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Lettera di Paolo Cattaneo, gimmino di Verona, dall' Uganda

Carissimi amici gimmini e gimmine,
spero che stiate tutti bene e che le attività di questo mese si siano svolte al meglio!
Vi scrivo finalmente dall’ospedale di Kalongo, in terra Acholi, nel nord Uganda. Non sapevo come iniziare…e quindi incomincio con le mie primissime ore dopo l’atterraggio.
  Al mio arrivo in Uganda, verso le 11 di sera del 1° maggio, appena uscito dall’aeroporto di Entebbe mi sono scontrato con quella che, incredibilmente,

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Carissimi amici gimmini e gimmine,

spero che stiate tutti bene e che le attività di questo mese si siano svolte al meglio!

Vi scrivo finalmente dall’ospedale di Kalongo, in terra Acholi, nel nord Uganda. Non sapevo come iniziare…e quindi incomincio con le mie primissime ore dopo l’atterraggio.

  Al mio arrivo in Uganda, verso le 11 di sera del 1° maggio, appena uscito dall’aeroporto di Entebbe mi sono scontrato con quella che, incredibilmente, è a pieno titolo una delle principali cause di morte nel Paese: la modalità di guida. Ne sono rimasto molto colpito perché, dal breve viaggio che avevo fatto in Togo 9 anni fa, non ricordavo che la situazione fosse a questi livelli (ma d’altronde è passato parecchio tempo e i miei ricordi potrebbero essere falsati, oppure le due realtà sono un po’ differenti).  Mi è difficile descrivere con precisione le condizioni del mio viaggio in auto tra Entebbe e Kampala, la sera del mio arrivo, e tra Kampala e l’aeroporto di Kajjansi, la mattina successiva. Il programma era infatti quello di fermarsi a dormire poche ore a Kampala, prima di ripartire per raggiungere un piccolissimo aeroporto (Kajjansi), con la pista in terra battuta, da cui sarebbe decollato il volo interno per raggiungere Kalongo, effettuato con un aeroplano da 12 posti. Ebbene, inizialmente non è che sprizzassi gioia da tutti i pori all’idea di prendere voli interni africani con aeroplanini minuscoli (immagino mi capirete), inoltre mi sarebbe molto piaciuto percorrere in macchina la distanza tra Kampala e Kalongo, per vedere l’ambiente circostante. Tuttavia, dopo il viaggetto in auto serale, il volo interno da 12 posti mi è parso all’improvviso quanto di più sicuro esistesse al mondo… Diciamo che, almeno per quanto ho visto io, la guida nella zona di Kampala (dove ci sono un sacco di automobili per le strade) funziona più o meno in questo modo. Innanzitutto, guidare a meno di 60-70 km/h sembra essere un’onta terribile, indipendentemente dalle condizioni del traffico. Le strade principali, solo nella zona della capitale e nel caso di poche altre strade di importanza nazionale, sono asfaltate e divise in due corsie; nelle ore di punta, nel senso di marcia più trafficato, si viene a creare una fila di auto più lente che sta nella giusta corsia, e una vera e propria fila di auto più veloci che, portandosi in sorpasso, si appropriano a tutti gli effetti della corsia opposta. Il malcapitato che sopraggiunge nel senso opposto (come nel caso del mio viaggio tra Kampala e Kajjansi) nulla può contro questo spodestamento e il problema si risolve in questo modo: le due macchine sulla stessa corsia cominciano a farsi i fari e a strombazzare vicendevolmente, senza pressoché preoccuparsi di rallentare fino all’ultimo momento, finché una si butta a lato con una ruota fuori dalla strada, la macchina in sorpasso si tiene in centro alla strada e quella più lenta che sta venendo sorpassata si butta a sua volta a lato dall’altra parte, in modo da creare una terza corsia “fittizia” per quella in sorpasso.Naturalmente bisogna sperare che tutti e tre gli attori stiano a questo schema. Inoltre, immediatamente ai lati della strada ci sono generalmente un sacco di case e negozi (ovviamente molto poveri, quasi sempre baracche) ed è pieno di adulti e bambini che rischiano continuamente di venire arrotati…rischio che purtroppo spesso si concretizza. Scusate dunque se mi sono dilungato su questo argomento, ma ho rischiato l’infarto (e gli incidenti frontali) ogni 30 secondi per tutto il tragitto. Al di là del tono ironico per sdrammatizzare, gli incidenti stradali sono davvero una tragedia qua in Uganda. In una situazione di pace (o comunque di relativa tranquillità) come oggigiorno, sono la seconda causa di morte dopo le malattie e i problemi di tipo medico. Anche nelle aree più remote, come qui a Kalongo, il problema sussiste drammaticamente: ci sono molte persone che si spostano in motocicletta (che in lingua locale è chiamata boda-boda), con cui è ancora più facile morire. In questo periodo, ho già visto o sentito direttamente di 8-9 incidenti mortali avvenuti in questo mese nella zona, quasi tutti in moto, in cui spesso a morire sono dei giovani. È dunque un problema molto importante.  

