegnerei con un bambino sulla schiena o con un secchio d’acqua portato in equilibrio sulla testa, anzi spesso entrambi contemporaneamente, e sempre indaffarata a lavorare, o cucinare, o lavare...

I bambini, invece, sono tantissimi (una coppia può facilmente avere una decina di bambini o più!) e spesso sono alquanto abbandonati a loro stessi; non tutti vanno a scuola e molti passano il tempo tirando sassi per cercare di far cadere qualche mango dagli alberi e avere qualcosa da mangiare durante la giornata, oppure occupandosi delle mandrie di buoi della famiglia.

La cosa che forse faccio più fatica a vivere è come le donne e i bambini passino molto spesso in secondo piano: le donne cucinano e gli uomini sono i primi a mangiare, spesso tra di loro e senza le donne, che mangiano a parte. E solo quando gli adulti hanno finito di mangiare, se resta qualcosa, lo si dà ai bambini. Questi comportamenti, questi ruoli sociali, sono profondamente ancorati nella tradizione: quelle volte che mi è capitata l’occasione di dare una mano, ad esempio sbucciando le arachidi o lavando i piatti dopo il pasto, subito una donna veniva e mi toglieva il lavoro dalle mani, rifiutando di lasciarmelo. Oppure quando ho chiesto a qualche ragazzo, anche più giovane di me, perché ogni tanto non si sostituissero alle ragazze loro coetanee nella cucina, mi hanno risposto che è perché alle donne piace cucinare e non vorrebbero che fossero gli uomini a farlo! Per fortuna ci sono anche delle eccezioni!

Non penso di aver visto già a sufficienza e di conoscere abbastanza bene la cultura locale per poter generalizzare e formulare delle tesi, ma mi sembra che molti dei casi di malnutrizione infantile che si vedono non siano dovuti esclusivamente a mancanza di cibo, ma anche (e in che misura?) a un’insufficente attenzione nei confronti dei bambini. Certo la povertà è presente (certe famiglie vivono davvero con poco), ma non mi ha sorpreso più di quanto mi aspettassi. Forse questo anche perché è una poverta che non è miseria: la gente ha poco, ma è abituata a fare con quello che ha e non a lamentarsi continuamente. Mi hanno particolarmente colpito un paio di episodi: mentre l’abbé Edmond ed io andavamo in moto a Mousnini, in mezzo a un campo sotto a un albero di mango stava seduto un vecchio. Edmond mi ha detto che era lì per fare la guardia ai frutti ed evitare che qualcun’altro venisse a coglierli, perché quell’albero era una delle poche proprietà della famiglia, indispensabile per la loro vita. E così lui e sua moglie si alternavano per passare le giornate e le notti sotto l’albero... Oppure un’altra volta una signora è arrivata qua a Moissala a piedi da un villaggio a oltre 80 km di distanza semplicemente per portare un messaggio e un po’ di soldi da parte della sua comunità. 160 km a piedi, andata e ritorno, non avendo altri mezzi di trasporto o il denaro per un passaggio in “clandò” (taxi-motocicletta)!

Quando ho pensato di scrivere qualcosa da condividere con voi ho faticato a trovare da che parte cominciare, tante erano le cose da raccontare. E tante ne restano, ma mi sembra di aver già scritto molto... saranno per la prossima volta.

Un abbraccio dal Ciad

Ephrem

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