Naturalmente, ritengo che la madre di tutti i problemi sia, in ultima analisi, la povertà. Dal problema della povertà derivano, a mio parere, le condizioni di guida, delle strade, degli automezzi, la cultura e gli atteggiamenti della gente, nonché, ovviamente, i problemi di ordine medico, economico, sociale. E la povertà certamente si tocca con mano qui in Uganda. Ma essa, a differenza degli incidenti stradali, me l’aspettavo. Questa cosa ha sempre stupito parecchio i miei interlocutori…molte persone che ho conosciuto, tornate da un paese del cosiddetto “terzo mondo”, dicono di esser state colpite dalle condizioni di miseria più ancora di quanto immaginassero. Sarà che, personalmente, non ho mai avuto difficoltà a pensare ai paesi poveri come a popolazioni martoriate, spremute dal giogo dell’imperialismo e neocolonialismo dei “ricchi” e dalle élite dirigenti locali, al punto che ho sempre trovato le condizioni di vita, fin dal mio primo viaggio in questi paesi, più o meno come me le aspettavo. Il che non vuol dire che non mi lascino basito o non indignino. Una delle prime cose che ho pensato qui a Kalongo, di fronte alle prime esperienze di pazienti (in particolare ragazzi) che in Italia sarebbero per lo meno trattabili mentre qui sono destinati a morire, è stata a quanto abbia ragione padre Zanotelli riguardo l’effetto che fa “leggere la Bibbia nel contesto dei poveri”. Alcuni dei momenti in cui lo sento emergere con la massima evidenza sono quelli in cui vengo fermato di continuo da persone che chiedono un “aiuto”, che alla fin della fiera è sempre un aiuto economico. A me non infastidisce per niente, casomai mi mette in profondo disagio, perché non posso fare a meno di leggere dietro a questa richiesta una grande accusa, in merito alla quale quasi tutta la ragione sta dalla parte dell’accusatore e quasi tutto il torto dalla nostra. La Bibbia letta con gli occhi dei poveri: è Gesù che dice al ricco “Una sola cosa ti manca per…”…e dunque perché non lo stai facendo? Questa l’accusa che mi sento rivolta dietro ogni richiesta. La richiesta di Gesù è lì, chiara e impossibile da fraintendere…e quanto è evidente in questo contesto! Possiamo dunque inventarci mille giustificazioni, dire che non possiamo aiutare tutti (ed è vero), ma il punto è che io non sto davvero vendendo tutto tutto quello che ho per darlo ai poveri e mettermi, privo di ogni bene, a seguire Cristo. E credo che quasi nessuno di noi lo faccia davvero fino in fondo (si badi bene, ho detto “quasi nessuno”). Abbiamo dunque quasi tutti un po’ di ipocrisia e contraddizioni (quasi tutti). È il cammello e la cruna dell’ago. Alcuni mi dicono che ammettere le proprie contraddizioni non le migliori di una virgola, e credo che abbiano perfettamente ragione. Tuttavia, riconoscere di essere incapaci di eliminare del tutto le proprie contraddizioni e, pertanto, costruire mastodontici castelli di carte e perverse ideologie per negare la propria dose di ipocrisia non mi sembra certo un’azione migliore. Eppure è quello che viene fatto quotidianamente da moltissimi cristiani, direi la grande maggioranza dei cristiani, nonché ciò che ha fatto la chiesa per duemila anni, con il solo risultato di snaturare il messaggio evangelico (e vivere in pace con la propria coscienza…e un conto in banca ben fornito. Meglio se banca “armata”). Per fortuna ora c’è papa Francesco…spero che campi cent’anni, perché ho ancora qualche inquietudine sulle eminenze porporate che dovranno sceglierne il successore. Inoltre, ammettere le proprie contraddizioni (certo, purché non siano grandi e purché ci sia la reale tensione spirituale a migliorare di continuo, è ovvio) consente di cominciare a rifiutare i sistemi politici ed economici, causa di guerra e povertà, che imperano oggigiorno. I castelli di carta per snaturare il Vangelo, invece, finora hanno solo portato ad assecondarli. Per poi lavarsi la coscienza con qualche pia opera assistenzialistica.  

Chiedo scusa a tutti voi per la mia prolissità, e perché forse sembra che abbia scritto due pagine senza ancora aver parlato dell’Uganda e di quello che sto vivendo. Ora lo faccio, promesso. Ma se non l’ho ancora fatto non è, giuro, perché non rimanga con la bocca aperta nello scendere dall’aereo e trovarmi di fronte centinaia di bambini che si affollano ai lati della pista d’atterraggio come se stessero assistendo a qualcosa di miracoloso, o nel veder la bellezza dei loro sorrisi, ma perché, di fronte alla famosa domanda “cosa ti sei portato a casa da quest’esperienza?”, ebbene in definitiva, e spero di non deludere nessuno, ciò che mi sarò portato a casa non saranno i sorrisi dei bambini e delle mamme e la gioia di una guarigione, ma quanto detto sopra. O meglio, certo che saranno i sorrisi e tutto il resto, come sarebbe possibile il contrario…ma il punto è: e quindi? Una volta che me li sarò portati a casa? Cosa cambia? Per me, me li sarò portati davvero a casa se il loro ricordo mi aiuterà, giorno per giorno, a tenere bene in mente tutta la riflessione fatta sopra, anche quando le cose saranno magari più difficili. A non snaturare il Vangelo. A non deviare troppo col timone, almeno…e cercare di eliminare sempre più le mie contraddizioni. Di cui, stando qui, mi vergogno più che mai. Altrimenti, in mia opinione, sarebbe tutto solo retorica. Credo di averne sentiti e letti tanti di “racconti africani”, assolutamente bellissimi, ma se alla fine ciò che resta è solo “Lode a Dio per quanta bellezza c’è anche nella povertà! Ringraziamo per ciò che abbiamo invece che lamentarci! Eppure vince la vita! Aiutiamo questi nostri fratelli!”…ebbene, queste cose vere e giuste sarebbero solo retorica. Perché per quanto l’opera dei missionari e di varie ONG sia straordinaria, sembrerà brutto ma è pur sempre cercare di svuotare il mare con un cucchiaino (e stando qui lo si coglie davvero). Intendiamoci, ogni singolo cucchiaino è qualcosa di meraviglioso e irrinunciabile, quanto di più bello esista al mondo, ne sono veramente convinto…ma al resto del mare che non ha la fortuna di entrarvi, non si può dire “campa cavallo che l’erba cresce”. Chiede che tutto il mare sia svuotato. Tutte le opere missionarie, quindi, penso acquistino totale compimento solo quando, con esse, si lotta contro le cause strutturali, politiche e socio-economiche, che ne determinano la necessità. Eppure mi sembra sia ancora esattamente come diceva Helder Camara: “Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Quando mi chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”.   Ho scritto tutto questo, voglio assolutamente sottolinearlo, non per raccontare come la penso su questo o quell’altro argomento (chi se ne frega???), ma semplicemente perché sono le domande che quest’esperienza mi sta portando a pormi quotidianamente. In particolare il rivedere le mie contraddizioni e perché lo sento così importante. Aver raccontato questo, quindi, è raccontare le mie sensazioni e sentimenti di questo periodo…se non l’avessi fatto, sarebbe stato un racconto distorto. Ma venendo dunque a esperienze più concrete, ho accennato a questa miriade di bambini che mi hanno accolto sulla pista di atterraggio al mio arrivo a Kalongo (che ha anch’esso un aeroportino minuscolo in terra battuta, in cui atterrano solo gli aerei da 3-12 posti). Per loro ogni volta che atterra un aereo è un evento, sia per l’aereo, sia per la curiosità di vedere chi arriva! Che imbarazzo che ho provato, mi sembrava di essere qualche “vip” borioso, con i fan ad attenderlo che lo guardano come se stessero guardando il papa…anche se so che non era nulla di tutto ciò. Per fortuna è durato poco! Con i bambini ho a che fare spesso, non solo nell’attività lavorativa, perché vicino alla guesthouse dove alloggio ci sono le “case” (capanne) di alcuni lavoratori dell’ospedale e delle loro famiglie…con, naturalmente, molti bambini. Nel pomeriggio arrivano spesso in gruppo attorniandomi, ed è tutto un continuo di “Munu! Musungu! Munu!”, due parole che in lingua Lwoo, la lingua parlata dagli Acholi, vogliono dire “bianco”, usate dunque nel senso di “uomo bianco”. Si divertono soprattutto a deridermi per via dei miei capelli “lunghi”, poiché qui tutti gli uomini portano i capelli completamente rasati…me li tirano e ridono come se fossero la cosa più buffa del mondo. Talvolta capita di essere canzonati non solo dai bambini, ma anche da gruppi di adolescenti o veri e propri adulti…passi loro vicino e li senti confabulare e scoppiare a ridere, facendoti capire senza alcun problema che ti stanno apertamente deridendo. Ad alcuni questa cosa dà fastidio, ma secondo me le motivazioni di queste reazioni sono le stesse che ci ha già descritto perfettamente Maria Teresa, quando ci raccontava di esser stata chiamata “gringo” durante il suo periodo in centroamerica! Ad ogni modo, inoltre, sono episodi piuttosto secondari…e in genere ho trovato sempre un’eccezionale ospitalità e vitalità da parte di quasi tutti gli Acholi! Una cosa molto divertente riguarda i bambini più piccoli, soprattutto quelli che arrivano in ospedale dai villaggi più remoti e non hanno mai avuto molte occasioni di vedere “l’uomo bianco” in precedenza. Alcuni rimangono stupitissimi e fanno a gara a darmi la mano, mentre altri sono spaventati a morte. Ricordo una bambina in visita all’ambulatorio HIV che appena mi ha visto ha iniziato a guardarmi più o meno come si guarderebbe un mostro a tre teste e a piangere come una disperata. Qualsiasi mio tentativo di avvicinarmi o mostrarmi sorridente peggiorava solo la situazione…eravamo lì io, la mamma della bambina e il clinical officer (una sorta di medico, ma che non può fare proprio tutto quello che fa il medico) che ridevamo a crepapelle, mentre lei sembrava quasi la stessimo uccidendo…son quasi dovuto uscire dalla stanza! I bambini costituiscono anche una fetta non irrilevante dei pazienti della clinica HIV, dove sto svolgendo la mia attività. In particolare, sono in una specie di ambulatorio, insieme al clinical officer, dove vengono a farsi visitare i pazienti malati di HIV che hanno qualche problema. Non la faccio lunga sui problemi di tipo medico che si incontrano…comunque, mentre in generale ho trovato l’ospedale più povero di quanto pensassi (del resto si fa quel che si può con i fondi a disposizione), la parte riguardante la cura dell’HIV è invece molto migliore di quanto mi aspettassi. I farmaci forniti ai pazienti, sebbene non siano presenti quelli di ultimissima generazione, sono comunque molto più avanzati di quel che credessi. I pazienti vengono in ospedale una volta al mese circa e ritirano i farmaci per l’HIV in via del tutto gratuita…e se hanno dei problemi si fanno visitare, sempre gratuitamente. Questa possibilità è una peculiarità del settore HIV e di poche altre medicine: normalmente l’ospedale applica un piccolo prezzo per ciascun tipo di prestazione, molto accessibile per la popolazione. Va detto però che, qui a Kalongo, non è possibile ricevere certe prestazioni particolarmente elevate, ad esempio la chemioterapia, oppure la diagnostica avanzata. Esse sono disponibili all’ospedale di Lacor, a Gulu, ma in genere solo a pagamento e il costo è del tutto proibitivo per la grande maggioranza della popolazione. Determinate patologie, dunque, hanno purtroppo un inevitabile epilogo. Ho avuto una brutta esperienza in questo senso proprio questa settimana, con un ragazzo di 25 anni probabilmente affetto da un sarcoma di Kaposi… Tuttavia, come ci insegna padre Davide, lasciamo almeno un po’ da parte le brutte esperienze e guardiamo alle cose belle…e le cose belle, in fondo, sono tutti i pazienti che vedo ogni giorno venire a ritirare le medicine e ripartire verso casa, senza lamentare alcunché! Sarebbe possibile tutto questo, in una zona così remota del nord Uganda, se padre Ambrosoli non avesse fondato quest’ospedale? La clinica HIV ha anche numerosi programmi che vengono svolti direttamente nei villaggi, in the field…la medicina portata nelle case di ogni paziente. Prendervi parte mi ha permesso di vedere la vita di questi villaggi…e la sua incredibile essenzialità! Le abitazioni sono capanne circolari di pochi metri quadrati con il tetto in erba…tranne in quelle più grandi in cui è presente un letto. I “letti” sono normalmente delle stuoie sul pavimento. Sono però sempre presenti una o due sedie o sgabelli per gli ospiti, nonché un filo appeso su cui stendere i vestiti, la bacinella e l’anfora per l’acqua. È incredibile l’ospitalità di questa gente, che, almeno per la mia esperienza durante questi programmi, ti accoglie a braccia aperte pur non possedendo “nulla”, se giudichiamo secondo i canoni occidentali! Chi può, fa trovare anche delle bibite da offrire.   Nel corso degli ultimi vent’anni sono stati scavati moltissimi pozzi d’acqua in questa regione, che ha facilitato la vita in molti villaggi. Tuttavia, ci sono ancora abitazioni in zone fino a due ore di cammino dal pozzo più vicino…e infatti i casi di disidratazione in ospedale si vedono. Parlando del cibo, invece, non si può non citare quello comunemente mangiato dai poveri: poscio (una sorta di polenta) e fagioli…cosa che, se portata all’estremo, può sfociare in casi di severa malnutrizione, soprattutto per mancanza di un buon apporto proteico. Visitando questi villaggi, inoltre, ho avuto occasione di vedere meglio il bellissimo paesaggio di questi luoghi, che descriverei come “quasi savana” (un po’ più alberi e con appezzamenti di terreno coltivati). Farò vedere qualche foto al mio ritorno (ma io sono un pessimo fotografo e, per giunta, la mia macchina fotografica è oscena e non rende per niente l’idea). Una cosa molto utile di questi programmi legati all’HIV è anche la presenza del “counselor”, diciamo una specie di psicologo, che è estremamente importante per garantire l’aderenza dei pazienti alla terapia e per individuare, in generale, le situazioni sociali che mettono a repentaglio la salute, nella speranza di poter intervenire per eliminarle (ce ne sono tante e la cosa non sempre è possibile…come potete ben immaginare). Oltre al problema generale della povertà, il popolo Acholi è un popolo la cui gente deve ancor oggi fare i conti con un terribile passato, a causa della ventennale guerra civile che ha segnato profondamente il nord Uganda. Non sono certo la persona più adatta a parlarne, dato che sto imparando anch’io tantissimo a riguardo. Ho alcuni racconti in merito che mi hanno molto colpito, che evidenziano come riusciamo a denunciare i “mostri” che non ci vanno a genio (come Joseph Koni), ma ci dimentichiamo sempre di quelli con cui andiamo a braccetto…ma se apro anche questo capitolo rischio davvero di scrivere la Divina Commedia e non mi sembra il caso, ne parlerò eventualmente al mio ritorno!  

Bene, credo di aver fin mai esagerato, la chiudo qui! Un abbraccio a tutti e a presto!!

  Paolo Cattaneo      

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